27 mar 2010

27/3 L'ATTIMO (Racconti di Arduino Rossi)

L'ATTIMO, racconto dell'orrore, horror, nero, scritto da Arduino Rossi, pubblicato con lulu - lulu.com nel volume IL FOLLE

Città, borghi antichi e moderni, poi periferie polverose e
sporche, ecco dove la mia vita trascorreva: erano luoghi diversi
e tristi, tra banditi e truffatori, ladri di ogni specie e
prostitute.
Avevo iniziato come vagabondo, un romantico sogno di vita libera
da ogni legame mi spingeva verso queste strade solitarie e
puzzolenti, in cerca di libertà.
Sì! Libertà, parola splendida, ma vissuta nella sua integrità dà
solo dolore e solitudine.
Sia maledetto quel giorno che me ne andai da casa in cerca di
avventura, sognavo rapporti facili, amicizie sincere e amori
leali, trovai solo mascalzoni, donne a pagamento e traditrici,
guai di chi ha una fissa dimora per la legge.
Non conosco il numero delle notti trascorse in cella, quelle
passate sotto la pioggia, sotto la neve, inseguito dai cani
randagi o dalle guardie.
Eppure, nella mia vecchiaia, non avrei mai veduto un solo istante
della mia esistenza spensierata per un caldo letto, una moglie
fedele e dei figli affettuosi.
Sicuramente avevo una progenie sparsa nelle strade del mondo,
bastardi come me o fannulloni anche loro, mascalzoni certamente,
conoscendo le loro madri.
Nessuno di loro mi aveva chiamato papà e certamente desiderava
conoscere chi li aveva messi al mondo.
Di domande non me ne facevo molte, da tempo mi scaldavo con il
vino, poi con la grappa ed ero invecchiato precocemente,
canuto, ingobbito per l'artrosi per le bastonate.
Cosa potevo desiderare di più dalla vita?
Ero stato libero.
Sì! Signori per bene! Ero stato senza padroni.
Con tutte le mie forze lo urlerei sino alla morte, anche dinnanzi
a Dio o al Diavolo, se questi esistessero veramente.
Invece nulla esiste oltre la morte, tutto non ha un senso e la
giustizia è una fiaba: quale Dio avrebbe creato questo schifo per
giudicare i vivi e i morti.
Forse in Satana un po' credevo: certamente mi aveva aiutato in
passato.
Avevo sulla coscienza alcuni delitti per rissa, per rapina, o
anche per puro divertimento.
Mai nessun gendarme riuscì a mettermi le mani addosso e la mia
scaltrezza superava certamente quella di questi sciocchi
sedentari, maledetti imbroglioni che siedono dietro le scrivanie
polverose e pretendono di scindere ciò che è lecito da ciò che
non lo è.
Mi divertivo a tornare sui luoghi dei miei delitti, certo che più
nessuno mi avrebbe riconosciuto.
Quella notte la volli trascorrere nella villa, ora abbandonata di
una delle azioni sanguinarie.
Mi beffavo di ogni timore superstizioso e non credevo agli
spiriti, benché in quella abitazione la morte era passata e io
ero stato il Caino che si era divertito con le sue vittime: era
avvenuto nella mia giovinezza.
Allora pioveva e avevo freddo, così mi nascosi nell'atrio di una
grande casa signorile, in attesa che la notte passasse, senza
altro scopo che quello di restare riparato.
La figlia, una bella ragazza mora, mi scorse nella penombra e
incominciò a urlare: temetti che chiamasse i cani da guardia e
cercai scampo.
Non riuscii a scappare: ebbi addosso due pastori tedeschi di
grossa taglia, feroci e ben addestrai.
Mi stavano straziando, ma sia la ragazza che i genitore ridevano
del mio dolore, erano proprio feroci e odiavano i vagabondi: -Ora
piangi, maledetto fannullone! La fine che merita la gente come te
è questa: finire in pasto a due bravi cani da guardia!-
Erano dei sadici, maledettamente cattivi: cercai pietà, ma in
vano: erano proprio decisi a farmela pagare, vendicandosi di
tutti i furtarelli che avevano subito dai miei simili.
Riuscii a divincolarmi, nonostante le ferite sanguinanti e
raggiungere un albero da frutta.
I cani non erano riusciti a finirmi, allora il padrone di casa
impugnò un fucile e si pose sotto la pianta.
Mi comandò: -Scendi o ti sparo!-
-Grazie! Non non ho intenzione di farle risparmiare le bistecche,
diventando la cena di queste due bestiole!-
Cercavo di sdrammatizzare, scherzando, dimostrando che non ero
poi così pericoloso, ma a loro questo non interessava: era
importante farla finita con la gente come me.
Il padrone era alto e bianco di capelli, dal viso piatto come un
pugile: -Ti butterò nel pozzo, dove stanno i tuoi soci senza
casa, bastardi barboni che ti hanno preceduto!-
Capii che quelli non stavano scherzando, erano dei folli
criminali e dovevo giocare d'astuzia.
Dissi: -Scendo, mi arrendo, ma ritira i cani!-
Mi sparò contro, ma ero troppo in alto e non capiva dove
esattamente fossi, la notte mi proteggeva.
Terminò le munizioni che aveva con sé e allora gli fui sopra,
saltando agilmente sulle sue spalle: non so come riuscii a
sfuggire a i cani, forse erano confusi per la mia reazione rapida
e improvvisa, comunque fui presto oltre la veranda, dentro la
villa.
La madre e la figlia iniziarono a strillare, ma io ero diventato
una belva: le colpii ripetutamente a pugni e a calci, poi mi
impossessai di una pistola e sparai ai cani, all'impazzata.
eravamo in piena campagna e se qualcuno avesse udito i colpi
avrebbe pensato certamente che fossero quelli di un cacciatore.
Volevo scappare, ma il padrone si era ripreso e mi colpì con una
mazza alle spalle: mi ferì, ma non riuscì a stordirmi.
Fui io che a quel punto lo stordii e poi lo uccisi con una pala.
Ero spronato da una furia bestiale: era l'istinto di
conservazione che mi spingeva ad assassinare senza nessuna pietà.
Capii che le testimoni non potevano lasciarle in vita.
Furono loro a chiedermi compassione questa volta, ma ero troppo
furioso per non portare a termine il mio massacro.
Alla fine ero senza fiato.
Mi resi conto del mio crimine, compiuto in parte per legittima
difesa e in parte per eccesso di ira.
Nessun giudice avrebbe creduto a un senza dimora, a un balordo
senza patria, senza onore.
Fuggii e per mesi ebbi tremendi incubi sino a quando gli spettri
delle mie vittime mi fecero compagnia nelle notti solitarie,
davanti a un fuoco di stracci puzzolenti o sotto un ponte, dentro
un anfratto del terreno nei giorni di sfortuna, quando eravamo
diventati tanti a vagabondare e i rifugi erano troppo pochi.
Ero diventato vecchio e i giovani sbandati mi importunavano:
impedendomi di riposare, deridendomi, rubandomi ogni cosa, anche
le scarpe.
Solo nella villa dei fantasmi, così era stata richiamata, stavo
in pace.
Non era stata più abitata, stavo in pace, tutti avevano un
superstizioso terrore, mentre io li conoscevo bene i miei morti,
in fondo ero come me.
Avrei preferito non avere quelle visioni, ma loro c'erano e io
non potevo mandarli via, non potevo assassinarli di nuovo.
Era la figlia la più maligna, invece il padre rimaneva con il suo
mugugno e non diceva nulla.
La madre mi insultava continuamente, maledicendomi, augurandomi
una morte atroce.
Se avessi trovato qualcuno da amare allora la mia morte sarebbe
stata terribile come la loro: solo chi ha qualche affetto da
perdere può capire la sofferenza della dipartita.
Non ero più capace di amare: ero tosto, abbruttito, più simile a
un ratto che a un uomo.
Invece le cose non andarono come credevo.
Fu lei, la mia amica, quella per cui ero fuggito di casa e non
ero tornato al mio villaggio, che mi riconobbe.
All'inizio mi parve un sogno, era giovane, bella come un angelo e
forse fu l'alcool o chissà cos'altro, che mi entrò nella testa,
ma certamente non fu un pensiero salubre.
Mi rammentai delle mie passioni giovanili, della voglia che avevo
dei suoi baci, dell'amore che violento provavo per Lei.
Cosa faceva lì? Cosa voleva da me?
Era un diavolo in vena di scherzi atroci? Era lei, in spirito?
Era un incubo?
Gli parlai: -Perché non mi volevi? Per questo decisi di fuggire.
Non ebbi più una vita decente, una donna, una famiglia!-
-Che tu sia maledetto! Io, il giorno dopo la tua fuga, mi
suicidai, perché mi ero sentita ingannata, tradita da un
farfallone, uno sciocco che mi aveva deluso, rubandomi il cuore e
l'onore!-
-Attendevi un figlio! Perché non me lo dicesti?-
Lei scosse il capo: -Non ebbi tempo di spiegartelo!-
Rammentai tutto, era stato mio cugino a ingannarmi: mi aveva
raccontato che Lisa, la bella, non mi voleva più e si stava
sposando con un uomo ricco, potente e vecchio, da cui attendeva
un figlio.
Così seppi che la decisione più coraggiosa della mia vita era
stata la più stolta: se avessi avuto la pazienza di attendere un
solo momento senza fuggire, mentre Lisa mi chiamava, la mia
esistenza sarebbe stata totalmente diversa.
Non avrei provocato tanti dolori e tanti lutti attorno a me.
I tre spettri si poterono finalmente, dopo anni di attesa,
vendicarsi, conducendomi con loro nel mondo sotterraneo,
tenebroso, dove non esite più speranza, ma urla di dolore sempre
soffocate dal vento infernale.
Il mio cadavere rimase lì, insepolto per anni, in preda ai cani
randagi.
L'autunno ricoprì i miei resti mortali con uno strato di foglie
morbide, di rami secchi, di rugiada, che furono le uniche lacrime
versate su di me.

27/3 ABETI (Racconto di Arduino Rossi)

Abeti, racconto tratto dalla raccolta di racconti IL FOLLE, edito dalla casa editrice lulu -lulu.com
Racconto horror, orrore, nero


Tagliare e poi tagliare, quei vecchi alberi avrebbero reso solo così, come legna per l'edilizia e null'altro.
Erano tutti nodosi, i roditori vi facevano il nido dentro, i topi avevano roso le radici e il mio pro-zio non li aveva mai fatti abbattere.
Sosteneva che stavano bene così e se ne infischiava dei debiti, delle ipoteche sulla tenuta, che non rendeva un centesimo.
Era un maledetto cocciuto, un mulo con l'anima dura.
Finalmente, dopo la sua morte, riuscii a disboscare, a tamponare le ipoteche e far rendere quella enorme tenuta di montagna, fatta solo di prati, orti, qualche ripido campo di segala e tanti boschi infruttuosi.
Non me ne importai delle proteste dei montanari: temevano frane d'estate e slavine d'inverno.
L'importante era cavar soldi anche dai sassi: ben presto ebbi la fortuna di chiudere le questioni con i creditori ed essere io a prestar denaro.
Per ottenere ciò avevo dovuto essere coriaceo, non aver compassione di nessuno: avevo scacciato contadini che non sapevano far fruttare la terra, sostituendoli con dei salariati della valle.
Anche le vedove con i bambini ancora lattanti, i vecchi senza futuro se ne andarono a morire nell'ospizio dei miserabili.
Ero odiato, disprezzato, ma ricco, invece il mio pro-zio era un poveraccio, ma ero considerato un benefattore.
Ora, sopra il paese c'erano larghi spazi di terreno brullo, ma avrei ricavato dei pascoli e della foresta restava poco.
Forse gli spiriti, come la gente del posto continuava a ripetermi: -Verranno e si vendicheranno!-
Sorridevo: -Li sto aspettando e chiederò a loro l'affitto per tutto il tempo trascorso nei miei baschi!-
Fantasmi, spiritelli, diavoli, anime purganti e dannate, ne era zeppa la testa e le bocche dei villani, ma io non ci credevo.
Il mio pro-zio, prima di morire mi aveva obbligato a giurare di modificare la proprietà e di tenere tutto come era: io dovetti assecondarlo per non perdere la proprietà.
Quello sciocco superstizioso era convinto che nel bosco ci fossero lupi mannari, streghe e tanti altri mostri di tutte le specie.
Ero così uno spergiuro, ma non me ne curavo: avevo un fortissimo senso pratico e l'onore per me si misurava con i soldi.
Infatti il tempo passava e nulla era capitato: gli abeti cadevano uno dopo l'altro sotto i colpi dei boscaioli ed erano trascinati a valle come vecchi corpi deformi, doloranti.
Ero lì, sotto l'abetaia, che osservavo il mio trionfo contro le superstizioni, che mi apparve: era un ometto brutto, con un odore da pecoraro e scuro per il sole.
La barba di una settimana gli giungeva sotto gli occhi: era maligno nelle movenze ipocrite.
Mi fissava con sguardo cattivo e sogghignava.
Chiesi infastidito: -Chi sei?-
Non mi rispose.
Mi stancai di quello che mi parve un povero demente: -Vai all'inferno!-
Mi rispose: -Sì, ma con te, maledetto spergiuro!-
Proprio in quell'istante cadde un abete, tagliato con perizia, ma misteriosamente precipitato verso di me.
-Il padron Toni è morto questa notte, tra urla di dolore.
Delirava, continuando a chiedere di scacciare dal suo letto di morte tutti quei mostri, che solo lui vedeva. Sosteneva che fossero gli spiriti dell'abetaia: sogghignavano, ballavano, cantavano per la gioia, certi che la sua anima sarebbe finita all'inferno.
Rantolò, spirò e si udì una fragorosa, portentosa risata, come quella di una platea di omaccioni festosi.-

27/3 LA CITTA' - racconto - Arduino Rossi

LA CITTA', racconto horror, orrore, nero tratto dalla raccolta di racconti intitolata IL FOLLE, pubblicato lulu -lulu.com


Avevo finalmente ottenuto il cambiamento di sede dopo anni,troppi anni di attesa.
La Direzione Centrale si era ricordata di me, forse per caso,forse grazie a qualche raccomandazione.
Per anni l'Onorevole mi aveva promesso e ripromesso passaggi di carriera, riconoscimenti e l'agognato trasferimento, ma solo dopo trent'anni ero riuscito ad averlo.
Mi dettero il mio nuovo ufficio, bello, pulito, spazioso con le giovani segretarie provocanti.
Non mi ero sposato: nella mia vecchia dimora ero certo che, se avessi trovato una moglie del luogo non mi avrebbe seguito al mio paese, mentre quelle della mia terra non erano disposte a trasferirsi a Nord, tra le nebbie di una città di provincia,
piovosa e anonima.
Che importa! Il tempo era trascorso, ma alla fine avevo ottenuto ciò che mi ero proposto.
Certamente la nuova città non era bella come avevo sognato in tutti quegli anni.
Qua tutti la chiamavano l'Urbe, senza dirmi esattamente dove fosse collocata, in che regione, nell'entroterra o sul mare.
C'era un castello a dominare i borghi, alto con le torri nere, sempre in ombra, le mura erano solide, di pietra granitica.
La gente la chiamava la fortezza: sostenevano che era meglio non finirci dentro, ne parlava a bassa voce, con terrore, poi se ne andava, sfuggendo a qualsiasi altro chiarimento.
Il mare non era distante, lo intravvedevo dalle strade più alte e ne sentivo la brezza, con il suo profumo di salsedine, ma era scuro, anche di giorno.
Il sole non osava brillare con tutta la forza che avrebbe dovuto avere, c'era sempre un po' di penombra.
Il mio nuovo posto di lavoro era dentro un grande edificio che forse era stato, un tempo, il carcere: su tutte le finestre c'erano delle inferiate, l'intonaco era scrostato.
Il fumo delle candele, dei lumi antichi avevano scurito le pareti interne.
Scritte di disperati erano su ogni pietra ad altezza d'uomo, con storie di morte e di dolore.
Incontrai finalmente il Capo Ufficio, un ometto calvo,proveniente dalla mia regione, deducendo dalla pronuncia.
Mi disse: -Maledizione! Che vuole che le dica? Siamo tutti qui e da qui non ci muoveremo più! Il lavoro avrà tempo di conoscerlo,è sempre quello: registrare i nomi dei nuovi arrivati, è tutto!-
Io non ero stato religioso, ma quella era probabilmente la città meno attenta alla fede che avessi mai conosciuto: forse i comunisti avevano preso il potere e avevano abolito ogni simbolo,ogni traccia di sacro?
Non c'era una chiesa, ma neppure le vestigia di un tempio in decadenza, né una sinagoga, o un qualsiasi luogo di culto.
Chiedevo giustificazioni, con insistenza ai passanti ma era vano: -Ormai non serve più implorare Dio! Quello che potevamo fare non lo abbiamo fatto ed ora non rimane che rassegnarci!-
Certamente intendeva dire che eravamo sotto un regime autoritario, una maledetta dittatura feroce che impediva anche ai bigotti di pregare e di praticare i loro riti.
Comunque ciò non aveva una grande importanza per me.
Io ero un laico, ma la proprietà privata non la dovevano toccare: avevo in banca i risparmi di una vita e non avrei permesso a nessuno di impossessarsi di quei pochi, o tanti, milioni, tanti per me, ma pochi per i sacrifici sostenuti.
Li tenevo stretti per la vecchiaia, non li avrei ceduti a nessuno, neppure ai miei parenti, a quelle sanguisughe maledette, sempre pronti a chiedere e nulla dare.
I nipoti sono una brutta categoria: non mi lasciavano spazio per vivere, neppure per i pochi abitudinari vizzi.
Mi pedinavano e appena sapevano che frequentavo qualche donna del mestiere andavano subito a svergognarmi in paese, temevano che scialacquassi la loro eredità.
Per me non era un disonore, ma si sa: io avevo un reputazione da impiegato pubblico da far valere: c'era il decoro per il mio ceto, per la mia posizione da impiegato pubblico.
La mia posizione, mi costringeva a una certa riservatezza nei comportamenti.
Ero stanco di tutto ciò che mi stava capitando, non si poteva vivere in quell'incertezza, fui sul punto di prendere un'iniziativa audace: andare direttamente dal Direttore Generale e pretendere spiegazioni.
Ero stato un impiegato ligio e non avevo meritato il trasferimento in quella località che nessuno voleva pronunciare con il suo nome.
L'ufficio era vuoto, le porte sbattevano e nemmeno le segretarie erano ai loro posti, era una negligenza grave: il vento faceva volare gli atti sui tavoli e i locali erano senza un minimo di vigilanza.
Presi una decisione: sarei salito al castello, infischiandomi dei consigli dei timorosi cittadini.
Alla peggio sarei tornato nella città di partenza, ormai la sentivo mia e non mi sarebbe dispiaciuto trascorrere la vecchiaia in quei posti un po' monotoni, grigi, ma zeppi di ricordi.
Sentivo che la gente avesse intuito la mia intenzione.
Mi urlarono: -Si fermi! Non faccia pazzie! Là non scherzare, ci sono punizioni che nemmeno Lei può immaginare!-
Ero troppo infuriato, avrei affrontato pure il Diavolo in persona.
Il Diavolo? Ecco il perché!
Forse si poteva spiegare tutto con quello che mi stava passandoper la testa. Forse!...
No! Era pazzesco! L'idea che mi stava balenando era inaccettabile.
Comunque quello era il peggiore incubo della mia vita.
Mi sedetti su un muretto, che era un atto poco adatto alla mia condizione di contabile capo, ma ero troppo stanco per preoccuparmi ancora dell'etichetta.
Cercai qualche spiegazione ai miei dilemmi, per la prima volta mi accorsi che non mi rammentavo quando e con che mezzo fossi giunto lì: non era una lacuna della mia memoria, io ero sempre stato preciso.
Ero andato a letto presto per alzarmi riposato per il lavoro, poi non ricordavo più nulla, né ordini di trasferimento, né viaggi o altro.
Stavo sognando? Impossibile, tutto era reale, fisiche, tastabile.
Per la prima volta il dubbio divenne certezza: ero morto, deceduto nella notte e quella città era l'Oltretomba.

27/ LA GUIDA (Racconto di Arduino Rossi)

Era la mia prima passeggiata in montagna dopo anni, facevo fatica e sudavo abbondantemente: avevo un grosso zaino sulla schiena e faceva un caldo strano per quell’autunno inoltrato.
Maledicevo la mia vecchia pigrizia, colpevole per il mio fiatone e il grasso accumulato.
Rimpiangevo la mia giovinezza, quando quel sentiero lo avrei percorso quasi correndo e mi accorgevo che non ero più quello di un tempo, non era solo per gli anni trascorsi, ma in particolare per il mio adagiarmi ad una vita monotona e ripetitiva.
Odiavo il mio lavoro e rimpiangevo, rimpiangevo……le occasioni perse, gli amici che avevo abbandonato, le speranze che avevo tradito.
La mia solitudine mi pesava non poco, ma era il dolore meno intenso: non capivo più il mondo e le nuove generazioni, non comprendevo quella maledetta fame di denaro, ma soprattutto quel voler primeggiare a tutti i costi, a spese degli altri.

Giunsi finalmente al castello: un edificio diroccato, circondato da sterpi e da fiori selvatici, forse era stato un antico fortilizio medioevale, forse una fattoria cinta da spesse mura.
Il panorama riempiva d’allegria: si vedeva tutta la vallata, con i paesi grigi e rossi lontani, le montagne già con la prima neve troppo bianca, mentre il verde dei boschi e dei prati circondavano la radura da dove il castello dominava.
Mi sedetti per riprendermi, provavo caldo e freddo allo stesso tempo, ero ansimante e non mi sentivo a mio agio: l'intuito mi stava segnalando un pericolo che si stava avvicinando.
Il sole stava calando dietro le montagne e regalava gli ultimi raggi ad una natura multicolore, vivace e pronta al cambiamento gelido dell’inverno.
Il cielo era limpido e due nuvole all’orizzonte si erano tinte di un rosa quasi innaturale, da quadretto di pittore dilettante.
Ero stanco e pensai che nessuno mi stava attendendo a casa, nessuno avrebbe notato la mia mancanza: decisi di restare a bivaccare lì.
Non c’era rischio di pioggia, ma l’umidità della notte mi avrebbe infastidito: sistemai alla meglio delle frasche e sopra posi delle foglie asciutte, dove collocai il mio sacco a pelo, adatto a proteggere in condizioni peggiori.
Accesi un fuoco per riscaldare il poco cibo che avevo con me: il rossore delle fiamme mi dava un po’ di calore e d’intima serenità, il silenzio della notte mi faceva ricordare il mio passato e gli amici di un tempo, specialmente quelli che non avevano mai superato la giovinezza.
Mi adagiai senza preoccuparmi troppo del fuoco e, dopo aver bevuto un paio di birre, sprofondai nel sonno del giusto, o se preferite, del duro e puro.
Non avevo mai rinnegato i miei ideali giovanili, la voglia di cambiare il mondo, fedele ai miei sogni dei vent’anni, ma quell’età così tumultuosa era finita da molto tempo.
Sentendomi ancora una forza della natura, ero diventato bianco di capelli prematuramente e le abitudini molli dell’impiegatino mi avevano trasformato in un debole: da giovane facevo paura per la grinta, ma il mio aspetto era cambiato in un placido signore di mezza età.
Non so che sogni feci, ma quando mi svegliai ero certamente lucido e con i cinque sensi ben attenti: qualcuno si era messo di fronte a me, dall’altra parte del fuoco, e mi fissava.
Stavo per dirgli di andarsene, che non volevo vicino estranei, quando mi parve di riconoscerlo, anzi ne fui certo: era Franchino, il mio amico morto in un incidente con la moto trent’anni prima.
Sembrava che si stesse scaldando al fuoco con movimenti lenti, indifferente a me.
Gli chiesi: -Che fai qui?-
-Nulla! Sto solo cercando un po’ di calore!-
Era Lui sicuramente, pure la voce era la sua.
Cercai di capire qualcosa: -Dove ti trovi ora non c’è il riscaldamento?-
-Non t’immagini quanto freddo c’è!-
Non volli altri particolari, ma passai subito al pratico: -Desideri qualcosa?-
-…..solo un po’ di pace e il tuo aiuto!-
Mi drizzai dal mio giaciglio: -Che posso fare? Pregare?…-
-Questo è il minimo! Ho pure bisogno di una mano.
Sorpreso esclamai convinto: -Chiedi!-
-Qui c’è un tesoro, frutto di rapine e saccheggi da parte di una banda di briganti, due secoli fa.
Devi scavare e trovarlo, poi ti faremo sapere.-
Scomparve come nebbia al sole e mi rimase il dubbio se fosse stato un sogno, un’allucinazione o qualcosa di più intenso e reale, di misterioso.
All’alba mi levai prontamente, mi preparai una colazione veloce e me ne tornai sui miei passi velocemente, sino alla fine del sentiero, dove c’era la mia automobile.
Me ne tornai alla mia casa da scapolo solitario: ripresi le abitudini e mi impegnai in mille attività frenetiche per non pensare a ciò che mi era capitato.
La settimana trascorse veloce e non mi preoccupai più di nulla: mi buttai a capo fitto nel lavoro e feci pure parecchie ore di straordinario, di sera ero troppo stanco perché ricordassi il mio fantasma.
Solo il venerdì il fatto avvenuto al castello mi si ficcò con prepotenza nella mia mente: non mi rimase che indossare gli scarponi, procurarmi lo stretto necessario e partire per la montagna, in cerca di quell’allettante e fantomatico tesoro.
Era già notte quando arrivai al castello: mi sistemai alla meglio sotto una tettoia e mi coricai, nell'attesa di qualcosa di straordinario.
Non aspettai molto: Franchino apparve nella penombra, chiuso nelle sue spalle e il volto era seminascosto.
Mi disse: -Sento freddo!-
-Ti accendo subito un fuoco, anch’io sento l’umidità sin dentro le ossa.-
Parve che stesse meglio: -Grazie per il calore che mi offri! Noi abbiamo sempre bisogno di tepore e premure.-
Passai subito al dunque: -Dove è questo tesoro?-
-Hai fretta? Calmati, parliamo invece dei tuoi progetti.-
-Con la mia parte non lavorerò più: andrò in un paese lontano, tropicale e farò il fannullone sulla spiaggia con qualche bellezza locale.-
Sorrise: -Secondo il tuo parere sarei tornato apposta per farti avere questo? Sei pazzo! Mi dispiace, ma queste ricchezze sono sporche di sangue e si possono spendere solo in beneficenza.-
-Ero certo, che mi avresti fregato! Lo hai sempre fatto, anche quando eri vivo.-
-Non prendertela, la vita è strana e ciò che sembra buono alla fine è velenoso. Dovresti saperlo ormai!-

Non ero felice, mi sentivo ingannato, truffato: -Ti voglio seguire, ma che cosa ci guadagno?-
-Hai l’occasione d’essere generoso e avrai il tuo premio!-
Me ne tornai a casa e mi chiusi nella mia camera, mi detti malato e per una settimana bevvi birra, vino, grappa, non mangiai e pensai a cosa fare: decisi di assecondare il mio amico fantasma, anche per vedere questo tesoro.
Lo attesi quasi tutta la notte, ero sveglio e in piedi, appoggiato al muro di cinta del castello, tra ortiche e rovi.
Era quasi l’alba quando apparve: -Ti sei deciso? In ogni modo non avevi alternative: per il tuo bene questa è la scelta migliore.-
Mi indicò dove scavare e sparì.
Io avevo con me un piccone e un badile: con foga cercai, ruppi, feci un largo e profondo buco, ma nulla c’era.
Temetti che fosse uno scherzo, o che avessi le allucinazioni e fossi impazzito.
Dopo otto ore giunsi al baule: era di bronzo per resistere all’umidità del terreno.
Feci molta fatica per liberare il coperchio da tutto il materiale, ma riuscii a forzarlo.
Dentro c’era uno splendore di gemme e oro abbagliante.
I secoli non avevano reso opachi tutti quei preziosi: io provai il desiderio di non mantenere la parola data.
Mi impossessai di ciò che potevo far stare nella mia sacca, celai sotto degli sterpi e foglie secche il baule con il resto dei gioielli.
La notte calò rapida e sul sentiero vidi il mio amico, che mi stava aspettando ad un bivio: -Ricordati della promessa: non puoi ingannarmi.-
-Quali vantaggi avrò se ti accontenterò?-
-Tantissimi, sciocco…-
Non tornai a casa e versai l’intero “bottino” in una banca, poi rifeci il percorso tre volte sino al castello: era una ricchezza immensa, da miliardario.
Era un vero peccato dare tutto in beneficenza, ma non avevo alternative: non potevo contrastare la volontà dell’Oltretomba.
Era più per paura che per amore che cedevo alla forza dell’Aldilà, ma non potevo rischiare terribili conseguenze da morto.
Non ero religioso, non frequentavo la parrocchia, ma davanti ad un fatto simile chinai il capo.
Il patrimonio era tale che avrei dovuto seguire le donazioni personalmente per anni: decisi di licenziarmi e creare una società con tanto d’ufficio, d’archivio e segretaria.
Ero solo il gestore di tutto quel ben di Dio: ogni tanto salivo al castello e prendevo un po’ d’oro, facevo due chiacchiere con Franchino e ricominciavo ad aiutare i poveri, i malati, gli orfani.
Tutto andava bene, ma la tentazione era forte e una volta cedetti: m’impossessai di un po’ di gemme e le usai per sedurre alcune ragazze, disponibili e sensibili a certe lusinghe.
Franchino entrò nei miei sogni: -Devi restituire ciò che hai rubato!-
Poi mi perseguitò anche di giorno, con la sua presenza malinconica e silenziosa, costringendomi a cedere, a ripagare il mio furto poco alla volta.

Ora mi sento realizzato, soddisfatto e tranquillo: sono vecchio, malato e mi manca poco a morire.
Non temo il trapasso, perché ho un amico come Franchino.
Non mi rimane che scoprire se la mia guida ha affermato sempre la verità: mi auguro che non mi abbia ingannato.

Arduino Rossi

27/3 DISCOTECHE MILANO - lettere da L a O (Notizie Utili)

27/3 DISCOTECHE MILANO - lettere da L a


La Capanna dello zio Tom
Via Licata, 41 Milano - Zona Parco Lambro

Le Banque
Via Bassano Porrone, 6 Milano - Zona Duomo

Le Jardin au Bord du Lac
Circonvallazione Idroscalo, 51 Segrate Milano
SERATE: Sabato

Le Le Bahia
Via Nuova Valassina, 346 - Lissone - (Mi) -
[Superstrada Milano-Lecco uscita Seregno sud]

Le Rotonde Di Garlasco
Via Leonardo Da Vinci, 48 Garlasco (Pavia) - Comune Limitrofo


Lime Light
Via castelbarco, 11 Milano - Zona Bocconi
SERATE: Sabato


Lotvs
Viale Monte Grappa, 10 - Milano Zona Garibaldi

Luminal
Via Monte Grappa, 14 Milano - Zona Garibaldi

Magazzini Generali
Via Pietrasanta, 14 Milano - Zona Ripamonti

Modà
Via Milano, 13 Erba (Co) Comune Limitrofo

Nepentha
Piazza Armando Diaz, 1 Milano - Zona Duomo
SERATE: Giovedì

Noir BarClub
Via Guarenti, 17 Lissone (Mi) - Comune Lumitrofo
SERATE: Giovedì - Venerdì - Sabato


Oca Dipinta
Zelo Buon Persico - LODI, sul Ponte dell'Adda, strada Statale Paullese, al 17 km

Old Fashion Cafè
Via Alemagna, 1 Milano - Zona Sempione
SERATE: Lunedì - Mercoledì - Giovedì - Venerdì - Sabato

Orsa Maggiore
Via Lungolario Piave, 5 - Lecco

27/3 DISCOTECHE MILANO - lettere da L a O (Notizie Utili)

27/3 DISCOTECHE MILANO - lettere da L a


La Capanna dello zio Tom
Via Licata, 41 Milano - Zona Parco Lambro

Le Banque
Via Bassano Porrone, 6 Milano - Zona Duomo

Le Jardin au Bord du Lac
Circonvallazione Idroscalo, 51 Segrate Milano
SERATE: Sabato

Le Le Bahia
Via Nuova Valassina, 346 - Lissone - (Mi) -
[Superstrada Milano-Lecco uscita Seregno sud]

Le Rotonde Di Garlasco
Via Leonardo Da Vinci, 48 Garlasco (Pavia) - Comune Limitrofo


Lime Light
Via castelbarco, 11 Milano - Zona Bocconi
SERATE: Sabato


Lotvs
Viale Monte Grappa, 10 - Milano Zona Garibaldi

Luminal
Via Monte Grappa, 14 Milano - Zona Garibaldi

Magazzini Generali
Via Pietrasanta, 14 Milano - Zona Ripamonti

Modà
Via Milano, 13 Erba (Co) Comune Limitrofo

Nepentha
Piazza Armando Diaz, 1 Milano - Zona Duomo
SERATE: Giovedì

Noir BarClub
Via Guarenti, 17 Lissone (Mi) - Comune Lumitrofo
SERATE: Giovedì - Venerdì - Sabato


Oca Dipinta
Zelo Buon Persico - LODI, sul Ponte dell'Adda, strada Statale Paullese, al 17 km

Old Fashion Cafè
Via Alemagna, 1 Milano - Zona Sempione
SERATE: Lunedì - Mercoledì - Giovedì - Venerdì - Sabato

Orsa Maggiore
Via Lungolario Piave, 5 - Lecco

27/3 DISCOTECHE MILANO - lettere da C a J (Notizie Utili)

DISCOTECHE DI MILANO

Codice a Barre
Via Alzaia Naviglio Grande, 98 Milano - Zona Porta Genova

Cost
Via Maroncelli, 8 ang. via Tito Speri Milano - Zona Corso Como
SERATE: Venerdì - Sabato - Domenica

Crazy Jungle
Via Cavriana, 26 - Milano - Zona Forlanini

De Sade
Valtellina, 21 Milano - Zona Garibaldi

De Ville
Via Bottego, 80 Lissone Milano - Comune Limitrofo

Divina
Via Molino delle Armi (Ang. Via della Chiusa). Milano - Zona Ticinese.



Eleven
Via Alessio Di Tocqueville, 11 - Milano - Zona Corso Como
SERATE: Martedì - Sabato

Gattopardo Cafè
Via Pier Della Francesca, 47 Milano - Zona Sempione

Gioia 69
Via Melchiorre Gioia, 69 Milano - Zona Stazione Centrale
SERATE: Venerdì - Sabato - Domenica

Hollywood Rythmoteque
Corso Como, 14 Milano - Zona Corso Como

Jaive
Via Volta, 32 - Paderno Dugnano (MI)

Just Cavalli Cafè
Via Camoens - Milano - Zona Sempione
SERATE: Giovedì

Just Patrizia
Strada Binasco Rosate, 4 Noviglio (Mi) - Comune
limitrofo

27/3 Musica e discoteche -lettere A-B (Notizie Utili)

Discoteche milanesi, con indirizzi, Milano
Servizio offerto dal nostro Blog gratuitamente per tutti gli utenti.


Alcatraz
Via Valtellina, 21 Milano - Zona Isola

Amnesia
Via Gatto Ang. Via Forlanini Milano - Forlanini

Amnesy
Corso Europa, 16 - Lainate (MI)
SERATE: Venerdì

Anaesthesia
Via Luigi Varanini 2 - Milano - Zona Pasteur

Aquatica
Via Gaetano Airaghi, 61 Milano - Zona S.Siro

Bar Bianco
V.le Ibsen Milano - Zona Sempione

Black Hole
Viale Umbria, 118 - Milano - Zona XXII Marzo
SERATE: Sabato


Borgo - Karma
Via Fabio Massimo, 36. Milano - Zona Corvetto
SERATE: Venerdì - Sabato

27/3 Padri responsabili e figli smarriti (Arduino Rossi)

La famiglia tradizionale deve tornare il centro degli affetti e del rapporto tra persone.
I padri devono prendersi il loro fardello: spendere diverse ore della settimana, meglio della giornata, per stare accanto a questi bambini spesso viziati, mai maturi.
Invece i papà fuggono dai loro impegni, spesso per questa mancanza le famiglie si sfaldano, i genitori si separano e nascono le cosiddette nuove famiglie, che sono la fusione di altre famiglie frantumate, con patrigni e matrigne, sorellastre, fratellastri ed altro ancora.
Se prima le persone litigavano ora si odiano e i guai crescono, alla fine l'odio prevale e se ci si mette pure la droga ad amplificare le emozioni: i risultati sono evidenti sotto gli occhi di tutti.
Quindi non era la famiglia la causa di tutti i guai, come si recitava negli anni Sessanta e Settanta: dentro le mura domestiche capitava di tutto e di più e il male, per certi strizza cervelli, era tutto lì, dentro le mura domestiche.
Mi dispiace, ma le cose sono cambiate e peggiorate: non era la famiglia in se stessa ad essere la causa di tutti i problemi, ma i membri immaturi, deboli, stupidi che non sopportavano quattro regole, né avevano un minimo di buon senso e responsabilità.
Oggi si rivedono le stesse situazioni peggiorate, amplificate in queste non famiglie, tra convivenze di ogni tipo e genere.
Forse era preferibile curare le persone e non buttare nella pattumiera la famiglia, che aveva ancora molte cose buone da dare alle persone, alla nostra società.

27/3 I bambini senza futuro, figli di genitori mai cresciuti (Arduino Rossi)

Il caso del piccolo di 8 mesi, ucciso perché piangeva sconvolge, ma ora è giusto parlare di altre faccende.
Io voglio interessarmi di tutti quei figli di madri e padri mai cresciuti, che forse non picchiano la testa dei bambini sul pavimento quando piangono troppo, ma spesso lasciano al loro destino, senza futuro e perduti nel nulla, i loro bambini.
Mettere al mondo dei figli è un impegno, anche dal punto di vista economico, ma ancora di più psicologico ed è una spesa di tempo notevole.
Bisogna essere in due, ovviamente, non solo per procreare, ma soprattutto per badare, curare, aiutare sin dall'inizio il complicato e faticoso lavoro da genitore.
Le mamme a tempo pieno non ci sono più ed è giusto: l'educazione dei marmocchi deve ricadere su entrambi i genitori.