L'ATTIMO, racconto dell'orrore, horror, nero, scritto da Arduino Rossi, pubblicato con lulu - lulu.com nel volume IL FOLLE
Città, borghi antichi e moderni, poi periferie polverose e
sporche, ecco dove la mia vita trascorreva: erano luoghi diversi
e tristi, tra banditi e truffatori, ladri di ogni specie e
prostitute.
Avevo iniziato come vagabondo, un romantico sogno di vita libera
da ogni legame mi spingeva verso queste strade solitarie e
puzzolenti, in cerca di libertà.
Sì! Libertà, parola splendida, ma vissuta nella sua integrità dà
solo dolore e solitudine.
Sia maledetto quel giorno che me ne andai da casa in cerca di
avventura, sognavo rapporti facili, amicizie sincere e amori
leali, trovai solo mascalzoni, donne a pagamento e traditrici,
guai di chi ha una fissa dimora per la legge.
Non conosco il numero delle notti trascorse in cella, quelle
passate sotto la pioggia, sotto la neve, inseguito dai cani
randagi o dalle guardie.
Eppure, nella mia vecchiaia, non avrei mai veduto un solo istante
della mia esistenza spensierata per un caldo letto, una moglie
fedele e dei figli affettuosi.
Sicuramente avevo una progenie sparsa nelle strade del mondo,
bastardi come me o fannulloni anche loro, mascalzoni certamente,
conoscendo le loro madri.
Nessuno di loro mi aveva chiamato papà e certamente desiderava
conoscere chi li aveva messi al mondo.
Di domande non me ne facevo molte, da tempo mi scaldavo con il
vino, poi con la grappa ed ero invecchiato precocemente,
canuto, ingobbito per l'artrosi per le bastonate.
Cosa potevo desiderare di più dalla vita?
Ero stato libero.
Sì! Signori per bene! Ero stato senza padroni.
Con tutte le mie forze lo urlerei sino alla morte, anche dinnanzi
a Dio o al Diavolo, se questi esistessero veramente.
Invece nulla esiste oltre la morte, tutto non ha un senso e la
giustizia è una fiaba: quale Dio avrebbe creato questo schifo per
giudicare i vivi e i morti.
Forse in Satana un po' credevo: certamente mi aveva aiutato in
passato.
Avevo sulla coscienza alcuni delitti per rissa, per rapina, o
anche per puro divertimento.
Mai nessun gendarme riuscì a mettermi le mani addosso e la mia
scaltrezza superava certamente quella di questi sciocchi
sedentari, maledetti imbroglioni che siedono dietro le scrivanie
polverose e pretendono di scindere ciò che è lecito da ciò che
non lo è.
Mi divertivo a tornare sui luoghi dei miei delitti, certo che più
nessuno mi avrebbe riconosciuto.
Quella notte la volli trascorrere nella villa, ora abbandonata di
una delle azioni sanguinarie.
Mi beffavo di ogni timore superstizioso e non credevo agli
spiriti, benché in quella abitazione la morte era passata e io
ero stato il Caino che si era divertito con le sue vittime: era
avvenuto nella mia giovinezza.
Allora pioveva e avevo freddo, così mi nascosi nell'atrio di una
grande casa signorile, in attesa che la notte passasse, senza
altro scopo che quello di restare riparato.
La figlia, una bella ragazza mora, mi scorse nella penombra e
incominciò a urlare: temetti che chiamasse i cani da guardia e
cercai scampo.
Non riuscii a scappare: ebbi addosso due pastori tedeschi di
grossa taglia, feroci e ben addestrai.
Mi stavano straziando, ma sia la ragazza che i genitore ridevano
del mio dolore, erano proprio feroci e odiavano i vagabondi: -Ora
piangi, maledetto fannullone! La fine che merita la gente come te
è questa: finire in pasto a due bravi cani da guardia!-
Erano dei sadici, maledettamente cattivi: cercai pietà, ma in
vano: erano proprio decisi a farmela pagare, vendicandosi di
tutti i furtarelli che avevano subito dai miei simili.
Riuscii a divincolarmi, nonostante le ferite sanguinanti e
raggiungere un albero da frutta.
I cani non erano riusciti a finirmi, allora il padrone di casa
impugnò un fucile e si pose sotto la pianta.
Mi comandò: -Scendi o ti sparo!-
-Grazie! Non non ho intenzione di farle risparmiare le bistecche,
diventando la cena di queste due bestiole!-
Cercavo di sdrammatizzare, scherzando, dimostrando che non ero
poi così pericoloso, ma a loro questo non interessava: era
importante farla finita con la gente come me.
Il padrone era alto e bianco di capelli, dal viso piatto come un
pugile: -Ti butterò nel pozzo, dove stanno i tuoi soci senza
casa, bastardi barboni che ti hanno preceduto!-
Capii che quelli non stavano scherzando, erano dei folli
criminali e dovevo giocare d'astuzia.
Dissi: -Scendo, mi arrendo, ma ritira i cani!-
Mi sparò contro, ma ero troppo in alto e non capiva dove
esattamente fossi, la notte mi proteggeva.
Terminò le munizioni che aveva con sé e allora gli fui sopra,
saltando agilmente sulle sue spalle: non so come riuscii a
sfuggire a i cani, forse erano confusi per la mia reazione rapida
e improvvisa, comunque fui presto oltre la veranda, dentro la
villa.
La madre e la figlia iniziarono a strillare, ma io ero diventato
una belva: le colpii ripetutamente a pugni e a calci, poi mi
impossessai di una pistola e sparai ai cani, all'impazzata.
eravamo in piena campagna e se qualcuno avesse udito i colpi
avrebbe pensato certamente che fossero quelli di un cacciatore.
Volevo scappare, ma il padrone si era ripreso e mi colpì con una
mazza alle spalle: mi ferì, ma non riuscì a stordirmi.
Fui io che a quel punto lo stordii e poi lo uccisi con una pala.
Ero spronato da una furia bestiale: era l'istinto di
conservazione che mi spingeva ad assassinare senza nessuna pietà.
Capii che le testimoni non potevano lasciarle in vita.
Furono loro a chiedermi compassione questa volta, ma ero troppo
furioso per non portare a termine il mio massacro.
Alla fine ero senza fiato.
Mi resi conto del mio crimine, compiuto in parte per legittima
difesa e in parte per eccesso di ira.
Nessun giudice avrebbe creduto a un senza dimora, a un balordo
senza patria, senza onore.
Fuggii e per mesi ebbi tremendi incubi sino a quando gli spettri
delle mie vittime mi fecero compagnia nelle notti solitarie,
davanti a un fuoco di stracci puzzolenti o sotto un ponte, dentro
un anfratto del terreno nei giorni di sfortuna, quando eravamo
diventati tanti a vagabondare e i rifugi erano troppo pochi.
Ero diventato vecchio e i giovani sbandati mi importunavano:
impedendomi di riposare, deridendomi, rubandomi ogni cosa, anche
le scarpe.
Solo nella villa dei fantasmi, così era stata richiamata, stavo
in pace.
Non era stata più abitata, stavo in pace, tutti avevano un
superstizioso terrore, mentre io li conoscevo bene i miei morti,
in fondo ero come me.
Avrei preferito non avere quelle visioni, ma loro c'erano e io
non potevo mandarli via, non potevo assassinarli di nuovo.
Era la figlia la più maligna, invece il padre rimaneva con il suo
mugugno e non diceva nulla.
La madre mi insultava continuamente, maledicendomi, augurandomi
una morte atroce.
Se avessi trovato qualcuno da amare allora la mia morte sarebbe
stata terribile come la loro: solo chi ha qualche affetto da
perdere può capire la sofferenza della dipartita.
Non ero più capace di amare: ero tosto, abbruttito, più simile a
un ratto che a un uomo.
Invece le cose non andarono come credevo.
Fu lei, la mia amica, quella per cui ero fuggito di casa e non
ero tornato al mio villaggio, che mi riconobbe.
All'inizio mi parve un sogno, era giovane, bella come un angelo e
forse fu l'alcool o chissà cos'altro, che mi entrò nella testa,
ma certamente non fu un pensiero salubre.
Mi rammentai delle mie passioni giovanili, della voglia che avevo
dei suoi baci, dell'amore che violento provavo per Lei.
Cosa faceva lì? Cosa voleva da me?
Era un diavolo in vena di scherzi atroci? Era lei, in spirito?
Era un incubo?
Gli parlai: -Perché non mi volevi? Per questo decisi di fuggire.
Non ebbi più una vita decente, una donna, una famiglia!-
-Che tu sia maledetto! Io, il giorno dopo la tua fuga, mi
suicidai, perché mi ero sentita ingannata, tradita da un
farfallone, uno sciocco che mi aveva deluso, rubandomi il cuore e
l'onore!-
-Attendevi un figlio! Perché non me lo dicesti?-
Lei scosse il capo: -Non ebbi tempo di spiegartelo!-
Rammentai tutto, era stato mio cugino a ingannarmi: mi aveva
raccontato che Lisa, la bella, non mi voleva più e si stava
sposando con un uomo ricco, potente e vecchio, da cui attendeva
un figlio.
Così seppi che la decisione più coraggiosa della mia vita era
stata la più stolta: se avessi avuto la pazienza di attendere un
solo momento senza fuggire, mentre Lisa mi chiamava, la mia
esistenza sarebbe stata totalmente diversa.
Non avrei provocato tanti dolori e tanti lutti attorno a me.
I tre spettri si poterono finalmente, dopo anni di attesa,
vendicarsi, conducendomi con loro nel mondo sotterraneo,
tenebroso, dove non esite più speranza, ma urla di dolore sempre
soffocate dal vento infernale.
Il mio cadavere rimase lì, insepolto per anni, in preda ai cani
randagi.
L'autunno ricoprì i miei resti mortali con uno strato di foglie
morbide, di rami secchi, di rugiada, che furono le uniche lacrime
versate su di me.
Città, borghi antichi e moderni, poi periferie polverose e
sporche, ecco dove la mia vita trascorreva: erano luoghi diversi
e tristi, tra banditi e truffatori, ladri di ogni specie e
prostitute.
Avevo iniziato come vagabondo, un romantico sogno di vita libera
da ogni legame mi spingeva verso queste strade solitarie e
puzzolenti, in cerca di libertà.
Sì! Libertà, parola splendida, ma vissuta nella sua integrità dà
solo dolore e solitudine.
Sia maledetto quel giorno che me ne andai da casa in cerca di
avventura, sognavo rapporti facili, amicizie sincere e amori
leali, trovai solo mascalzoni, donne a pagamento e traditrici,
guai di chi ha una fissa dimora per la legge.
Non conosco il numero delle notti trascorse in cella, quelle
passate sotto la pioggia, sotto la neve, inseguito dai cani
randagi o dalle guardie.
Eppure, nella mia vecchiaia, non avrei mai veduto un solo istante
della mia esistenza spensierata per un caldo letto, una moglie
fedele e dei figli affettuosi.
Sicuramente avevo una progenie sparsa nelle strade del mondo,
bastardi come me o fannulloni anche loro, mascalzoni certamente,
conoscendo le loro madri.
Nessuno di loro mi aveva chiamato papà e certamente desiderava
conoscere chi li aveva messi al mondo.
Di domande non me ne facevo molte, da tempo mi scaldavo con il
vino, poi con la grappa ed ero invecchiato precocemente,
canuto, ingobbito per l'artrosi per le bastonate.
Cosa potevo desiderare di più dalla vita?
Ero stato libero.
Sì! Signori per bene! Ero stato senza padroni.
Con tutte le mie forze lo urlerei sino alla morte, anche dinnanzi
a Dio o al Diavolo, se questi esistessero veramente.
Invece nulla esiste oltre la morte, tutto non ha un senso e la
giustizia è una fiaba: quale Dio avrebbe creato questo schifo per
giudicare i vivi e i morti.
Forse in Satana un po' credevo: certamente mi aveva aiutato in
passato.
Avevo sulla coscienza alcuni delitti per rissa, per rapina, o
anche per puro divertimento.
Mai nessun gendarme riuscì a mettermi le mani addosso e la mia
scaltrezza superava certamente quella di questi sciocchi
sedentari, maledetti imbroglioni che siedono dietro le scrivanie
polverose e pretendono di scindere ciò che è lecito da ciò che
non lo è.
Mi divertivo a tornare sui luoghi dei miei delitti, certo che più
nessuno mi avrebbe riconosciuto.
Quella notte la volli trascorrere nella villa, ora abbandonata di
una delle azioni sanguinarie.
Mi beffavo di ogni timore superstizioso e non credevo agli
spiriti, benché in quella abitazione la morte era passata e io
ero stato il Caino che si era divertito con le sue vittime: era
avvenuto nella mia giovinezza.
Allora pioveva e avevo freddo, così mi nascosi nell'atrio di una
grande casa signorile, in attesa che la notte passasse, senza
altro scopo che quello di restare riparato.
La figlia, una bella ragazza mora, mi scorse nella penombra e
incominciò a urlare: temetti che chiamasse i cani da guardia e
cercai scampo.
Non riuscii a scappare: ebbi addosso due pastori tedeschi di
grossa taglia, feroci e ben addestrai.
Mi stavano straziando, ma sia la ragazza che i genitore ridevano
del mio dolore, erano proprio feroci e odiavano i vagabondi: -Ora
piangi, maledetto fannullone! La fine che merita la gente come te
è questa: finire in pasto a due bravi cani da guardia!-
Erano dei sadici, maledettamente cattivi: cercai pietà, ma in
vano: erano proprio decisi a farmela pagare, vendicandosi di
tutti i furtarelli che avevano subito dai miei simili.
Riuscii a divincolarmi, nonostante le ferite sanguinanti e
raggiungere un albero da frutta.
I cani non erano riusciti a finirmi, allora il padrone di casa
impugnò un fucile e si pose sotto la pianta.
Mi comandò: -Scendi o ti sparo!-
-Grazie! Non non ho intenzione di farle risparmiare le bistecche,
diventando la cena di queste due bestiole!-
Cercavo di sdrammatizzare, scherzando, dimostrando che non ero
poi così pericoloso, ma a loro questo non interessava: era
importante farla finita con la gente come me.
Il padrone era alto e bianco di capelli, dal viso piatto come un
pugile: -Ti butterò nel pozzo, dove stanno i tuoi soci senza
casa, bastardi barboni che ti hanno preceduto!-
Capii che quelli non stavano scherzando, erano dei folli
criminali e dovevo giocare d'astuzia.
Dissi: -Scendo, mi arrendo, ma ritira i cani!-
Mi sparò contro, ma ero troppo in alto e non capiva dove
esattamente fossi, la notte mi proteggeva.
Terminò le munizioni che aveva con sé e allora gli fui sopra,
saltando agilmente sulle sue spalle: non so come riuscii a
sfuggire a i cani, forse erano confusi per la mia reazione rapida
e improvvisa, comunque fui presto oltre la veranda, dentro la
villa.
La madre e la figlia iniziarono a strillare, ma io ero diventato
una belva: le colpii ripetutamente a pugni e a calci, poi mi
impossessai di una pistola e sparai ai cani, all'impazzata.
eravamo in piena campagna e se qualcuno avesse udito i colpi
avrebbe pensato certamente che fossero quelli di un cacciatore.
Volevo scappare, ma il padrone si era ripreso e mi colpì con una
mazza alle spalle: mi ferì, ma non riuscì a stordirmi.
Fui io che a quel punto lo stordii e poi lo uccisi con una pala.
Ero spronato da una furia bestiale: era l'istinto di
conservazione che mi spingeva ad assassinare senza nessuna pietà.
Capii che le testimoni non potevano lasciarle in vita.
Furono loro a chiedermi compassione questa volta, ma ero troppo
furioso per non portare a termine il mio massacro.
Alla fine ero senza fiato.
Mi resi conto del mio crimine, compiuto in parte per legittima
difesa e in parte per eccesso di ira.
Nessun giudice avrebbe creduto a un senza dimora, a un balordo
senza patria, senza onore.
Fuggii e per mesi ebbi tremendi incubi sino a quando gli spettri
delle mie vittime mi fecero compagnia nelle notti solitarie,
davanti a un fuoco di stracci puzzolenti o sotto un ponte, dentro
un anfratto del terreno nei giorni di sfortuna, quando eravamo
diventati tanti a vagabondare e i rifugi erano troppo pochi.
Ero diventato vecchio e i giovani sbandati mi importunavano:
impedendomi di riposare, deridendomi, rubandomi ogni cosa, anche
le scarpe.
Solo nella villa dei fantasmi, così era stata richiamata, stavo
in pace.
Non era stata più abitata, stavo in pace, tutti avevano un
superstizioso terrore, mentre io li conoscevo bene i miei morti,
in fondo ero come me.
Avrei preferito non avere quelle visioni, ma loro c'erano e io
non potevo mandarli via, non potevo assassinarli di nuovo.
Era la figlia la più maligna, invece il padre rimaneva con il suo
mugugno e non diceva nulla.
La madre mi insultava continuamente, maledicendomi, augurandomi
una morte atroce.
Se avessi trovato qualcuno da amare allora la mia morte sarebbe
stata terribile come la loro: solo chi ha qualche affetto da
perdere può capire la sofferenza della dipartita.
Non ero più capace di amare: ero tosto, abbruttito, più simile a
un ratto che a un uomo.
Invece le cose non andarono come credevo.
Fu lei, la mia amica, quella per cui ero fuggito di casa e non
ero tornato al mio villaggio, che mi riconobbe.
All'inizio mi parve un sogno, era giovane, bella come un angelo e
forse fu l'alcool o chissà cos'altro, che mi entrò nella testa,
ma certamente non fu un pensiero salubre.
Mi rammentai delle mie passioni giovanili, della voglia che avevo
dei suoi baci, dell'amore che violento provavo per Lei.
Cosa faceva lì? Cosa voleva da me?
Era un diavolo in vena di scherzi atroci? Era lei, in spirito?
Era un incubo?
Gli parlai: -Perché non mi volevi? Per questo decisi di fuggire.
Non ebbi più una vita decente, una donna, una famiglia!-
-Che tu sia maledetto! Io, il giorno dopo la tua fuga, mi
suicidai, perché mi ero sentita ingannata, tradita da un
farfallone, uno sciocco che mi aveva deluso, rubandomi il cuore e
l'onore!-
-Attendevi un figlio! Perché non me lo dicesti?-
Lei scosse il capo: -Non ebbi tempo di spiegartelo!-
Rammentai tutto, era stato mio cugino a ingannarmi: mi aveva
raccontato che Lisa, la bella, non mi voleva più e si stava
sposando con un uomo ricco, potente e vecchio, da cui attendeva
un figlio.
Così seppi che la decisione più coraggiosa della mia vita era
stata la più stolta: se avessi avuto la pazienza di attendere un
solo momento senza fuggire, mentre Lisa mi chiamava, la mia
esistenza sarebbe stata totalmente diversa.
Non avrei provocato tanti dolori e tanti lutti attorno a me.
I tre spettri si poterono finalmente, dopo anni di attesa,
vendicarsi, conducendomi con loro nel mondo sotterraneo,
tenebroso, dove non esite più speranza, ma urla di dolore sempre
soffocate dal vento infernale.
Il mio cadavere rimase lì, insepolto per anni, in preda ai cani
randagi.
L'autunno ricoprì i miei resti mortali con uno strato di foglie
morbide, di rami secchi, di rugiada, che furono le uniche lacrime
versate su di me.