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27 gen 2017

L'ULTIMA FERMATA #Racconto di Arianna #Iezzi, - ARDUINO ROSSI

             In onore del giorno della memoria, per non dimenticare, mai

Non ho parole
Il corpo soffre
la mente pensa
il cuore piange.

L’ULTIMA FERMATA

Volvo rossa station wagon piena di tutto come conviene ad un artista errante.
Il caro pittore amico di famiglia mi invita ad andare in Polonia sua terra natale. Accetto, malgrado la differenza di età. Partiamo in un giorno di aprile pieno di sole. 
A Warszaw ci aspettano la moglie con i cagnolini: Kaja e Buba, un’elegante coppia di bassotti, molto giocherellona.
Il viaggio comincia senza fretta, guida lui ed io osservo. Osservo lui ed il panorama; non so cosa mi attira di più. Passiamo la prima frontiera e usciamo dall’Italia. Arriviamo a Dresda, cittadina pulita e ordinata, mi colpisce il centro senza automobili. In un albergo piccolo ma di lusso, prendiamo possesso delle nostre rispettive camere, poi l’artista si reca a cercare un soggetto adatto per un suo nuovo quadro. 
Ritrae paesaggi dal vero, e non come fanno tanti pittori che copiano belle cartoline. A sera torna e mi chiede di “scrutare” bene il suo capolavoro: nel dipinto, eseguito lasciando il colore corposo, si nota una “A” celata fra i rami degli alberi. 
Un tributo alla sua giovane amica! Il giorno seguente ripartiamo e questa volta guido io. I campi si susseguono ai boschi, i colori sono intensi, merito del bel tempo e dell’aria pura.
“Guarda, Ari, com’è bello il mondo!” Wlod (Włodzimierz Zakrzewski questo è il nome Del mio amico pittore), esprime la sua gioia.
Per il paesaggio affascinante, o perché è contento della mia presenza?
“Radar!” Esclama un attimo dopo.
“Radar!” Continua.
Io sto guidando a velocità sostenuta e lui mi sta avvisando che lungo l’autostrada sono stati installati i rilevatori di velocità. Comprendo e continuo rallentando la mia andatura. Il viaggio è lungo, dopo altre tappe ci avviciniamo alla sua Polonia, decidiamo di fare una sosta per riposare, anche per compiere una visita culturale, la nostra ultima fermata è: Oświęcim, in tedesco Auschwitz il campo di concentramento.
Varchiamo il cancello con la famosa scritta. Il binario nero e diritto è arrivato al Capolinea e tutto intorno sembra di avvertire ancora odore di morte.
Le costruzioni allineate una di seguito all'altra parlano da sole agli alberi, anch’essi allineati ma solo lungo il perimetro di questo lugubre posto. Ogni edificio conserva il passaggio di una umanità strappata alla vita da individui appartenenti sì al genere umano, ma colmi di presunzione, di odio, di pazzia. L’aria non è più tersa, lo smog è pesante, la cappa nera aumenta il disagio che incomincio a sentire inoltrandomi sempre di più in questo giro turistico da brivido. Un lungo percorso di terra battuta e protetto da alti fili spinati mi conduce a quelle che erano le infermerie, con i piccoli presidi medici: urla strazianti in questo silenzio muto, sono rimaste aggrappate ai muri. Giro intorno più volte a quelle baracche squadrate, tutte uguali, ideate per eseguire ordini diversi, ma gli esecutori avevano tutti l’unico scopo di essere attori sadici della storia. Un edificio più basso e lungo si sta avvicinando, lo vedo ben chiaro. 
Arrivo, apro la porta ed entro in un grande vano con il soffitto basso, dal quale pendono numerosi soffioni di docce, questo posto emana una pesante presenza di anime: pianti abbracciati coscienti nel freddo. Poi il fumo e più niente.
L’ultima palazzina mi aspetta per darmi conferma che tutto è realmente accaduto: vetrine piene di borse, di occhiali, di capelli. Cumuli di stampelle, cataste di valigie, mucchi di vestiti e poi paralumi di mummie. Saponette intoccabili. Tutto è reale quanto la mia angoscia che mi fa chiedere: perché?
Perché tanto accanimento, perché tanto dolore, sadismo, violenza gratuita, miseria dell’anima? Come ha potuto la mente umana pianificare un progetto tanto orribile? La storia ci ricorda le persecuzioni dei forti sui
deboli, le torture più efferate, gli eccidi e i crimini commessi in nome di qualche dio o di chissà quale causa ideata da menti contorte. 
Tutta questa violenza è servita a migliorare l’uomo e la sua condizione?
“Io ti aspetto al parcheggio.” Mi avvisa Wlod.
Capisco il suo stato d’animo, lui che è stato prigioniero in Siberia, lui che ha avuto tanti amici deportati , anche nel campo appena visitato. 
Lui che ha visto la sua Warszaw completamente distrutta. Lui che ha dovuto ricomporre la sua anima!
Questo giro turistico mi rimarrà impresso nella memoria. Esco. E’ scontatodire: “Non ho parole”. Ma istintivamente è l’unica frase che si riesce ad esprimere. Tutte le parole della nostra conoscenza non bastano e non riescono a descrivere quelle morti presenti in ogni mattone, in ogni finestra, in ogni recinto, in ogni granello di terra, in ogni filo d’erba, senza che io abbia visto un solo cadavere. Volto lo sguardo a Wlod, è triste e silenzioso, solo poco prima aveva detto che il mondo è bello!
“Perché vi siete rassegnati ? Perché vi siete fermati?”
L’ultima fermata. Noi ripartiamo.


Tratto dal libro ASHANTI scritto da Arianna Iezzi – Stampa luglio 2011 - arianna.iezzi58@gmail.com

12 set 2012

di fantasmi storie .... IL DRAGO VOLANTE








IL DRAGO VOLANTE

Più nessuno crede ai draghi volanti, eppure ci fu un tempo nel quale questi mostri terrorizzavano le genti delle valli alpine.
Molti libri antichi raccontano gli orrori causati da queste belve demoniache, in alcuni casi si ritrovano le descrizioni minuziose del loro aspetto e delle loro abitudini.
Io non so a quale specie appartenesse quello che infestò l'alta valle Brembana, ma sicuramente fu uno tra i più feroci: sbranava il bestiame e i guardiani che lo affrontavano.
Era gente povera: l'allevamento era l'unica loro ricchezza e quell'enorme volatile portò la carestia.
Non si alzava molto dal suolo e talvolta strisciava la pancia squamosa da rettile sui tetti delle case, il suo vorticoso agitare le ali spandeva una malefica polvere gialla che insecchiva gli orti e faceva cadere le foglie dagli alberi.
Un giorno un vagabondo si inoltrò nell'alta valle, forse per sfuggire alla giustizia o a qualche vendetta.
Era un uomo forte, ma con le mani delicate e con la schiena diritta di chi non aveva mai lavorato.
Pareva un soldato, di quelli che stanchi della divisa si mettono a servizio dei tirannelli di campagna.
Egli non era uno che amava la disciplina e un padrone: finiti i denari del congedo sarebbe passato probabilmente ad ingrossare le file dei briganti della valle.
Parlava contro voglia e non rispondeva a domande sul suo passato, però ascoltava tutti: in particolare si interessava dei fatti dei malviventi e delle leggende dei bottini nascosti.
Un vecchio contadino affilava la falce al bordo del suo prato e il vagabondo gli chiese del vino, così discussero di vari argomenti e il discorso si fermò sul drago: -Se tu non l'hai mai visto sei fortunato! Nessun essere ha le sue sembianze! Il capo è coperto di penne gialle e la schiena rossa è piagata. Il petto è increspato di dure lamine cartilaginee che lo proteggono sino sotto il mento ed esso le scuote quando è furioso, agitandole con la testa e causando un assordante rumore!-
-Vecchio, nessuno ha mai pensato di ucciderlo?-
-Molti hanno perso la vita nel tentativo di contrastarlo, perché erano inesperti pastori, armati di bastoni!-
-Se voi valligiani pagaste un premio sarei disposto a portarvi la sua testa. Ovviamente pretendo una ricca taglia, da farmi campare per molto tempo, soddisfacendo tutti i miei desideri!-
-Non farlo! Quella non è una belva di questo mondo; Dio ha permesso a Satana di liberarla dall'Inferno per fini sconosciuti, noi dobbiamo rassegnarci e pregare!-
Il forestiero spese gli ultimi soldi per un malandato archibugio e si avventurò sulle tracce del drago. Per sua sfortuna la belva si spostava e gli sfuggiva sempre, quell'essere doveva pur avere una tana ed egli la trovò.
-Eccomi belva appestata! Niente e nessuno è sfuggito a Fosco!-
Quella pareva l'entrata dell'Inferno: non si vedeva dove terminava e i vortici del vento imprigionato risuonavano in un lamentoso fruscio.
A sera il drago rientrò nella sua tana, si appollaiò sull'orlo della voragine e stese le alette, guardandosi intorno.
Fosco era ben nascosto tra i cespugli: -Che essere orrendo! Miseri quelli che sono finiti tra le sue fauci!-
Sulla fronte del mostro un diamante grosso come un pugno era incastonato tra le grinza delle squame.
-Maledizione! Devo impossessarmi di quella pietra e vivrò nell'abbondanza sino alla vecchia!-
Il drago agitava la coda nodosa e colpiva gli arbusti vicini, fiutava l'aria e spalancava l'ampia bocca, digrignando i denti contro eventuali nemici.
-Il diamante sarà mio, devo agire con furbizia, e non nei pressi della sua tana, dove conosce ogni nascondiglio!-
Il mostro emise uno dei suoi agghiaccianti urli e si lasciò cadere, sparendo nel buio.
Poco distante Fosco trovò una pozza acquitrinosa, dove il mostro
si abbeverava e attorno rinvenne con orrore i resti dei feroci pasti.
Il puzzo nauseabondo lo dissuase dall'idea di un appostamento nei pressi.
Fosco rubò un agnello e lo legò sulla cime di una radura, collocandolo bene in vista e attese per parecchio tempo.
Il drago si accorse della facile preda e calò su di essa con le fauci aperte.
Fosco accese la miccia dell'archibugio: -Avanza, su vieni! Basterà un colpo e sarò ricco!-
Sicuro di sé si avvicinò per sparargli direttamente negli occhi, mentre il mostro placido sbranava l'agnello.
L'archibugio gli esplose tra le mani ed egli cadde ferito, la vista gli si annebbiò; purtroppo Fosco non svenne e capì che il drago lo stava azzannando.
Il suo grido di dolore fu udito da un gruppo di contadini, che accorsero in suo soccorso, armati di forconi e di zappe.
Era troppo tardi, il drago volava via indisturbato ed essi raccolsero i resti dello sventurato: la testa intatta con gli occhi spalancati e con la bocca tesa per l'ultimo rantolo.
La seppellirono nel luogo della tragedia e posero una croce di legno, ritornando al loro lavoro borbottando: -Chi lo combatte muore sbranato e chi si rassegna muore di fame, perché perde tutto il bestiame!-
Il vento del Nord aveva sospinto il drago volante sopra le loro case e i loro pascoli, ancora una gelida folata lo trasportò lontano.
I montanari non vollero sapere dove fosse andato, a loro bastava di esserne liberati.
La vita ritornò normale per tutti, soltanto i contadini che avevano seppellito Fosco non dormivano tranquilli, ogni notte quell'anima in pena piangeva e chiedeva aiuto.
Ci fu pure qualche ignaro viandante che vide, accanto alla croce, le spettro di un uomo così disperato: provò più compassione che paura.
La notizia si sparse e nessuno osava avvicinarsi alla tomba dopo il tramonto, nelle cascine il sonno era difficile e tutti si tappavano le orecchie, ma quel sussurro ininterrotto penetrava in ogni fessura.
Trascorsero decenni e la gente abbandonò la sua abitazione, pur di non sentirsi anime dolenti.
L'ultima famiglia di contadini rimasta non voleva lasciare i propri beni; si diceva che essi avevano ormai sul volto il colore dei morti e che fossero delle anime perse.
Il più anziano della famiglia decise di interpellare un frate eremita, che girovagava nella valle e predicava inaspettato nelle piazze contro i vizi, minacciando il castigo di Dio.
Si raccontava che era stato espulso dal suo convento per le pratiche alchimistiche e per i riti negromantici; ora non si sapeva quanti anni avesse perché anche i vecchi se lo ricordavano con la barba bianca, la pelle rugosa e gli occhi intorpiditi.
Tutti lo temevano e i parroci, benché lo considerassero un eretico, non lo scacciavano per le sue poco ortodosse pratiche esoteriche: quel frate stregone riusciva dove loro fallivano.
La decisione di chiamarlo fu presa tra incertezza e tra timori, finché un giorno lo videro sul sentiero che conduceva alla cascina: -Vi siete finalmente rivolti a me, sciocchi miscredenti! Quest'anima del Purgatorio chiedeva un po' di pace e voi vi nascondevate dentro le vostre case, non ascoltandola!-
Il rito esorcistico doveva essere compiuto di notte e con due componenti della famiglia: il più giovane e il più vecchio.
Il frate impastò dell'erba con della terra e sparse l'intruglio sulla tomba.
-Neppure le ortiche e le spine avete tolto! Solo la natura ha avuto compassione di lui, coprendo la sua sepoltura con fiori!-
Tutti e tre restarono in preghiera sino a notte inoltrata: finalmente lo spirito comparve, si gettò ai piedi del frate e gli chiese scampo per gli orrori dell'altra vita.
Il severo eremita si commosse e lo benedì, recitando le orazioni in un latino scorretto: -Ora ritorna da dove sei venuto e non disturbare mai più il sonno dei vivi!-
Poi il pio uomo si rivolse ai due testimoni sbigottiti: -Non vi infastidirà più, ma voi pregate per abbreviargli le pene, abbiate misericordia e Dio l'avrà per voi! So già che da domani la vita ricomincerà serena e sicura, dimenticherete il dolore patito e riaprirete le porte al male!-

racconto di Arduino Rossi

racconto reali ....... L'ULTIMO BRIGANTE DELLA VALLE BREMBANA









L'ULTIMO BRIGANTE DELLA VALLE BREMBANA

Quando il corpo di Fracassetti fu portato a Santa Brigida, io fui tra i primi ad occorrere e non nego che sentii compassione; aveva il capo riverso, gli occhi spalancati e la morte non aveva ancora placato l'espressione furiosa del suo viso.
Due mandriani lo reggevano sulle loro spalle come una belva uccisa, con le mani e i piedi legati ad un ramo.
Essi ripetevano a tutti che lo avevano trovato cadavere e non avevano visto l'assassino.
Ben presto si riunì una folla allegra, che oltraggiava le spoglie del criminale più pericoloso dell'alta valle Brembana.
I suoi furti e le sue violenze gli avevano creato tanti nemici e per questo da anni egli si era rifugiato nella valle Mora, zona impervia e boscosa.
Si nascondeva di giorno negli anfratti e di notte assaliva i casolari isolati, ferendo o uccidendo chi reagiva.
Mia madre lo aveva conosciuto sin da bambino e sosteneva che egli non fosse cattivo per se stesso, ma avesse uno spirito diabolico nel suo cuore.
Qualunque ne fosse la causa era prepotente e vendicativo: persino i suoi pochi amici lo avevano abbandonato.
A dire il vero noi ragazzi del paese non avevamo nulla da temere: ci divertivamo a chiamarlo nei boschi della valle Mora e al primo fruscio scappavamo ridendo.
Un giorno egli comparve veramente, ma non ci fece del male.
Erano le donne le sue vittime preferite e avevano paura a rimanere isolate in montagna.
Il sollievo per la sua morte fu così grande che tutti i compaesani arrivarono per vederlo finalmente impotente.
Qualche pia vecchietta si fece il segno della croce, ma gli uomini non si tolsero il cappello e le campane non suonarono a morto.
Il parroco, don Martini, fu l'unico a provare pietà: lo ricompose, sciogliendogli le mani e i piedi, lo ricoprì con un sudario fra le contrarietà dei presenti.
Li azzittì con la sua grossa voce: -Siamo cristiani e questa è sempre un'anima battezzata!-
Invece Fracassetti non aveva fatto differenza fra battezzati e animali, usava con tutti la stessa brutalità.
I montanari dei paesi vicini avevano subito le sue aggressioni e avevano nominato Santa Brigida il paese di Fracassetti, disonorandoci.
Eppure nessuno aveva lottato contro le sue angherie e benché fosse ricercato dalle guardie egli era divenuto sempre più spavaldo: tornava in paese quando voleva, facendosi gioco della giustizia.
Aveva superato ogni limite per la troppa sicurezza: aveva costretto sette ragazze a seguirlo al suo nascondiglio, le aveva picchiate e qualcuna fu violentata.
Egli odiava la sua gente con insensata crudeltà.
Con loro c'era una bambina di dodici anni, figlia di un uomo coraggioso, che giurò di vendicarla.
Aveva braccato il brigante con l'audacia di un cacciatore di orsi d'altri tempi: aveva scoperto ogni suo rifugio e smascherato ogni suo stratagemma, non concedendogli tregua.
I becchini scavarono la fossa di Fracassetti tra i rovi, nella terra sconsacrata oltre il cimitero.
Tutti i compaesani assistettero alla conclusione della sepoltura: ora si ritenevano tranquilli sapendolo sotto terra.
La folla si disperse e don Martini restò solo; si inginocchiò, pregando per la salvezza dell'ucciso e dell'uccisore.
Egli aveva visto crescere Fracassetti e sapeva che non era malvagio, come la gente credeva, ma piuttosto un disgraziato irresponsabile.
Fracassetti non si era adattato alla vita dura del montanaro e aveva preferito l'avventuroso vagabondaggio del brigante.
Don Martini rientrò al tramonto nella vicina canonica e non dormì fino a notte inoltrata.
Udì dei colpi alla porta: non chiese chi fosse per prudenza, essendo tempi difficili.
Per altre due notti qualcuno bussò alla stessa ora con insistenza; alla fine egli aprì al visitatore importuno.
Un forte odore di zolfo lo costrinse a indietreggiare: un individuo dall'aspetto meschino gli era davanti, con occhi neri, piccoli e vivi, in un volto scuro.
Aveva i capelli ispidi e arruffati, era interamente coperto di fuliggine.
Sembrava un carbonaio, ma don Martini riconobbe in quelle sembianze il Maligno, che gli chiese: -Libera lo spirito di Fracassetti dalle tue preghiere, che lo tengono tra i morti esiliati e mi impediscono di portarlo con me! Vuoi cambiare le leggi divine, mandando un peccatore così incallito in Paradiso?-
Don Martini gioì per la notizia: Fracassetti era tra gli spettri che girovagano sulla terra, dal destino eterno incerto.
-Demonio, non sei tu che stabilisci chi si salva e chi si danna! Solo il Cielo può giudicare e le sue creature devono sottostare ai suoi voleri!-
-In questo caso l'evidenza è palese e le tue orazioni offendono la giustizia di Dio!-
Don Martini gli chiuse la porta in faccia; non poteva competere all'astuzia del Maligno, ma da buon prete di montagna sapeva agire con decisione.
Il Diavolo non si sarebbe arreso presto ed egli chiese ai due vecchi, noti per la loro onestà, di restare a guardia della tomba del Fracassetti, per impedire lo scempio o il trafugare della salma per fini negromantici.
I due saggi vegliarono per alcune notti: parevano due angeli della morte dalla lunga fisionomia scarna.
Il maligno non poté nulla contro i resti mortali di Fracassetti, ma i due uomini, esperti dei casi della vita, dubitavano della salvezza del brigante: -La grazia di Dio non ha limiti, però il male commesso pesa sulle coscienze e trascina l'uomo alla dannazione!-

racconto di Arduino Rossi

leggende di fantasmi .... LA LEGGENDA DEL LAGO MORO











LA LEGGENDA DEL LAGO MORO

Chi transita nei pressi del Lago Moro ne può apprezzare la bellezza, ma se è attento ne percepisce pure la tristezza languida, che il sole dei giorni più caldi riesce appena a mitigare.
Quello che oggi è una scura massa d'acqua, un tempo fu un verde
prato piano, attraversato da pigri ruscelli e colorato dai fiori dei limpidi stagni di montagna.
Ai bordi di quel piccolo pianoro, esistevano due case: nella prima abitava una vedeva ricca con un bambino grassoccio di pochi anni e nella seconda, al lato apposto, un'altra vedova campava poveramente con suo neonato.
La vita era stata crudele per le due donne: sembrava, per la miseria e per le ingiustizie sofferte, che il Cielo si fosse accanito contro di loro.
Però la ricca Gilda non aveva disdegnato l'uso dell'intrigo per ottenere i suoi scopi, al contrario la più povera, Elena, era rimasta sempre onesta e spesso pregava fiduciosa il Signore: -Mio Dio! L'esistenza qui sulla Terra è dura! Non lasciarci senza pane, mio figlio e io viviamo di quel poco che la tua provvidenza ci concede! Egli è innocente ed è troppo piccolo per soffrire!-
Elena filava la lana per un mercante della città, era pagata con quel tanto che bastava per sostenersi ed ella si accontentava.
Ammorbidiva i suoi giorni con tutte le piccole gioie che la sua fantasia le suggeriva: raccoglieva i delicati fiori che crescevano attorno alla sua baita, ornava la culla del suo piccolo e serena cantava le filastrocche imparate da bambina.
Quando il figlio si addormentava la madre lo guardava silenziosa e sognava per lui un futuro meno stentato del suo.
In mezzo a quei monti non aveva nessuno che l'aiutasse e non osava avvicinarsi all'altra casa, perché la ricca sua vicina un giorno le aveva istigato contro i cani.
Eppure Gilda aveva cuore e amava il proprio figlio, lo allevava con cura e gli parlava teneramente: -Dormi! Sogna sereno figlio mio bello! La tua mamma veglia su di te, nessuno ti farà del male! Cresci forte e sicuro, avrai tutto quello che vorrai e non saprai cosa significhi la miseria, come la conoscerà il meschino figlio di quella poveraccia!-
Il vento dell'inverno ghermiva gelido le due case, entrava nelle fessure delle pareti della baita di Elena e spegneva il piccolo fuoco; ella si affannava a ravvivarlo, poi prendeva dolcemente il bambino tra le braccia per scaldarlo.
Con il primo sole se ne andò il gelo e l'acqua ristagnava su tutto il pianoro, tra le ultime chiazze di neve e tra l'erba nuova i bucaneve spuntavano fitti.
Il freddo sparì e venne la breve estate montana: tutto si coprì di tenui colori armoniosi.
Il vento soffiava tranquillo e scivolava sui prati, agitando le corolle lanose dei "capelli delle streghe": l'unico fiore che attecchiva attorno alla casa di Gilda.
Ella era ogni giorno indaffarata nel valutare i suoi interessi: spettinata, perché non aveva tempo di badare a sé, sbrigava attiva le pratiche per incrementare il suo patrimonio.
Le rughe le avevano segnato il magro volto, rancore si era sommato a rancore negli anni difficili ed ella sfogava la sua bile sui più deboli.
I mendicanti non salivano dalle due donne, non valeva la fatica: una era troppo povera e l'altra troppo avara.
L'uomo, che si diresse alla baita di Elena, era uno strano accattone: il suo passo era lento, i suoi movimenti circospetti, quasi gentili.
Le vesti e l'aspetto erano di chi dormiva solitamente all'aperto e mangiava quello che il prossimo gli concedeva, ma i suoi occhi limpidi tradivano un dolore intimo, contenuto con dignità.
La pelle era troppo chiara per essere quella di un montanaro e il profilo fino del volto non era stato ancora guastato dagli stenti.
Egli bussò alla bicocca di Elena e la salutò con un sorriso: -E' da molto che non mangio! Se hai un po' di pane e di vino per me, Dio ti benedirà!-
-Buon uomo! Io ho appena il necessario per me e mio figlio!-
Elena rimase un istante pensierosa, poi rientrò, gli donò un pane e una ciotola di latte.
-E' tutto quello che ti posso dare! Dell'altro lo ruberei alla mia creatura!-
Il mendicante spezzò il pane e ne offrì alla donna: -Tieni! Il Signore di premierà per la tua generosità!-
La benedisse, ma non era il solito gesto frettoloso degli affamati: tranquillo egli infondeva serenità; bevve il latte come compisse un rito e si allontanò, lasciando Elena affascinata.
Attraversò il pianoro e davanti alla lussuosa casa di Gilda si arrestò ad ammirare i solidi muri e le merci abbondanti, ammucchiate fuori dal magazzino, che non le conteneva tutte.
Gilda lo vide e chiamò i cani: -Cosa vuoi, pezzente?-
-Dammi un po' di pane e di vino, Dio ti sarà riconoscente!-
Gilda rise sguaiata: -Il tuo Dio mi premierà? Mi sto ricompensando generosamente da sola! Quando gli chiesi aiuto non fece nulla per me e tu vuoi farmi credere che si ricorderà di me dopo la morte?-
Ella ordinò ai suoi cani di scacciare quel molesto forestiero, notandone lo sguardo inquietante.
I cani non abbaiarono come al solito, ma si avvicinarono latrando e si accucciarono miti ai piedi dello sconosciuto.
Ella li rimproverò aspramente e li avrebbe bastonati se non avesse temuto la reazione dello strano mendicante.
-Donna! Dammi del pane! Io ho fame di pane come la tua anima del perdono del Signore!-
-Vattene, o chiamerò i miei uomini, che ti daranno una lezione per la tua impertinenza!-
Scuotendo piano il capo, il forestiero si allontanò avvilito e pulì i suoi sandali dalla polvere: nulla di quella casa voleva portare con sé.
Fece solo pochi passi e scomparve in una luce abbagliante, ma Gilda era tropo cieca per accorgersene: rientrò, alzò le spalle, dimenticandosi dell'episodio.
Nessuna delle due donne aveva riconosciuto Gesù.
Alcuni giorni dopo il sole si oscurò improvvisamente, la terra vibrò mentre il vento tormentava il prato e minacciava anche le fondamenta della casa di Gilda.
Elena portò fuori il suo bambino, timoroso di un crollo improvviso della insicura baita.
Faticava a tenersi in piedi, i suoi capelli e gli abiti erano sbattuti dalla bufera, rami e sterpi la investivano.
Una voce possente come un tuono dall'alto la ammonì: -Vattene! Fuggi da questo luogo maledetto! Salva te e tuo figlio!-
Confusa ella non si decideva ad obbedire e stringeva disperata al petto il suo unico bene, intanto la vecchia baita rovinò al suolo in un solo lungo frastuono; Elena si fece forza sulle gambe tremanti, non sapendo dove si dirigeva.
Quel rumore spaventò i lavoratori di Gilda, che abbandonarono il magazzino, con l'istinto dei topi prima di un naufragio.
Gilda non udì nulla, quando rialzò lo sguardo non vide più nessuno e corse all'aperto.
Era troppo tardi e la terra cedeva sotto i suoi piedi, i muri si spaccarono e il tetto si squarciò; si aprirono larghe voragini nel terreno, il buio calò su di lei.
Il bambino piangeva e la madre si avvicinò alla culla, non ebbe il tempo di lanciare un urlo, l'acqua invase il pianoro: l'intera casa si inabissò tra i flutti nerastri.
I presenti terrorizzati udirono il lamento del bambino svanire lontano, come il fischio del vento che si smorza tra le rocce.
Il sole tornò al suo posto e la bufera si placò, l'acqua del nuovo lago si chiuse definitivamente, così agitato e tetro da non vederne le profondità.
Per molto tempo restò mosso, con i continui spruzzi che sterilivano le rive.
Gli anni lo calmarono, fiori e arbusti crebbero a filo d'acqua.
Il suo colore si schiarì, ma nelle giornate nebbiose, o quando la tempesta gli si accanisce contro, un lamento leggero, quasi impercettibile e una voce femminile si odono ancora: sono il pianto di un bambino e la voce di una donna che gli canta una nenia.
Può capitare che un raggio di sole penetri le nubi e si apra un varco fra le correnti, rendendole trasparenti: allora si vedrà sul fondo una donna triste che culla il suo bambino.
L'immagine durerà qualche istante, poi svanirà e il lago ricoprirà gelosamente il suo segreto.

racconto di Arduino Rossi

horror ..... MADRE E FIGLIO










MADRE E FIGLIO

Una piccolo uomo con l'abito nero conduceva alcuni conoscenti alla tomba di un loro sfortunato amico.
Rigirava nervosamente il cappello tra le mani e camminava tra la nebbia, che calava densa sulla pianura bergamasca.
L'uomo si arrestò davanti a una sepoltura recente e raccontò la tragica vicenda dell'amico scomparso: -Ad Alberto morì la moglie in gennaio, non si era mai ripresa dal travaglio del parto e dalla sua anemia era subentrata poca voglia di vivere.
In quella casa il parroco non era mai entrato, perché gli abitanti erano poco religiosi, ma dei parenti convinsero la moribonda a ricevere i Sacramenti.
Ella simulò una confessione, ma voi sapete quanto fosse restia a raccontare agli altri le proprie miserie.
Il prete tentò cautamente, ma senza risultato, di aprirle il cuore: ella aveva un fardello pesante sulla coscienza, ma era una donna cocciuta e non temeva l'Inferno, neppure in punto di morte.
Alberto, io lo dico a malincuore, fu preoccupato solamente di evitare pettegolezzi tra la gente durante il funerale.
Si finse disperato, pur pensando già di rifarsi una vita.
L'accompagnò all'ultimo viaggio in una mattina gelida, con il vento che sferzava i rari partecipanti.
Il bambino morì pochi giorni dopo: era gracile dalla nascita e il padre lo aveva accudito con poco amore.
Questa seconda sventura commosse tutti.
I bambini seguirono il feretro con i fiori di carta preparati da loro e al passaggio della piccola bianca bara gli uomini si toglievano il cappello.
Alberto portò il lutto per tutti i giorni comandati dalla tradizione e fu attento a non tradire la sua indifferenza.
Fece preparare la tomba di famiglia, per il figlioletto e per la moglie.
Tutti lo sconsigliarono di deporre la piccola creatura accanto alla madre; anche il parroco lo scongiurò di non rischiare un sacrilegio.
Alberto ben presto riprese la sua esistenza abituale e allegra.
Fu appunto dopo una serata di gozzoviglie che ebbe il primo misterioso avviso: la sua casa era ben chiusa e non c'erano i segni del passaggio di estranei eppure i fiori davanti al ritratto della moglie erano stati strappati e sparsi sul pavimento.
Egli non volle dare importanza al fatto, non volendo capire l'avvertimento.
In seguito continuarono gli scompigli inspiegabili dei fiori e delle immagini della moglie, senza che egli ne potesse scoprire il responsabile.
Una donna, addetta alle pulizie di quella casa, diffuse la voce di quei fatti misteriosi, che furono attribuiti alla defunta.
La curiosità crebbe e la gente evitò di avvicinarsi a quella casa, specialmente alla sera.
Quando poi gli scempi misero sottosopra la tomba, anche i più cauti pensarono che preannunciasse qualcosa di orribile.
Alberto evitava l'argomento e accusava i suoi nemici di desiderare la sua rovina.
Sebbene fosse un uomo coraggioso e incredulo, la notte era terrorizzato da strane voci, fra le quali distingueva quella tremolante della moglie.
Le anime dannate, sepolte accanto agli innocenti, si agitano disperate, perché subiscono maggiori tormenti.
La voce della morta si fece sentire sempre più chiaramente e una notte ella gli comparve: aveva il volto segnato orribilmente dal dolore, i suoi capelli erano irti e arruffati.
Pareva una vecchia strega, ma di lei rimaneva intatto lo sguardo autoritario e il sorriso ironico: -Lo sapevi che ero dannata e hai posto nostro figlio accanto a me per tormentarmi di più! Questo sacrilegio ti costerà l'anima, se non rimedierai al più presto!-
Poi scomparve, augurandogli di raggiungerla al più presto tra i tormenti.
Neppure il parroco comprese la fretta di Alberto di traslare la salma del suo figlioletto.
Alberto era un uomo mutato profondamente: era scontroso e misantropo, consumato dal rimorso, frequentava assiduamente la
chiesa.
Lo incontrai casualmente al cimitero, egli mi confidò la sua maledizione.
Non volli credergli e lo scongiurai di non cedere ai fantasmi della mente, ma egli mi lasciò senza rispondere, camminando a fatica tra la neve che cadeva fitta.
La mattina dopo fu ritrovato morto per il freddo, sulla tomba della moglie.

racconto di Arduino Rossi