Abeti, racconto tratto dalla raccolta di racconti IL FOLLE, edito dalla casa editrice lulu -lulu.com
Racconto horror, orrore, nero
Tagliare e poi tagliare, quei vecchi alberi avrebbero reso solo così, come legna per l'edilizia e null'altro.
Erano tutti nodosi, i roditori vi facevano il nido dentro, i topi avevano roso le radici e il mio pro-zio non li aveva mai fatti abbattere.
Sosteneva che stavano bene così e se ne infischiava dei debiti, delle ipoteche sulla tenuta, che non rendeva un centesimo.
Era un maledetto cocciuto, un mulo con l'anima dura.
Finalmente, dopo la sua morte, riuscii a disboscare, a tamponare le ipoteche e far rendere quella enorme tenuta di montagna, fatta solo di prati, orti, qualche ripido campo di segala e tanti boschi infruttuosi.
Non me ne importai delle proteste dei montanari: temevano frane d'estate e slavine d'inverno.
L'importante era cavar soldi anche dai sassi: ben presto ebbi la fortuna di chiudere le questioni con i creditori ed essere io a prestar denaro.
Per ottenere ciò avevo dovuto essere coriaceo, non aver compassione di nessuno: avevo scacciato contadini che non sapevano far fruttare la terra, sostituendoli con dei salariati della valle.
Anche le vedove con i bambini ancora lattanti, i vecchi senza futuro se ne andarono a morire nell'ospizio dei miserabili.
Ero odiato, disprezzato, ma ricco, invece il mio pro-zio era un poveraccio, ma ero considerato un benefattore.
Ora, sopra il paese c'erano larghi spazi di terreno brullo, ma avrei ricavato dei pascoli e della foresta restava poco.
Forse gli spiriti, come la gente del posto continuava a ripetermi: -Verranno e si vendicheranno!-
Sorridevo: -Li sto aspettando e chiederò a loro l'affitto per tutto il tempo trascorso nei miei baschi!-
Fantasmi, spiritelli, diavoli, anime purganti e dannate, ne era zeppa la testa e le bocche dei villani, ma io non ci credevo.
Il mio pro-zio, prima di morire mi aveva obbligato a giurare di modificare la proprietà e di tenere tutto come era: io dovetti assecondarlo per non perdere la proprietà.
Quello sciocco superstizioso era convinto che nel bosco ci fossero lupi mannari, streghe e tanti altri mostri di tutte le specie.
Ero così uno spergiuro, ma non me ne curavo: avevo un fortissimo senso pratico e l'onore per me si misurava con i soldi.
Infatti il tempo passava e nulla era capitato: gli abeti cadevano uno dopo l'altro sotto i colpi dei boscaioli ed erano trascinati a valle come vecchi corpi deformi, doloranti.
Ero lì, sotto l'abetaia, che osservavo il mio trionfo contro le superstizioni, che mi apparve: era un ometto brutto, con un odore da pecoraro e scuro per il sole.
La barba di una settimana gli giungeva sotto gli occhi: era maligno nelle movenze ipocrite.
Mi fissava con sguardo cattivo e sogghignava.
Chiesi infastidito: -Chi sei?-
Non mi rispose.
Mi stancai di quello che mi parve un povero demente: -Vai all'inferno!-
Mi rispose: -Sì, ma con te, maledetto spergiuro!-
Proprio in quell'istante cadde un abete, tagliato con perizia, ma misteriosamente precipitato verso di me.
-Il padron Toni è morto questa notte, tra urla di dolore.
Delirava, continuando a chiedere di scacciare dal suo letto di morte tutti quei mostri, che solo lui vedeva. Sosteneva che fossero gli spiriti dell'abetaia: sogghignavano, ballavano, cantavano per la gioia, certi che la sua anima sarebbe finita all'inferno.
Rantolò, spirò e si udì una fragorosa, portentosa risata, come quella di una platea di omaccioni festosi.-
Racconto horror, orrore, nero
Tagliare e poi tagliare, quei vecchi alberi avrebbero reso solo così, come legna per l'edilizia e null'altro.
Erano tutti nodosi, i roditori vi facevano il nido dentro, i topi avevano roso le radici e il mio pro-zio non li aveva mai fatti abbattere.
Sosteneva che stavano bene così e se ne infischiava dei debiti, delle ipoteche sulla tenuta, che non rendeva un centesimo.
Era un maledetto cocciuto, un mulo con l'anima dura.
Finalmente, dopo la sua morte, riuscii a disboscare, a tamponare le ipoteche e far rendere quella enorme tenuta di montagna, fatta solo di prati, orti, qualche ripido campo di segala e tanti boschi infruttuosi.
Non me ne importai delle proteste dei montanari: temevano frane d'estate e slavine d'inverno.
L'importante era cavar soldi anche dai sassi: ben presto ebbi la fortuna di chiudere le questioni con i creditori ed essere io a prestar denaro.
Per ottenere ciò avevo dovuto essere coriaceo, non aver compassione di nessuno: avevo scacciato contadini che non sapevano far fruttare la terra, sostituendoli con dei salariati della valle.
Anche le vedove con i bambini ancora lattanti, i vecchi senza futuro se ne andarono a morire nell'ospizio dei miserabili.
Ero odiato, disprezzato, ma ricco, invece il mio pro-zio era un poveraccio, ma ero considerato un benefattore.
Ora, sopra il paese c'erano larghi spazi di terreno brullo, ma avrei ricavato dei pascoli e della foresta restava poco.
Forse gli spiriti, come la gente del posto continuava a ripetermi: -Verranno e si vendicheranno!-
Sorridevo: -Li sto aspettando e chiederò a loro l'affitto per tutto il tempo trascorso nei miei baschi!-
Fantasmi, spiritelli, diavoli, anime purganti e dannate, ne era zeppa la testa e le bocche dei villani, ma io non ci credevo.
Il mio pro-zio, prima di morire mi aveva obbligato a giurare di modificare la proprietà e di tenere tutto come era: io dovetti assecondarlo per non perdere la proprietà.
Quello sciocco superstizioso era convinto che nel bosco ci fossero lupi mannari, streghe e tanti altri mostri di tutte le specie.
Ero così uno spergiuro, ma non me ne curavo: avevo un fortissimo senso pratico e l'onore per me si misurava con i soldi.
Infatti il tempo passava e nulla era capitato: gli abeti cadevano uno dopo l'altro sotto i colpi dei boscaioli ed erano trascinati a valle come vecchi corpi deformi, doloranti.
Ero lì, sotto l'abetaia, che osservavo il mio trionfo contro le superstizioni, che mi apparve: era un ometto brutto, con un odore da pecoraro e scuro per il sole.
La barba di una settimana gli giungeva sotto gli occhi: era maligno nelle movenze ipocrite.
Mi fissava con sguardo cattivo e sogghignava.
Chiesi infastidito: -Chi sei?-
Non mi rispose.
Mi stancai di quello che mi parve un povero demente: -Vai all'inferno!-
Mi rispose: -Sì, ma con te, maledetto spergiuro!-
Proprio in quell'istante cadde un abete, tagliato con perizia, ma misteriosamente precipitato verso di me.
-Il padron Toni è morto questa notte, tra urla di dolore.
Delirava, continuando a chiedere di scacciare dal suo letto di morte tutti quei mostri, che solo lui vedeva. Sosteneva che fossero gli spiriti dell'abetaia: sogghignavano, ballavano, cantavano per la gioia, certi che la sua anima sarebbe finita all'inferno.
Rantolò, spirò e si udì una fragorosa, portentosa risata, come quella di una platea di omaccioni festosi.-