31 ago 2012

GIORNATA EUROPEA DELLA CULTURA EBRAICA


GIORNATA EUROPEA DELLA CULTURA EBRAICA
domenica 2 settembre 2012
Roma - ore 10.00 - 23.00


Fare cultura, con un sorriso

Quella del 2012 sarà un'edizione della Giornata Europea della Cultura Ebraica molto originale: il tema è infatti “L'umorismo ebraico”, un fenomeno culturale più che un aspetto profondo della nostra tradizione.

Il “saper ridere”, anche di sé e della propria condizione, è una peculiarità che si è sviluppata nel mondo ebraico nel corso dei secoli, a diverse latitudini e con caratteristiche differenti di luogo in luogo. L'umorismo è stato uno “stratagemma” che ha aiutato gli ebrei, talvolta privati di fondamentali diritti, quando non vittime di persecuzioni, a “sopravvivere psicologicamente”, a rimanere mentalmente integri di fronte a mille difficoltà e peripezie.

Perché ridere aiuta a rendere la realtà sopportabile, a vederne l'assurdità, e a ridimensionare il potere del prepotente di turno. L'ebraismo, cultura “libera” per eccellenza, ha dovuto ricorrere anche al riso quale sistema creativo per non cedere di fronte alle avversità: un'arma al contempo pacifica e vincente, e per questo particolarmente invisa alle tirannie e alle dittature di ogni tipo e colore che si sono succedute nella storia. 

Credo che il tema di questa tredicesima Giornata Europea della Cultura Ebraica possa aiutarci a riflettere, in positivo, in un momento tanto complesso per l'Italia e per l'Europa.

L'ATTIMO .... di Arduino Rossi


L'ATTIMO

Città, borghi antichi e moderni, poi periferie polverose e sporche, ecco dove la mia vita trascorreva: erano luoghi diversi e tristi, tra banditi e truffatori, ladri di ogni specie e prostitute.
Avevo iniziato come vagabondo, un romantico sogno di vita libera da ogni legame mi spingeva verso queste strade solitarie e puzzolenti, in cerca di libertà.
Sì! Libertà, parola splendida, ma vissuta nella sua integrità dà solo dolore e solitudine.
Sia maledetto quel giorno che me ne andai da casa in cerca di avventura, sognavo rapporti facili, amicizie sincere e amori leali, trovai solo mascalzoni, donne a pagamento e traditrici, guai di chi ha una fissa dimora per la legge.
Non conosco il numero delle notti trascorse in cella, quelle passate sotto la pioggia, sotto la neve, inseguito dai cani randagi o dalle guardie.
Eppure, nella mia vecchiaia, non avrei mai veduto un solo istante della mia esistenza spensierata per un caldo letto, una moglie fedele e dei figli affettuosi.
Sicuramente avevo una progenie sparsa nelle strade del mondo, bastardi come me o fannulloni anche loro, mascalzoni certamente, conoscendo le loro madri.
Nessuno di loro mi aveva chiamato papà e certamente desiderava conoscere chi li aveva messi al mondo.
Di domande non me ne facevo molte, da tempo mi scaldavo con il vino, poi con la grappa ed ero invecchiato precocemente, canuto, ingobbito per l'artrosi per le bastonate.
Cosa potevo desiderare di più dalla vita?
Ero stato libero.
Sì! Signori per bene! Ero stato senza padroni.
Con tutte le mie forze lo urlerei sino alla morte, anche dinnanzi a Dio o al Diavolo, se questi esistessero veramente.
Invece nulla esiste oltre la morte, tutto non ha un senso e la giustizia è una fiaba: quale Dio avrebbe creato questo schifo per giudicare i vivi e i morti.
Forse in Satana un po' credevo: certamente mi aveva aiutato in passato.
Avevo sulla coscienza alcuni delitti per rissa, per rapina, o anche per puro divertimento.
Mai nessun gendarme riuscì a mettermi le mani addosso e la mia scaltrezza superava certamente quella di questi sciocchi sedentari, maledetti imbroglioni che siedono dietro le scrivanie polverose e pretendono di scindere ciò che è lecito da ciò che non lo è.
Mi divertivo a tornare sui luoghi dei miei delitti, certo che più nessuno mi avrebbe riconosciuto.
Quella notte la volli trascorrere nella villa, ora abbandonata di una delle azioni sanguinarie.
Mi beffavo di ogni timore superstizioso e non credevo agli spiriti, benché in quella abitazione la morte era passata e io ero stato il Caino che si era divertito con le sue vittime: era avvenuto nella mia giovinezza.
Allora pioveva e avevo freddo, così mi nascosi nell'atrio di una grande casa signorile, in attesa che la notte passasse, senza altro scopo che quello di restare riparato.
La figlia, una bella ragazza mora, mi scorse nella penombra e incominciò a urlare: temetti che chiamasse i cani da guardia e cercai scampo.
Non riuscii a scappare: ebbi addosso due pastori tedeschi di grossa taglia, feroci e ben addestrai.
Mi stavano straziando, ma sia la ragazza che i genitore ridevano del mio dolore, erano proprio feroci e odiavano i vagabondi: -Ora piangi, maledetto fannullone! La fine che merita la gente come te è questa: finire in pasto a due bravi cani da guardia!-
Erano dei sadici, maledettamente cattivi: cercai pietà, ma in vano: erano proprio decisi a farmela pagare, vendicandosi di tutti i furtarelli che avevano subito dai miei simili.
Riuscii a divincolarmi, nonostante le ferite sanguinanti e
raggiungere un albero da frutta. 
I cani non erano riusciti a finirmi, allora il padrone di casa impugnò un fucile e si pose sotto la pianta.
Mi comandò: -Scendi o ti sparo!-
-Grazie! Non non ho intenzione di farle risparmiare le bistecche, diventando la cena di queste due bestiole!-
Cercavo di sdrammatizzare, scherzando, dimostrando che non ero poi così pericoloso, ma a loro questo non interessava: era importante farla finita con la gente come me.
Il padrone era alto e bianco di capelli, dal viso piatto come un pugile: -Ti butterò nel pozzo, dove stanno i tuoi soci senza casa, bastardi barboni che ti hanno preceduto!-
Capii che quelli non stavano scherzando, erano dei folli criminali e dovevo giocare d'astuzia.
Dissi: -Scendo, mi arrendo, ma ritira i cani!-
Mi sparò contro, ma ero troppo in alto e non capiva dove
esattamente fossi, la notte mi proteggeva.
Terminò le munizioni che aveva con sé e allora gli fui sopra, saltando agilmente sulle sue spalle: non so come riuscii a sfuggire a i cani, forse erano confusi per la mia reazione rapida e improvvisa, comunque fui presto oltre la veranda, dentro la villa.
La madre e la figlia iniziarono a strillare, ma io ero diventato una belva: le colpii ripetutamente a pugni e a calci, poi mi impossessai di una pistola e sparai ai cani, all'impazzata.
Eravamo in piena campagna e se qualcuno avesse udito i colpi avrebbe pensato certamente che fossero quelli di un cacciatore.
Volevo scappare, ma il padrone si era ripreso e mi colpì con una mazza alle spalle: mi ferì, ma non riuscì a stordirmi.
Fui io che a quel punto lo stordii e poi lo uccisi con una pala.
Ero spronato da una furia bestiale: era l'istinto di conservazione che mi spingeva ad assassinare senza nessuna pietà.
Capii che le testimoni non potevano lasciarle in vita.
Furono loro a chiedermi compassione questa volta, ma ero troppo furioso per non portare a termine il mio massacro.
Alla fine ero senza fiato.
Mi resi conto del mio crimine, compiuto in parte per legittima difesa e in parte per eccesso di ira.
Nessun giudice avrebbe creduto a un senza dimora, a un balordo senza patria, senza onore.
Fuggii e per mesi ebbi tremendi incubi sino a quando gli spettri delle mie vittime mi fecero compagnia nelle notti solitarie, davanti a un fuoco di stracci puzzolenti o sotto un ponte, dentro un anfratto del terreno nei giorni di sfortuna, quando eravamo diventati tanti a vagabondare e i rifugi erano troppo pochi.
Ero diventato vecchio e i giovani sbandati mi importunavano: impedendomi di riposare, deridendomi, rubandomi ogni cosa, anche le scarpe.
Solo nella villa dei fantasmi, così era stata richiamata, stavo in pace.
Non era stata più abitata, stavo in pace, tutti avevano un
superstizioso terrore, mentre io li conoscevo bene i miei morti, in fondo ero come me.
Avrei preferito non avere quelle visioni, ma loro c'erano e io non potevo mandarli via, non potevo assassinarli di nuovo.
Era la figlia la più maligna, invece il padre rimaneva con il suo mugugno e non diceva nulla.
La madre mi insultava continuamente, maledicendomi, augurandomi una morte atroce.
Se avessi trovato qualcuno da amare allora la mia morte sarebbe stata terribile come la loro: solo chi ha qualche affetto da perdere può capire la sofferenza della dipartita.
Non ero più capace di amare: ero tosto, abbruttito, più simile a un ratto che a un uomo.
Invece le cose non andarono come credevo.
Fu lei, la mia amica, quella per cui ero fuggito di casa e non ero tornato al mio villaggio, che mi riconobbe.
All'inizio mi parve un sogno, era giovane, bella come un angelo e forse fu l'alcool o chissà cos'altro, che mi entrò nella testa, ma certamente non fu un pensiero salubre.
Mi rammentai delle mie passioni giovanili, della voglia che avevo dei suoi baci, dell'amore che violento provavo per Lei.
Cosa faceva lì? Cosa voleva da me?
Era un diavolo in vena di scherzi atroci? Era lei, in spirito?
Era un incubo?
Gli parlai: -Perché non mi volevi? Per questo decisi di fuggire.
Non ebbi più una vita decente, una donna, una famiglia!-
-Che tu sia maledetto! Io, il giorno dopo la tua fuga, mi suicidai, perché mi ero sentita ingannata, tradita da un farfallone, uno sciocco che mi aveva deluso, rubandomi il cuore e l'onore!-
-Attendevi un figlio! Perché non me lo dicesti?-
Lei scosse il capo: -Non ebbi tempo di spiegartelo!-
Rammentai tutto, era stato mio cugino a ingannarmi: mi aveva raccontato che Lisa, la bella, non mi voleva più e si stava sposando con un uomo ricco, potente e vecchio, da cui attendeva un figlio.
Così seppi che la decisione più coraggiosa della mia vita era stata la più stolta: se avessi avuto la pazienza di attendere un solo momento senza fuggire, mentre Lisa mi chiamava, la mia esistenza sarebbe stata totalmente diversa.
Non avrei provocato tanti dolori e tanti lutti attorno a me.
I tre spettri si poterono finalmente, dopo anni di attesa, vendicarsi, conducendomi con loro nel mondo sotterraneo, tenebroso, dove non esiste più speranza, ma urla di dolore sempre soffocate dal vento infernale.
Il mio cadavere rimase lì, insepolto per anni, in preda ai cani randagi.
L'autunno ricoprì i miei resti mortali con uno strato di foglie morbide, di rami secchi, di rugiada, che furono le uniche lacrime versate su di me.

ALBERI .... racconto di Arduino Rossi


ALBERI

Viveva sopra il villaggio, solo da sempre.
Mi chiamavano ancora Bastardo, benché avessi già ottant'anni.
Mia madre mi aveva lasciato solo dopo alcuni anni di stenti, poi, stanca degli insulti della gente, se ne era andata e non si fece più vedere.
Io non lo ricordo, ma si dice che fosse un stato un uomo di elegante e signorile.
In città sposò una nobile donna, che nulla volle sapere del suo passato.
Crebbi grazie alla carità pubblica e ricevetti scappellotti da tutti: ero il capro espiatorio di tutti i furiosi, gli ubriaconi.
Ben presto dovetti diventare indipendente, guadagnarmi il pane andando nei boschi, raccogliendo legna, funghi, tagliando gli arbusti e le erbacce per quattro soldi.
Pescavo di frodo, rubacchiavo, ma non commettevo nulla di particolarmente grave da meritarmi il carcere.
Fu un incontro con gli sbandati della valle a indirizzare la mia esistenza: mi presero in simpatia e non mi trattarono più da bastardo, che per loro era un titolo di "merito", indicava durezza e determinazione.
Il capo mi concesse la sua stima e fiducia: divenni il suo
luogotenente, capo branco, come lui mi definì.
Era bello razziare il bestiame dei mie compaesani: rubavo, incendiavo e le donne si concedevano di nascosto a me.
Mi amavano per la mia audacia e generosità.
Un giorno capii che era meglio cambiare mestiere e me ne approfittai di un Reale Decreto, che riduceva la pena a pochi mesi di carcere ai briganti che si sarebbero arresi entro Natale Scontai pochi mesi di carcere e per la Pasqua successiva era già a casa.
Mi ero comprato una baita con prati e boschi: lì avevo nascosto il mio bottino, sotto tre alberi da me piantati.
C'era parecchio oro, più gioielli anche di gran valore, rapinati durante un'assalto alla corriera.
Avevo assassinato tutti i miei compari, per non dividere il bottino e feci credere agli altri banditi che eravamo caduti in una trappola: solo io mi ero salvato, fingendomi morto.
Trovai la donna giusta che si mise con me senza sposarmi, per nulla pettegola.
Non volevo avere a che fare con preti né fare promesse di fedeltà davanti a uno sciocco sindaco.
I figli che nacquero erano come me, bastardi, ma con la mia stessa tempra: nessuno ebbe il coraggio di trattarli male.
Erano dei veri mascalzoni e io ne ero fiero, ma fui costretto a pentirmi.
Il maggiore pensava solo a divertirsi e non lavorava.
Mi infuriai con lui e mi picchiò: -Padre! Devi mantenerci: ci hai dato la vita ed ora ci devi il pane!-
La mia esistenza divenne un inferno: mi chiusero nella stalla con le bestie, mi davano da mangiare gli avanzi della cucina, mi picchiavano continuamente, senza motivo.
La loro madre stava dalla loro parte: li spronava a proseguire nel maltrattamento.
Mi odiava perché avevo approfittato di lei in gioventù, quando ero ancora vigoroso.
La mia vecchiaia assomigliava alla mia giovinezza, ma finalmente la morte si decise a venirmi a trovare.
L'accolsi con gioia e mi seppellirono ai piedi dei tre alberi, accanto al mio tesoro che non trovarono mai.
Gli anni trascorsero e il tempo fece pulizia e giustizia delle vecchie generazioni, ma portando sempre altra gente, cattiva e buona come chi li aveva preceduto.
I miei figli si erano dispersi e non ebbero una progenie legale, solo bastardi: non rimase più nessuno a rammentare chi fossi stato e cosa avessi fatto.
La mia proprietà cambiò padroni sino a quando non arrivò una donna, decisa ad abbandonare la città per un vita più semplice.
Mutò, tagliò, innescò, fece potare, piantò alberi a me sconosciuti in fine si arrestò davanti ai miei alberi: erano
vecchi e malconci, decise di farli tagliare e di costruire sopra una casetta, facendo abbattere il mio casolare, ormai diventato un mucchio di ruderi.
Fu una scelta disgraziata: il cuore della mia abitazione ero io, con il mio oro maledetto.
In più quello stolto decise di organizzare sedute spiritiche: quella maledetta mi costrinse a uscire dall'inferno per tormentarmi sulla terra.
La pregai in sogno di lasciarmi in pace, ma fu vano, allora le feci trovare il mio bottino insanguinato e maledetto: fu la mia vendetta, perché con quel tesoro si sarebbe dannata.
Non mi ascoltò e si perse, mentre io divenni per colpa sua uno spirito senza dimora: vagavo nelle case, visibile solo al tramonto, non c'era più il mio oro a trattenermi presso la mia sepoltura.
La mia anima era stanca, ma attesi che quel mio sogno maledetto terminasse: tornai per sempre nell'Oltretomba.
Ora sono io a torturare gli spiriti dei miei persecutori  qua, all'inferno.
Sono io a far rammentare a loro le loro colpe, a ficcare il dito nelle loro piaghe putride: dopo tutto ero sempre il Bastardo.

IL PRINCIPE ... racconto di Arduino Rossi


IL PRINCIPE

Il fieno era fresco e profumava di primavera.
Dormire nella stalla con i cavalli mi era sempre piaciuto e da ragazzo passavo le notti estive nelle stalle.
Ero considerato un pazzo dalla mia famiglia, ricchi mercanti di bestiame e di terreni, gente pratica con le idee chiare e il senso del denaro nella testa, anzi nelle vene.
Spesso mi prendevo un cavallo, dei più bizzosi e selvaggi.
Cavalcavo sotto il cielo stellato in cerca di non so che, forse un po' di natura libera e violenta, senza alcun limite, tra blu, rosa e viola dei prati inselvatichiti delle radure tra le rocce delle colline brulle, tra la macchia della terra di nessuno.
Mi inoltravo sin dentro la selva del castello, così denominata perché la proprietà era ancora in mano ai vecchi principi di Norbo, gente fiacca e senza intelligenza.
Era una stirpe nobiliare ormai imbastardita e priva di animo umano: si diceva che fossero delle vere bestie nei modi, nell'atteggiamento, nel parlare.
Possedevano vaste terre che erano rimaste incolte per negligenza, per stoltezza, per la disonestà dei fattori.
L'ultimo dei Norbo aveva poco da campare e io ero deciso ad acquistare le sue proprietà, nonostante i miei fratelli mi sconsigliassero: -E' terra cattiva, che non darà mai frutto! E' arida o boschiva, ma non si riesce a strappar nulla da quelle zolle: il Diavolo ci ha messo di mezzo la zampa!-
I miei fratelli erano superstiziosi come donnicciole e nonostante la loro mentalità pratica non si alzavano mai al di sopra della credulità dei rustici.
Io invece non credevo ai detti, alle leggende, ai pregiudizi del popolino: ero l'unico della mia famiglia ad avere studiato.
Ero l'unico che se ne infischiava di affari, di compravendite, di cavalli e vacche: dicevano che fossi nato signore e per i miei compaesani questo non era un complimento.
Divenni così il proprietario di un castellaccio mezzo diroccato, di tante ortiche e di alberi curvi e secchi, o nodosi come quelle di un dannato sotto le bastonate del diavolo.
Avevo come rendita unicamente il magro pedaggio dei pastori, che transitavano e pascolavano in estate, mentre il taglio dei boschi mi rendeva così poco che li feci sospendere.
Comunque quel poco mi bastava e mi accontentavo di pane e formaggio, di un po' di legna per l'inverno e di quattro assi per sistemare qualche muro pericolante.
Facevo anche il muratore e trascorrevo il mio tempo a chiudere
crepe, a ricomporre parti crollate, a rinforzare pavimenti instabili.
Infondo quella era la mia reggia, grande quanto inutile, ma stupenda quanto rustica: mi sentivo il nuovo signore di Sassiduri, così l'avevano richiamato, ma in realtà era il feudo di San Lorenzo.
Presto mi feci passare come ultimo erede della stirpe del Norbo e i passanti incuriositi si chiedevano come era possibile che quella gente così corrotta e lasciva avesse potuto generare un uomo alto, robusto, deciso come me.
Infatti avevo la nobiltà dei feudatari di un tempo, quando essere
signore significava essere un guerriero ardito e senza tante remore.
La gente del posto sapeva chi fossi, ma stavano al gioco e presto si scordarono chi fossi realmente confondendomi con un nobile.
Tra le rovine della cappella ritrovai vecchie corazze e mi immedesimai nella parte di un cavaliere di venduta coraggioso, leale, pronto a difendere la sua terra e il suo Re.
Divenni così il Pazzo di Sassiduri e mi beffarono per questa mia mania: mi presentavo in corazze ai forestieri e pretendevo di essere ossequiato come un feudatario di altre epoche.
Invece folle non lo ero, sapevo ciò che facevo e ben presto i miei compaesani ebbero bisogno di me: il colera colpì le campagne basse e calde, una gran folla di profughi giunse sino a noi, ultimo paese delle terre alte, prima della frontiera, era un popolo di disperati che non sapeva cosa fare né dove andare.
Sarebbero stati respinti dalle guardie di confine e la mia gente invece li avrebbe affrontato a fucilate se avessero tentato di superare il ponte che conduceva al villaggio.
Ne sarebbe nato un feroce scontro con altri morti e feriti, oltre a quelli del morbo: come nobile e coraggioso signore decisi di offrire la mia modesta dimora ai fuggiaschi, evitando un inutile spargimento di sangue.
In quei giorni mi prodigai per soccorrere moribondi e malati, non disdegnando il contatto da Buon infermiere, ma rimanendo in salute sino alla fine della moria.
I superstiti se ne tornarono alle loro case ringraziandomi e benedicendomi: ero matto, ma sicuramente un buono e generoso.
Anche tra la mia gente ci fu chi riconobbe i miei meriti, ma nessuno volle ringraziarmi, anzi mi accusarono di essere stato dalla parte della gente della piana, da sempre loro rivali.
Non mi preoccupai delle loro opinioni e proseguii a fare il signore di quella fortezza senza soldati, senza importanza.
Gli anni passarono e i miei capelli divennero bianchi, la mia voce roca, i miei occhi stanchi: la morte non era ancora arrivata ad annunciarmi quale destino mi attendeva e io rimanevo lì, pronto ad ospitare qualche viandante, qualche vagabondo o pellegrino che fosse.
Non chiedevo dove andavano né dove venivano, ma solo per quale motivo si erano rifugiati in quel posto così arroccato e lontano dalle grandi strade di comunicazione del regno: -Siamo dei poveracci e non possiamo pagare i pedaggi del sovrano.
Siamo briganti! Siamo eremiti!-
Erano queste le solite risposte che ottenevo, ma una mi confuse e mi riempì di dubbi: -Sono tornato per vedere chi era rimasto così nobile da continuare la mia missione!-
Chi fosse costui non lo sapevo, forse era un vecchio mercenario, sicuramente un vecchio soldato con molte battaglie alle spalle: aveva l'aria marziale e molte cicatrici di arma bianca sul viso e sulle braccia.
Era forte e dai modi di chi era abituato a comandare e non ricevere mai rifiuti o disubbidienze ai suoi ordini.
Gli chiesi: -Chi sei?-
-Sono il fondatore, il costruttore del castello!-
Era più folle di me, il rudere era stato costruito secoli prima.
Invece quello proseguì: -Ai miei tempi nessuno si sarebbe   permesso di alzare lo sguardo su me, quando alzavo la voce.
Questo conta molto! Sei un mio pari!-
Scomparve come era arrivato e al suo posto trovai una croce, scavai. Rinvenni i resti mortali di un signore in una grande armatura dorata: aveva in una mano scheletrica una pergamena con scritto chiaramente il mio nome: era la dichiarazione a nuovo Signore di Sassiduri, Principe di diritto, erede legittimo.

LIBRI . racconto di Arduino Rossi


LIBRI

Lo scopo della mia vita era lo studio: leggere e accumulare appunti per un'opera mastodontica che avrei chiamato l'enciclopedia.
Non sarebbe stata come quella degli enciclopedici del secolo dei Lumi, ma come una nuova pietra fondamentale del sapere moderno.
Stavo accumulando dati su tutto lo scibile umano, dalla biologia all'astrologia, dal mondo delle fiabe a quello delle musiche giovanili rumoreggianti e legate al consumo delle droghe.
Ero il bibliotecario di una piccola biblioteca di periferia che aveva pochi utenti, per di più vecchi professori con le loro manie culturali, specializzati su autori latini e greci.
Avevo uno scatolone dove erano ammucchiate centinaia di quaderni con le bozze di quanta anni di impegno.
Mi mancava solo la casa editrice disposta a far stampare tutto quel materiale, anche a pagamento, ma per pubblicare il tutto mi serviva una somma enorme.
Sostenevano che non avesse valore commerciale un'edizione così grande volume di dati e date senza scopo alcuno se non quello della pura conoscenza pedante.
Non esistevano più gli amanti delle nozioni e delle informazioni senza scopo se non quello della pura divulgazione.
La ricerca del denaro per far entrare in biblioteca il mio lavoro di tutta la vita era diventata un'ossessione, io non avevo mai desiderato denaro: ero uno scapolo abitudinario, con i ritmi precisi e ripetitivi, quasi maniacali senza fantasia.
Mangiavo alla data ora, andavano sempre a letto alle venti e mi alzavo alle cinque del mattino in qualsiasi stagione: mi lavavo le miei cose, mi preparavo la mia magra colazione.
Mi sistemavo il mio vestito grigio con la cravatta intonata e il mio cappello, tenuto con religiosa precisione.
Ero stato indifferente alle mode e il mio vestiario era particolarmente antiquato: i giovani sorridevano vedendomi passare, per loro ero un rudere vivente.
Come potevo ottenere denaro?
I miei risparmi non erano sufficienti, la mia liquidazione avrebbe coperto la metà della spesa, mentre io volevo vedere pubblicato tutto al più presto.
Temevo che un malore mi avrebbe portato all'altro mondo senza poter concludere la mia opera.
Era questa la seconda ossessione che non mi lasciva dormire: dover lasciare tutto qui senza aver visto la fine del mio impegno, mi terrorizzava l'idea perché mi pareva di non dare un senso alla mia vita.
Di libri la mia biblioteca ne conteneva più di duecentomila: era un vero tesoro di antichità e di rarità.
Ero l'unico a sfogliare i testi più preziosi, i manoscritti più belli, miniati con gusto aristocratico.
Fu proprio in uno di questi miei tesori, come li chiamavo io, che scovai la mia fortuna o sfortuna se preferite: era la descrizione di un enigmatico covo di briganti, proprio nella parte vecchia della città è sotto un edificio che oggi non esiste più.
Lì, secondo il libro, c'era l'oro dei poveri, le pietre preziose dei miseri, l'argento della madre terra.
Poteva essere benissimo simbolico e rappresentare virtù cristiane, ma volli andare sino in fondo alla questione.
Non fu facile convincere il custode dello stabile che sorgeva al posto del monastero in parte abbattuto il secolo scorso: con una buona mancia il burbero guardiano mi lasciò scendere negli scantinati, tra topi e ragni, come diceva lui, tra reperti archeologici come sostenevo io.
Infatti di resti di precedenti costruzioni, pre-romane e medievali ne individuai parecchi, ma non ero sceso per quello: dovevo trovare il corridoio che portava al covo, o se preferite al nascondiglio dei briganti.
La porta delle segrete era stata murata secoli prima, ma c'era ancora la traccia degli antichi cardini: non era da lì che sarei riuscito a penetrare nella sala del mio tesoro.
Avrei dovuto cercare in un altro tratto, forse dalla chiesa
patronale.
Attesi la sera e mi nascosi nel confessionale, il sagrestano chiuse le porte e se ne andò, così potei uscire indisturbato.
Fu facile trovare la porta dei sotterranei, era rimasta aperta e la conoscevo benissimo, grazie alle mappe che avevo in biblioteca.
Fu facile arrivare all'imbocco degli scantinati dell'antico convento, meno facile fu penetrarvi.
C'era una massiccia porta di legno, ma per fortuna la serratura si era arrugginita: forzarla fu semplice.
Da molti anni nessuno era entrato in quelle gallerie e l'aria era fetida, ma non mi importava, dovevo giungere sino al mio scopo.
L'oro c'era, pure l'argento e le pietre preziose, il libro non
aveva mentito, ma pure mi sembrava troppo facile la mia scoperta: possibile che nessuno si era accorto di quella porta e non si era inoltrato in quei tratti dei sotterranei?
Il mio problema principale era quello di ritornare a casa, procurarmi i mezzi per portare con me quelle ricchezze e spenderle senza dare sospetti.
Non era un'operazione facile: cominciai a riempire la borsa di canapa che avevo con me, poi tornai sui miei passi, ma ben presto mi accorsi di essermi smarrito.
Eppure la mappa non doveva essere sbagliata: le gallerie erano lunghe solo poche centinaia di metri e nulla più.
Mi stavo facendo prendere dal panico: dovevo al più presto richiudere la porta, senza lasciare tracce di scasso e nascondermi in chiesa, per uscire indisturbato con la gente della prima Messa, all'alba.
Finalmente scovai una nuova porta, uscii all'aperto, proprio in una piazza che non avevo mai visto.
C'era un buio tenebroso, la notte era illuminata dalle stelle e da qualche bagliore che usciva dalla finestra.
Il silenzio era pesante, qualche ombra si notava in fondo alla piazza.
Non seppi riconoscere il luogo, eppure la mia città la sapevo percorrere anche a occhi chiusi: quello era un posto sconosciuto, mai visto se non in un vecchio quadro.
Era impossibile, il borgo di san Giovanni era stato abbattuto nel seicento, quando decisero di allargare la cinta muraria: quel posto non doveva più esistere.
Dei cavalli nitrivano in una stalla vicina, c'erano delle torce ai quattro angoli della piazza e il fumo saliva lieve, mentre la mia vista si stava abituando a quella notte del passato.
Dove ero finito?
I libri di negromanzia parlavano di una seconda città dentro la prima, uguale nei secoli, dove vivevano i morti.
Era assurdo: le mie letture mi avevano offuscato la ragione, non riuscivo a ritrovare altra spiegazione, benché irrazionale.
Il fetore della morte saliva dai borghi sparsi nella campagna: era proprio come nel quadro che tenevo sopra la mia testa da quarant'anni, un paesaggio lugubre che descriveva la pestilenza del seicento.
Udii i carri dei monatti percorrere le vie, i corpi abbruttiti dal morbo, i brutti musi dei porta cadaveri, ceffi sfuggiti al patibolo per la necessità di braccia disposte a sotterrare i morti.
Le torce illuminavano visi terrorizzati o straziati dal dolore, dal terrore di una morte tanto prossima quanto sicura.
Sapevo che il pittore del quadro era stato uno stregone ed era morto sul rogo, ma non sarei mai immaginato che un giorno sarei terminato in un tranello simile: la trappola dei defunti.
Tornai sui miei passi, ma non riuscivo ad orientarmi in quelle tenebre, finalmente rintracciai il convento dei frati neri: vi entrai senza chiedere permesso.
Tutte le porte erano aperte e ogni angolo era zeppo di corpi di moribondi o di cadaveri.
Scesi nella cripta, tra frati oranti, indifferenti a me e al mio abbigliamento per loro insolito.
Trovai la sala del tesoro e decisi di lasciare il mio bottino al suo posto: fu facile individuare l'uscita e attendere la fine della notte tra le colonne della chiesa.
Fuori cercai di capire cosa mi era capitato: poteva essere stato un incubo, ma era reale e mi aveva lasciato l'odore tremendo di cadaveri.
Trovare una spiegazione non fu facile, ma decisi di non tornare a casa se non con il mio oro.
Mi procurai una grande borsa e un sacco per i preziosi, l'argento l'avrei preso un'altra volta.
Mi lessi la sbiadita mappa del borgo di San Giovanni, per non perdermi e scrissi queste memorie, se per caso non dovessi tornare.
So di rischiare di non riuscire più a trovare la via di uscita da quella città celata, ma non ho altre possibilità: quell'oro mi serve.
Si dice che quello sia un limbo o un inferno, dove il tempo sia sempre uguale, una notte perpetua ti avvolge e non ti rimane che stare accanto ai moribondi e ai cadaveri per l'eternità.
Vi racconterò ogni particolare quando sarò tornato.
-Altro non scovai sul Signor Parte, scomparso l'anno scorso.
Come bibliotecario che lo ha sostituito scartabellai tra i volumi
e rintracciai il foglio scritto da questo vecchio pedante di
altri tempi, grazie all'accuratezza che ho nel ricercare e riordinare i volumi.
Dovrei consegnare questo foglio alla polizia, ma temo che servirebbe ad avvallare la teoria della pazzia di Parte, invece io credo all'esistenza di questa città segreta e del tesoro nascosto.
Ho deciso di avventurarmi nei sotterranei della chiesa patronale e se non tornassi pregate per me.-