14 mag 2013

L'ALBERO CHE PARLA di Luigi Capuana - racconto


L'ALBERO CHE PARLA

C'era una volta un Re che credeva d'aver raccolto nel suo palazzo tutte le cose più rare del mondo.
Un giorno venne un forestiere, e chiese di vederle. Osservò minutamente ogni cosa e poi disse:
- Maestà, vi manca il meglio.
- Che cosa mi manca?
- L'albero che parla.

Infatti, tra quelle rarità, l'albero che parlava non c'era.
Con questa pulce nell'orecchio, il Re non dormì più. Mandò corrieri per tutto il mondo in cerca dell'albero che parlava. Ma i corrieri tornarono colle mani vuote.
Il Re si credette canzonato da quel forestiere, e ordinò d'arrestarlo.
- Maestà, se i vostri corrieri han cercato male, che colpa ne ho io? Cerchino meglio.
- E tu l'hai veduto, coi tuoi occhi, l'albero che parla?
- L'ho veduto con questi occhi e l'ho sentito con queste orecchie.
- Dove?
- Non me ne rammento più.
- E che cosa diceva?
- Diceva "aspettare e non venire è una cosa da morire".

Era dunque vero! Il Re spedì di bel nuovo i suoi corrieri. Passa un anno, e questi ritornano da capo colle mani vuote.
Allora, sdegnato, ordinò che al forestiere si tagliasse la testa.
- Maestà, se i vostri corrieri han cercato male, che colpa ne ho io? Cerchino meglio.
Questa insistenza lo colpì. Chiamati i suoi ministri, disse che voleva andar lui in persona alla ricerca dell'albero che parlava.
Finché non lo avesse nel suo palazzo, non si terrebbe per Re.
E partì, travestito.
Cammina, cammina, dopo molti giorni la notte lo colse in una vallata dove non c'era anima viva. Sdraiossi per terra e stava per addormentarsi, quand'ecco una voce che pareva piangesse:
- Aspettare e non venire è una cosa da morire!
Si scosse e tese l'orecchio. Se l'era sognato?
- Aspettare e non venire è una cosa da morire!
Non se l'era sognato! E domandò subito:
- Chi sei tu?
Non rispondeva nessuno. Ma le parole erano, precise, quelle dell'albero che parlava.
- Chi sei tu?
Non rispondeva nessuno. La mattina, come aggiornò, vide lì vicino un bell'albero coi rami pendenti fino a terra:
- Doveva esser quello.
E per accertarsene, stese la mano e strappò due foglie.
- Ahi! Perché mi strappi?
Il Re, con tutto il suo gran coraggio, rimase atterrito.
- Chi sei tu? Se sei anima battezzata, rispondi, in nome di Dio!
- Son la figliuola del Re di Spagna.
- E in che modo ti trovi lì?
- Vidi una fontana limpida come il cristallo, e pensai di lavarmi. Tocca appena quell'acqua, rimasi incantata.
- Che posso fare per liberarti?
- Bisogna aver la fatatura e giurare di sposarmi.
- Questo lo giuro subito, e la fatatura saprò procurarmela, dovessi andare in capo al mondo. Ma tu, perché non mi rispondevi la notte scorsa?
- C'era la Strega... Sta' zitto, allontanati; sento la Strega che ritorna. Se per disgrazia ti trovasse, incanterebbe anche te.

Il Re corse a nascondersi dietro un muricciolo, e vide arrivar la Strega a cavallo del manico di una granata.
- Con chi hai tu parlato?
- Col vento dell'aria.
- Veggo qui delle pedate.
- Son forse le vostre.
- Ah! Son le mie?

La strega afferrava una mazza di ferro e:
- Di dove vieni? Vengo dal mulino.
- Basta, per carità! Non lo farò più!
- Ah! Son le mie?

E:
- Di dove vieni? Vengo dal mulino.
Il Re, angustiato, si persuase che era inutile il seguitare a star lì; bisognava procurarsi la fatatura. E tornò addietro.
Ma sbagliò strada. Quando s'accorse d'essersi smarrito in un gran bosco e non trovava più la via, pensò di montare in cima a un albero per passarvi la notte; altrimenti, le bestie feroci n'avrebbero fatto un boccone.
Ed ecco, a mezzanotte, un rumore assordante per tutto il bosco. Era un Orco che tornava a casa coi suoi cento mastini, che gli latravano dietro.
- Oh, che buon odore di carne cristiana!
L'Orco si fermò a piè dell'albero, e cominciò ad annusar l'aria:
- Oh, che buon odore!
Il Re aveva i brividi mentre i mastini frugavano latrando, fra le macchie, e raspando il suolo dove fiutavan le pedate. Ma per sua buona sorte era buio fitto; e l'Orco, cercato inutilmente per un po' di tempo, andava via chiamandosi dietro i mastini.
- Té! Té!
Quando fu giorno, il Re, che tremava ancora dalla paura, scese da quell'albero e cominciò ad inoltrarsi cautamente. Incontrò una bella ragazza.
- Bella ragazza, per carità, additatemi la via. Sono un viandante smarrito.
- Ah, povero a te! Dove tu sei capitato! Fra poco ripasserà mio padre e ti mangerà vivo, poverino!

Infatti si sentivano i latrati dei mastini dell'Orco e la voce di lui che se li chiamava dietro:
- Té! Té!
- Questa volta sono morto! - pensò il Re.
- Vien qua, - disse la ragazza - bùttati carponi. Io mi sederò sulla tua schiena, e la mia gonna ti coprirà. Non fiatare!

L'Orco, vista la figliuola, si fermò.
- Che fai lì?
- Mi riposo.
- Oh, che buon odore di carne cristiana!
- Passava un ragazzino, e ne feci un bocconcino.
- Brava! E le ossa?
- Se le rosicchiarono i cani.

L'Orco non cessava d'annusar l'aria.
- Oh, che buon odore!
- Se volete arrivare alla marina, non indugiate per via.

Partito che fu l'Orco, il Re raccontò alla ragazza, per filo e per segno, tutta la sua storia.
Maestà, se volete sposarmi, la fatatura ve la darei io.
La ragazza era una bellezza; il Re l'avrebbe sposata volentieri.
- Ahimè, bella ragazza! Ho impegnato la parola.
- È la mia cattiva sorte! Ma non importa.

Lo condusse a casa, prese un barattolo e gli strofinò il petto con una pomata di suo padre. Il Re fu fatato.
- Ed ora, bella ragazza, dovreste prestarmi una scure.
- Eccola.
- Che cosa è quest'unto?
- È l'olio della cote dove è stata affilata.

Colla fatatura, ci volle un batter d'occhi per tornare al luogo dove trovavasi l'albero che parlava.
La Strega non c'era, e l'albero gli disse:
- Bada! Dentro il tronco c'è nascosto il mio cuore. Quando dovrai abbattermi non dar retta alla Strega. Se ti dirà di dar i colpi in su, e tu dàlli in giù. Se ti dirà di darli in giù, e tu dàlli in su; altrimenti m'ammazzeresti. Alla Stregaccia poi bisognerà spiccarle la testa con un sol colpo, o saresti spacciato; neppure la fatatura ti salverebbe.
Venne la Strega.
- Che cerchi da queste parti?
- Cerco un albero per far del carbone, e stavo osservando questo qui.
- Ti farebbe comodo? Te lo regalo, a patto che per atterrarlo tu dia colpi dove ti dirò io.
- Va bene.

Il Re brandì la scure, che tagliava meglio d'un rasoio e domandò:
- Dove?
- Qui.

E lui, invece, diè lì.
- Ho sbagliato. Da capo. Dove?
- Lì.

E lui, invece, diè qui.
- Ho sbagliato. Da capo.
Intanto non trovava il verso di assestare il colpo alla Strega: essa stava guardinga. Il Re fece:
- Oooh!
- Che vedi?
- Una stella.
- Di giorno? E impossibile.
- Lassù, diritto a quel ramo: guardate!

E mentre la Strega gli voltava le spalle per guardare diritto a quel ramo, lui le menò il colpo e le staccò, di netto, la testa.
Rotta così la malìa, dal tronco dell'albero uscì fuori una donzella, che non poteva esser guardata fissa, tanto era bella!
Il Re, contentissimo, tornò insieme con lei al palazzo reale, e ordinò che si preparassero subito magnifiche feste per gli sponsali.
Arrivato quel giorno, mentre le dame di corte abbigliavano da sposa la Regina, s'accorsero, con gran meraviglia, che avea le carni dure come il legno. Una di esse volò dal Re:
- Maestà, la Regina ha le carni dure come il legno!
- Possibile?

Il Re e i ministri andarono ad osservare. La cosa era sorprendente. Alla vista parevano carni da ingannare chiunque; a toccarle, era legno! Lei intanto parlava e si muoveva. I ministri dissero che il Re non poteva sposare una bambola, quantunque essa parlasse e si muovesse; e contromandaron le feste.
- Qui c'è un altro incanto! - pensò il Re, che si ricordò dell'unto della scure.
Prese un pezzetto di carne e lo tagliuzzò con questa. Aveva indovinato! I pezzettini, alla vista, parevan carne da ingannare chiunque; a toccarli, eran legno. Il tradimento gliel'aveva fatto la figliuola dell'Orco, per gelosia.
Il Re disse ai ministri:
- Vado e torno.
E si trovò nel bosco, dove aveva incontrato quella ragazza.
- Maestà, da queste parti? Che buon vento vi mena?
- Son venuto apposta per te.

La figlia dell'Orco non volea credergli:
- Parola di Re, che siete venuto apposta per me?
- Parola di Re!

Ed era vero; ma lei s'immaginava per le nozze.
Si presero a braccetto ed entrarono in casa.
- Questa è la scure che tu mi prestasti.
Nel porgergliela, il Re fece in maniera di ferirla in una mano.
- Ah, Maestà, che avete fatto! Son diventata di legno!
Il Re si fingeva afflittissimo di quell'accidente:
- E non si può rimediare?
- Aprite quell'armadio, prendete quel barattolo, ungetemi tutta coll'olio che è lì dentro, e sarò subito guarita.

Il Re prese il barattolo:
- Aspetta che io torni!
Lei capì e si messe a urlare:
- Tradimento! Tradimento!
E gli scatenò dietro i cento mastini di suo padre. Ma sì!... il Re era sparito. Con quell'olio le carni della Regina tornarono subito morbide, e si poterono celebrare le nozze.
Furono fatte feste reali per otto giorni, e a noialtri non dettero neppure un corno.





CECINA di Luigi Capuana .. racconto

CECINA

C'era una volta un Re, che amava pazzamente la caccia, e per essere più libero di andarvi tutti i giorni, non aveva voluto prender moglie.
I ministri gli dicevano:
- Maestà, il popolo desidera una Regina.
E lui rispondeva:
- Prenderò moglie l'anno venturo.
Passava l'anno, e i ministri da capo:
- Maestà, il popolo desidera una Regina.
E lui:
- Prenderò moglie l'anno venturo.
Ma quest'anno non arrivava mai.
Ogni mattina, appena albeggiava, indossava la carniera, e col fucile sulla spalla, e coi cani, via pei forteti e pei boschi.
Chi avea da parlare col Re, doveva andare a trovarlo in mezzo ai boschi e ai forteti.
I ministri ripicchiavano:
- Maestà, il popolo desidera una Regina.
Talché finalmente il Re si decise, e mandò a chiedere la figlia del Re di Spagna.
Ma, andato per sposarla, si accorse che era un po' gobbina.
- Sposare una gobbina? No. Mai!
- Ma è bella, è virtuosa! - gli dicevano i ministri.
- È gobbina e basta: no, mai!
E tornò alla caccia, ai boschi e ai forteti.
Quella Reginotta gobbina aveva per comare una Fata.
La Fata, vedendola piangere pel rifiuto del Re, le disse:
- Sta' tranquilla: ti sposerà e dovrà venire a pregarti. Lascia fare a me.
Infatti un giorno il Re, andando a caccia, incontrò una donnicciola magra, allampanata, che un soffio l'avrebbe portata via.
- Maestà, buona caccia!
Il Re, a quel viso di mal augurio, stizzito, fece una mossaccia, e non rispose nulla.
E per quel giorno non ammazzò neppure uno sgricciolo.
Un'altra mattina, ecco di nuovo quella donnicciuola magra, allampanata, che un soffio l'avrebbe portata via:
- Maestà, buona caccia!
- Senti, strega - le disse il Re - se ti trovo un'altra volta per la strada, te la farò vedere io!
E per quel giorno non ammazzò neppure uno sgricciolo.
Ma la mattina dopo, eccoti lì quella del malaugurio:
- Maestà, buona caccia!
- La buona caccia te la darò io!
Il Re avea condotto con sé le sue guardie, e ordinò che quella donna del malaugurio fosse chiusa in una prigione.
Da quel giorno in poi, tutte le volte che il Re andò a caccia, non poté tirare un sol colpo. La selvaggina era sparita, come per incanto, dai forteti e dai boschi. Non si trovava un coniglio o una lepre, neppure a pagarli a peso d'oro.
Gli accadde anche peggio.
Non potendo più fare il solito esercizio della caccia, il Re cominciò a ingrassare, a ingrassare, e in poco tempo diventò così grasso e grosso, da pesare due quintali con quel suo gran pancione che pareva una botte.
Quando avea fatto due passi per le stanze del palazzo reale, era come se avesse fatto cento miglia. Soffiava peggio di un mantice, sudava da allagare il pavimento; e doveva subito subito riposarsi e mangiare anche qualche cosa di sostanza, per rimettersi in forze. Desolato, consultava i migliori dottori:
- Vorrei dimagrare.
I dottori scrivevano ricette sopra ricette. Non passava giorno, che lo speziale non mandasse a palazzo bicchieroni d'intrugli amari come il fiele, che dovevano guarire Sua Maestà.
Ma Sua Maestà, più intrugli prendeva e più grasso diventava.
Nel palazzo reale avevano già allargato tutti gli usci delle stanze, perché il Re potesse passare; e una volta gli architetti dissero che se non si fossero puntellati ben bene i solai, Sua Maestà col gran peso gli avrebbe sfondati.
Il povero Re si disperava:
- O che non c'era rimedio per lui?
E chiamava altri dottori; ma inutilmente. Più intrugli prendeva e più grasso diventava.
Un giorno si presentò una vecchia e disse al Re:
- Maestà, voi avete addosso una brutta malìa. Io potrei romperla; ma voi, in compenso, dovrete sposare la mia figliuola, che si chiama Cecina, perché è piccina come un cece.
- Sposerò la tua Cecina!
Il Re avrebbe anche fatto chi sa che cosa, pur di levarsi di dosso tutto quel grasso e quel pancione.
- Conducila qui.
La vecchia cacciò una mano nella tasca del grembiule, e ne tirò fuori la Cecina, che era alta appena una spanna, ma bellina e ben proporzionata. Come vide quel pancione, la Cecina scoppiò in una risata; e mentre quella la teneva sulla palma della mano per mostrarla al Re, lei spiccò un salto e si mise ad arrampicarsi su pel pancione, correndo di qua e di là, come se il pancione del Re fosse stato per lei una collina.
Il Re, con quei piedini, sentiva farsi il solletico e voleva fermarla; ma quella, salta di qua, salta di là, peggio di una pulce, non si lasciava acchiappare. Pel solletico, il Re rideva, ah! ah! ah!, e il pancione gli faceva certi sbalzi buffi. Ah! ah! ah!
Allora la Cecina:
- Pancione del Re,
Palazzo per me!
Il Re dal gran ridere, teneva aperta la bocca; la Cecina, dentro e giù per la gola:
- Pancione del Re,
Palazzo per me!
Figuriamoci lo spavento di Sua Maestà e di tutta la corte!
Nella confusione, la vecchia era sparita.
E la Cecina, che dal suo palazzo ordinava:
- Datemi da mangiare!
E il Re doveva mangiare anche per lei.
- Datemi da bere!
E il Re doveva bere anche per lei.
- Lasciatemi dormire!
E il Re dovea stare fermo e zitto, perché la Cecina dormisse.
- Maestà, - disse uno dei ministri - che sia una malìa di quella donna magra, allampanata, fatta mettere in prigione? Facciamola condurre qui.
I guardiani aprirono la prigione e la trovarono vuota. Quella donna dovea essere scappata pel buco della serratura!
- Ed ora che fare?
E la Cecina, dal suo palazzo del pancione:
- Datemi da mangiare! Datemi da bere!
Il popolo intanto mormorava per le tasse; giacché per riempire quel pancione del Re, ce ne volea della roba! E bisognava pagare.
Il Re fece un bando:
- Chi gli cavava la Cecina dallo stomaco, diventava principe reale e avrebbe avuto quattrini quanti ne voleva!
Ma i banditori andarono attorno inutilmente. E come la Cecina cresceva, per quanto poco crescesse, il pancione del Re si gonfiava e pareva dovesse scoppiare da un momento all'altro.
Il Re la pregava:
- Cecina bella, vieni fuori, ti faccio Regina!
- Maestà, sto bene qui dentro. Datemi da mangiare.
- Cecina bella, vieni fuori, ti faccio Regina!
- Maestà, sto bene qui dentro. Datemi da bere.
Se non fosse stato il timore della morte, il Re si sarebbe spaccato il pancione colle proprie mani.
E il popolo che brontolava:
- Re pancione ingoiava tutto! Lavoravano per Re pancione!
Come se Re pancione ci avesse avuto il suo piacere! Lo sapeva soltanto lui, quello che pativa, con la Cecina dentro che comandava a bacchetta e voleva essere ubbidita!
Finalmente un giorno ricomparve la vecchia:
- Ah, vecchia scellerata! Cavami fuori la tua Cecina, o guai a te!
- Maestà, son venuta a posta coi miei dottori.
E i suoi dottori erano due uccellacci più grossi di un tacchino, con un becco lungo un braccio e forte come l'acciaio.
- Maestà, - disse la vecchia - dovete stendervi a pancia all'aria in mezzo a una pianura.
Il Re, che era ingrassato da non poter più fare neppure un passo, comandò:
- Ruzzolatemi.
E il popolo cominciò a ruzzolarlo come una botte, per le scale e per le vie; e, dalla fatica, sudavano.
Arrivati nella pianura, e messo il Re a pancia all'aria, uno degli uccellacci gli diè una beccata sul pancione e, che ne schizzò fuori? Uno zampillo di vino schietto, tutto il vino che Sua Maestà aveva bevuto in tanti anni.
La gente riempiva botti, botticini, caratelli, tini, barili, fiaschi, boccali; non c'erano vasi che bastassero. Pareva di essere alla vendemmia. Tutti cioncavano e si ubriacavano.
E il pancione del Re si sgonfiò un poco.
Allora l'altro uccellaccio gli diè la sua beccata, ed ecco rigurgitar fuori tutto il ben di Dio mangiato dal Re in tanti anni; maccheroni, salsicciotti, polli arrosto, bistecche, pasticcini, frutta, insomma ogni cosa. La gente non sapeva più dove riporli. Tutti mangiarono a crepapancia, come fosse di carnovale.
E il pancione del Re sgonfiò un altro poco.
Allora il Re disse:
- Cecina bella, vien fuori; ti faccio Regina!
La Cecina affacciò la testa da uno dei buchi, e ridendo rispose:
- Eccomi qua.
E il Re tornò com'era prima.
Si sposarono; ma il Re, con quella cosina alta una spanna, che era una moglie per chiasso, si credette libero di tornare a divertirsi colla caccia, e stava fuori intere settimane.
La Cecina piangeva:
- Ah, poverina me!
Son Regina senza Re!
Il Re per questo lamentìo, non la poteva soffrire.
Andò da una Strega e le disse:
- Che cosa debbo fare per levarmi di torno la Cecina?
- Maestà,
Spellarla, lessarla,
O arrosto mangiarla.
Mangiarla gli repugnava; pure, tornato a casa disse alla Cecina:
- Domani ti condurrò a caccia, e ti divertirai.
Voleva condurla in mezzo ai boschi, dove non potesse vederlo nessuno. Ma la Cecina rispose:
- Spellarla, lessarla,
O arrosto mangiarla.
Grazie, Maestà!
Ah, poverina me!
Son Regina senza Re!
Il Re rimase stupito:
- Come lo sapeva?
Tornò dalla Strega e le raccontò la cosa.
- Maestà, quando la Cecina sarà addormentata, tagliatele una ciocca di capelli e portatemela qui.
Però, quella sera, la Cecina non avea voglia di andare a letto.
- Cecina, vieni a dormire.
- Più tardi, Maestà; per ora non ho sonno.
Il Re aspettò, aspettò, e si addormentò lui per il primo. La mattina, svegliatosi, vide che la Cecina era già levata.
- Cecina, non hai dormito?
- Chi si guarda si salva. Grazie, Maestà.
- Ah, poverina me!
Son Regina senza Re!
Il Re rimase stupito:
- Come lo sapeva?
Tornò dalla Strega e le raccontò la cosa.
- Maestà, invitate re Corvo; appena la vedrà, ne farà un sol boccone.
Venne re Corvo:
- Cra! Cra! Cra! Cra!
E come vide la Cecina, alta una spanna, cra! cra! ne fece un boccone.
- Mille grazie, re Corvo. Ora potete andar via.
- Cra! Cra! Cra! Ma prima di andar via, debbo mangiarti gli occhi.
E con due beccate gli cavò gli occhi.
Il povero Re piangeva sangue:
- La Cecina morta, e lui senz'occhi! Ah, Cecina mia!
Passato un po' di tempo, ricomparve la solita vecchia. Era la Fata comare della Reginotta di Spagna.
- Maestà, non vi affliggete. La Cecina è viva, e i vostri occhi son riposti in buon luogo; son nella gobba della Reginotta di Spagna.
Il Re si trascinò fino al palazzo reale, dove questa abitava, e cominciò a gridare pietosamente, dietro al portone:
- Ah, Reginotta! Rendetemi gli occhi.
La Reginotta, dalla finestra, rispondeva:
- Sposare una gobbina! No, mai!
- Perdonatemi, Reginotta; e rendetemi gli occhi!
La Reginotta dalla finestra rispondeva:
- Spellarla, lessarla,
O arrosto mangiarla.
Allora il Re capì che la Reginotta di Spagna e la Cecina erano una sola persona; e si mise a gridare più forte:
- Ah, Reginotta! Ah, Cecina mia! Rendetemi gli occhi.
La Reginotta scese giù e gli disse:
- Ecco gli occhi.
Il Re la guardò sbalordito. La Reginotta non era più gobba e somigliava precisamente alla Cecina, benché fosse di giusta statura.
Così fu perdonato, e da lì a poco la sposò.
Lei, per ricordo, volle sempre essere chiamata Cecina.
Vissero lieti e contenti
E a noi si allegano i denti.

IL LUPO MANNARO di Luigi Capuana ... Racconto

IL LUPO MANNARO

C'era una volta un Re e una Regina che non avevan figliuoli e pregavano i santi, giorno e notte, per ottenerne almeno uno. Intanto consultavano anche i dottori di Corte.
- Maestà, fate questo.
- Maestà, fate quello.

E pillole di qua, e beveroni di là; ma il sospirato figliuolo non arrivava a spuntare.
Una bella giornata ch'era freddino, la Regina s'era messa davanti il palazzo reale per riscaldarsi al sole. Passa una vecchiarella:
- Fate la carità!
Quella per la noia di cavar le mani di tasca rispose:
- Non ho nulla.
La vecchiarella andò via brontolando.
- Che cosa ha brontolato? - domandò la Regina.
- Maestà, ha detto che un giorno avrete bisogno di lei.

La Regina le fece correre una persona dietro, per richiamarla; ma la vecchiarella aveva svoltato cantonata ed era sparita.
Otto giorni dopo, si presentava un forestiero, chiedeva di parlare in segreto col Re:
- Maestà, ho il rimedio per guarir la Regina. Ma prima facciamo i patti.
- Oh, bravo! Facciamo i patti.
- Se nascerà un maschio, lo terrete per voi.
- E se una femmina?
- Se una femmina quando avrà compiti i sette anni, dovrete condurla in cima a quella montagna e abbandonarla lassù: non ne saprete più nuova.
- Consulterò la Regina.
- Vuol dire che non ne farete nulla.

Stretto fra l'uscio e il muro, il Re accettò. Il forestiero cavò di tasca una boccettina, che gli spariva fra le dita e disse:
- Ecco il rimedio. Questa notte, appena la Regina sarà addormentata, Vostra Maestà glielo versi tutto intero in un orecchio. Basterà.
Infatti, dopo nove mesi, la Regina partorì e fece una bella bambina. A questa notizia il Re diede in uno scoppio di pianto:
- Povera figliolina, che mala sorte! Che mala sorte!
La Regina lo seppe:
- Maestà, perché avete pianto: Povera figliolina, che mala sorte?
- Non ne fate caso.

La Reginotta cresceva più bella del sole: il Re e la Regina n'erano matti. Quando entrò nei sette anni, il povero padre non sapeva darsi pace, pensando che presto doveva condurla in cima a quella montagna, abbandonarla lassù e non averne più nuove! Ma il patto era questo: bisognava osservarlo.
Il giorno che la Reginotta compì i sette anni, il Re disse alla Regina:
- Vo in campagna colla bimba; torneremo verso sera.
Cammina, cammina, giunsero a piè della montagna e cominciarono a salire. La Reginotta non potea arrampicarsi, e il Re se la tolse in collo.
- Babbo, che andiamo a fare lassù? Torniamo indietro.
Il Re non rispondeva, e si bevea le lagrime che gli rigavano la faccia.
- Babbo, che andiamo a fare lassù? Torniamo indietro.
Il Re non rispondeva, e si bevea le lagrime che gli rigavano la faccia.
- Babbo, che siam venuti a fare quassù? Torniamo indietro.
- Siediti qui; aspetta un momento.

E l'abbandonò alla sua sorte.
Vedendolo tornar solo, la Regina cominciò a urlare:
- E la figliuola? E la figliuola?
- Calò giù un'aquila, l'afferrò cogli artigli e la portò via.
- Ah, figliuola mia! Non è vero!
- Le sbucò addosso un animale feroce e andò a divorarsela nel bosco.
- Ah, figliolina mia! Non è vero!
- Faceva chiasso in riva al fiume e la corrente la travolse.
- Non è vero! Non è vero!

Allora il Re le raccontò per filo e per segno ogni cosa.
E la Regina partì, come una pazza, per ritrovar la figliuola.
Salita in cima alla montagna, cercò, chiamò tre giorni e tre notti, ma non scoperse neppure un segnale; e tornò, desolata, al palazzo.
Eran passati sette anni. Della bimba non s'era più saputo nuova. Un giorno la Regina si affaccia al terrazzino e vede giù nella via quella vecchiarella tanto ricercata:
- Buona donna, buona donna, montate su.
- Maestà, oggi ho fretta; verrò domani.

La Regina rimase male. E il giorno dopo stette tutta la mattinata ad aspettarla al terrazzino. Come la vide passare:
- Buona donna, buona donna, montate su.
- Maestà, oggi ho fretta; verrò domani.

Il giorno dopo, la Regina, per far meglio, andò ad aspettarla innanzi il portone.
- Maestà, oggi ho fretta; verrò domani.
Ma la Regina la prese per una mano e non la lasciò andar via; e per le scale le domandò perdono di quella volta che non le aveva fatto l'elemosina.
- Buona donna, buona donna, fatemi ritrovar la mia figliuola!
- Maestà, che ne so io? Sono una povera femminuccia.
- Buona donna, buona donna, fatemi ritrovar la mia figliuola!
- Maestà, male nuove. La Reginotta è alle mani d'un Lupo Mannaro, quello stesso che diè il rimedio e fece il patto col Re. Fra un mese le domanderà: mi vuoi per marito? Se lei risponde di no, quello ne farà due bocconi. Bisogna avvertirla.
- E il Lupo Mannaro dov'abita?
- Maestà, sotto terra. Si scende tre giorni e tre notti, senza mangiare, né bere, né riposare, e al terzo giorno s'arriva. Prendete un coltellino, un gomitolo di refe e un pugno di grano, e venite con me. La Regina prese tutto quello che la vecchiarella avea ordinato, e partì insieme con lei.

Giunsero ad una buca, che ci si passava appena. La vecchiarella attaccò un capo del refe a una piantina e disse:
- Chi semina raccolga,
Chi ti attacca, quei ti sciolga.
Ed entrarono. Scendi, scendi, scendi, la Regina già si sentiva le ginocchia tutte rotte.
- Vecchiarella, riposiamo un tantino!
- Maestà, è impossibile.

Scendi, scendi, scendi, la Regina non si reggeva più dalla fame.
- Vecchiarella, prendiamo un boccone, mi sento svenire!
- Maestà, non è possibile.

Scendi, scendi, scendi, la Regina affogava di sete.
- Vecchiarella, per carità, un gocciolo di acqua!
- Maestà, non è possibile.

E sbucarono in una pianura. Il gomitolo del refe terminò. La vecchiarella attaccò quell'altro capo ad una pianticina, e disse:
- Chi semina raccolga,
Chi ti attacca, quei ti sciolga.
Cominciarono ad inoltrarsi. Ad ogni passo la Regina dovea lasciar cadere in terra un chicco di grano e la vecchiarella diceva:
- Grano, grano di Dio,
Com'io ti semino, vo' mieterti io.
Il grano nasceva e cresceva subito, colle spighe mature che penzolavano.
- Maestà, ora piantate in terra il coltellino e sputate tre volte; siamo arrivati.
La Regina piantò il coltellino e sputò tre volte; e la vecchiarella disse:
- Coltellino, coltellino di Dio,
Com'io ti pianto, vo' strapparti io.
Lasciamo costoro e torniamo alla Reginotta.
Vistasi sola sola in cima alla montagna, s'era messa a piangere e a strillare; poi, povera bimba, s'era addormentata. Si svegliò in un gran palazzo; ma per quelle stanze e quei stanzoni non vedeva anima viva. Gira, rigira, era già stanca.
- Reginotta, sedete, sedete!
Le sedie parlavano.
Si sedette, e dopo un pezzettino, cominciò a sentirsi appetito. Comparve una tavola apparecchiata, colle pietanze fumanti.
- Reginotta, mangiate, mangiate!
La tavola parlava.
Mangiò, bevve, e poco dopo le vennero le cascaggini.
- Reginotta, dormite, dormite!
Il letto parlava. Era uno stupore. Così tutti i giorni. Non le mancava nulla, ma s'annoiava a star lì senza vedere un viso di cristiano. Spesso piangeva, pensando al babbo e alla mamma; ed una volta si mise a chiamarli ad alta voce, tra i singhiozzi:
- Babbo mio! Mamma mia! Con che cuore mi lasciate qui, mammina mia!
Ma una vociona le gridò:
- Sta' zitta! Sta' zitta!
Ranicchiossi in un canto, e non ebbe animo di più fiatare.
Passato un anno, un bel giorno si sentì domandare:
- Vuoi vedermi?
E non era quella vociona. Rispose:
- Volentieri.
Ed ecco gli usci si spalancano da loro stessi, e di fondo alla fila delle stanze viene avanti un cosino alto un cubito, vestito d'una stoffa a trama d'oro, con un berrettino rosso e una bella piuma più alta di lui.
- Buon giorno.
- Buon giorno. Oh, bimbo mio, come sei bello!

E lo prese in braccio e cominciò a baciarlo, a carezzarlo, a farlo saltare in aria come una bambola.
- Mi vuoi per marito? Mi vuoi?
La Reginotta rideva:
- Ti voglio, ti voglio.
E un altro salto per aria, prendendolo fra le mani.
- Come ti chiami?
- Gomitetto.
- Che fai qui?
- Sono il padrone.
- Allora lasciami andare! Lasciami tornare a casa mia!
- No, no! Dobbiamo sposarci.
- Per ora bada a crescere!

Gomitetto se l'ebbe a male ed andò via. E per un anno non si fece vivo. La Reginotta s'annoiava a star lì senza vedere un viso cristiano. Ogni giorno chiamava:
- Gomitetto! Gomitetto!
Ma Gomitetto non rispondeva. Un bel giorno le domandò di nuovo:
- Vuoi vedermi?
- Volentieri.

In un anno dovea esser cresciuto un pochino: ma gli usci si spalancarono, e le venne innanzi sempre lo stesso cosino alto un gomito, vestito di stoffa a trama d'oro, col berrettino rosso sormontato da quella bella piuma più alta di lui.
- Buon giorno.
- Buon giorno.

La Reginotta, nel vederlo lo stesso, rimase sorpresa. Lo prese in collo e cominciò a baciarlo, a carezzarlo, a farlo saltare in aria come una bambola.
- Mi vuoi per marito? Mi vuoi?
La Reginotta rideva:
- Ti voglio! Ti voglio! Ma per ora bada a crescere.
E qui un capitombolo per aria, prendendolo fra le mani. Gomitetto se l'ebbe a male e andò via.
Ogni anno così; ed eran passati sette anni. Intanto la Reginotta s'era fatta una ragazza, che ci volevan quattro paia d'occhi per guardarla. Una notte non potendo prender sonno, pensava al babbo e alla mamma:
- Chi sa se più si ricordano di me? Forse mi credono morta!
E piangeva sui guanciali; quand'ecco sente buttar dei sassolini all'imposta della finestra.
Chi poteva essere, a quell'ora?
Si fece coraggio, saltò giù dal letto, aperse adagino adagino l'impòsta, e domandò:
- Chi siete? Che cosa volete?
- Son io, figliuola mia; siam venute per te!

Dall'allegrezza stava per saltar dalla finestra.
- Ascolta, figliuola - disse la Regina sotto voce. - Quel Gomitetto è il Lupo Mannaro. Ti s'è mostrato a quel modo per non farti paura. Ma ora che sei grande, fra qualche giorno t'apparirà col suo vero aspetto. Figliuola mia, non atterrirti. E se ti domanda: Mi vuoi per marito? rispondi di sì; altrimenti sarai morta; ne farà due bocconi. La prossima notte a quest'ora ci rivedremo.
La mattina, la Reginotta udì la solita voce:
- Vuoi vedermi?
- Volentieri.

Si spalancarono gli usci, ma, invece di Gomitetto, venne avanti il Lupo Mannaro alto, grosso, peloso, con certi occhiacci e certe zanne, che Dio ne scampi ogni creatura! La Reginotta si sentì mancare.
- Mi vuoi per marito? Ti feci fare apposta per me.
Lei tremava come una foglia.
- Mi vuoi per marito?
Più la Reginotta sentiva quella vociaccia, e più tremava e si smarriva.
- Mi vuoi per marito?
Voleva rispondergli: sì! Ma le scappò detto:
- Oh, no! no!
- Allora vien qui!

E l'afferrò colle granfie per ingoiarsela.
- Mangiami almeno domani! Te lo chieggo per grazia!
Il Lupo Mannaro stette un momentino incerto, e poi rispose:
- Ti sia concesso! Sarai mangiata domani.
La notte, all'ora fissata, lei s'affacciò alla finestra:
- Ah, mammina mia! Mi scappò detto di no; sarò mangiata domani.
- Fatevi coraggio! - disse la vecchiarella.

E picchiò forte al portone.
- Chi è? Chi cercate?
All'urlo del Lupo Mannaro tutto il palazzo tremava.
Son coltellino,
Son piantato nella terra dura,
Per difender la creatura.
Contro questa malìa, il Lupo Mannaro non poteva nulla. E la mattina, all'alba, venne fuori; e come vide il coltellino, si mordeva le mani:
- Se trovo chi l'ha piantato, ne faccio un boccone!
Cercò, frugò attorno, ma non trovò nessuno. All'ultimo chiamò la Reginotta:
- Vien qua, strappami di terra questo coltellino: non ti mangerò più.
La Reginotta gli credette, e strappò il coltellino.
- Ed ora vien qui!
E l'afferrò colle granfie per ingoiarsela.
- Mangiami almeno domani! Te lo chieggo per grazia.
Il Lupo Mannaro stette un momentino incerto, e poi rispose:
- Ti sia concesso.
La notte, la Reginotta s'affacciò alla finestra:
- Ah, mammina mia! Mi disse: strappa di terra questo coltellino, ed io glielo strappai. Domani sarò mangiata!
- Fatevi coraggio!

E la vecchiarella picchiò forte al portone.
- Chi è? Chi cercate?
All'urlo del Lupo Mannaro, tutto il palazzo tremava.
Son frumentino,
Son seminato nella terra scura,
Per difender la creatura.
Contro questa malìa, il Lupo Mannaro non poteva nulla. E la mattina all'alba, venne fuori; e come vide il seminato colle spighe penzoloni, si mordeva le mani:
- Se trovo chi lo seminò, ne faccio un boccone.
Cercò, frugò intorno, ma non trovò nessuno. E la mattina dopo disse alla Reginotta:
- Vieni qua: mietimi questo frumento; non ti mangerò più.
La Reginotta gli credette, e si mise all'opera. Per lei non c'era malìa, e in una giornata poté facilmente terminare di mieterlo.
- Ed ora vien qui!
- Mangiami almeno domani! Te lo chieggo per grazia.

Quegli stette un momentino incerto, e poi rispose:
- Ti sia concesso, per l'ultima volta.
La notte, la Reginotta s'affacciò alla finestra:
- Ah, mammina mia! Mi disse: mieti questo frumento ed io glielo mietei. Domani sarò mangiata.
- Fatevi coraggio!

E la vecchiarella picchiò forte al portone.
- Chi è? - urlò il Lupo Mannaro.
Son refe fino
Son attaccato alla pianta matura,
Per difender la creatura.
Contro questa malìa, il Lupo Mannaro non poteva nulla. E la mattina all'alba venne fuori, e come vide il capo del refe legato alla pianticina, si mordeva le mani:
- Vien qua; scioglimi questo refe dai due capi: non ti mangerò più.
La Reginotta era stata indettata dalla vecchiarella.
Non doveva fermarsi un passo, né mangiare, né bere, ma aggomitolare, aggomitolare e andare avanti. Sciolse quel capo, e lei avanti, aggomitolando, il Lupo Mannaro dietro.
- Ripòsati, ripòsati!
- Quando sarò stanca, mi riposerò.

Lei avanti aggomitolando, e il Lupo Mannaro dietro.
- Prendi un boccone, prendi un boccone!
- Quando avrò fame mangerò.

Lei avanti aggomitolando, e il Lupo Mannaro dietro.
- Bevi un gocciolino d'acqua, un gocciolino!
- Quando avrò sete, berrò.

Eran già arrivati alla buca d'uscita. Come il Lupo Mannaro s'accorse che l'altro capo del refe era attaccato alla pianticina di fuori, cominciò a mordersi rabbiosamente le mani. E vista la vecchiarella, diventò bianco come un panno lavato.
- Ah! La nemica mia! Son morto! Son morto!
La Regina e la Reginotta si voltarono e, invece della vecchiarella, videro una bellissima signora, che pareva la stella del mattino. Era la Regina delle Fate. Figuriamoci che allegrezza!
La Regina delle Fate prendeva intanto dei sassi, e li metteva l'uno sull'altro davanti la buca.
- Sassi, sassi di Dio,
Io vi muro e vo' smurarvi io!
Murata la buca, la Regina delle Fate sparì.
E quella brutta bestiaccia crepò di fame lì dentro.
La Regina e la Reginotta tornarono sane e salve al palazzo; e un anno dopo la Reginotta sposò il Re di Portogallo.




SENZA-ORECCHIE di Luigi Capuana . Racconto


SENZA-ORECCHIE

C'era una volta un Re che avea una bimba.
La Regina era morta di parto, e il Re avea preso una balia che gli allattasse la piccina.
Un giorno la balia scese, insieme colla bimba, nel giardino reale. La bimba avea tre anni, e si divertiva a fare chiasso sull'erba, all'ombra dei grandi alberi. Sull'ora di mezzogiorno la balia s'addormentava; ma quando si svegliò, non trovò più la Reginotta. Cerca, chiama per tutto il giardino; nulla! La bimba era scomparsa.
Come presentarsi al Re, che andava matto per quella figliuola?
La povera balia si picchiava il petto, si strappava i capelli:
- Dio! Dio! Sua Maestà l'avrebbe fatta impiccare!
Agli urli della balia erano accorse le guardie.
Fruga e rifruga, tutto fu inutile.
Venne l'ora del pranzo.
- E la Reginotta? - domandò il Re.
I ministri si guardarono in faccia, più bianchi di un panno lavato.
- La Reginotta dov'è?
- Maestà, - disse un ministro - è accaduta una disgrazia!
Il Re pareva fuori di sé dal gran dolore. Fece subito un bando:
- Chi riporta la Reginotta, gli si concede qualunque grazia.
Ma eran già passati sei mesi, e al palazzo reale non s'era visto nessuno.
I banditori andavano di regno in regno:
- Sia cristiano, sia infedele, chi riporta la Reginotta, gli vien concessa qualunque grazia.
Ma passò un anno, e al palazzo reale non si presentò nessuno.
Il Re era inconsolabile: piangeva giorno e notte.
Nel giardino reale c'era un pozzo. La Reginotta, mentre la balia dormiva, s'era accostata all'orlo e vi si era affacciata.
Vedendo, laggiù, nello specchio dell'acqua, un'altra bimba sua pari, l'avea chiamata: - Ehi! Ehi! -, accennando colle manine. Allora era sorto dal fondo del pozzo un braccio lungo lungo, peloso peloso, che l'afferrò e la tirò giù. E così, da parecchi anni, lei viveva in fondo a quel pozzo, col Lupo Mannaro che l'aveva tirata giù.
In fondo al pozzo c'era una grotta grande dieci volte più del palazzo reale. Stanze tutte oro e diamanti, una più bella e più ricca dell'altra. È vero che non ci penetrava mai sole, ma ci si vedeva lo stesso. La bimba veniva servita da quella Reginotta che era. Una cameriera per spogliarla, una per vestirla, una per lavarla, una per pettinarla, una per recarle la colazione, una per servirla a pranzo, una per metterla a letto. S'era già abituata e non ci viveva di cattivo umore.
Il Lupo Mannaro russava tutto il santo giorno e la notte andava via. Siccome la bimba, quando lo vedeva, strillava dalla paura, si facea veder di rado: non volea spaventarla.
Intanto la Reginotta s'era fatta una bella ragazza.
Una sera, entrata in letto, non poteva dormire. Sentito che il Lupo Mannaro si preparava ad andar via, tese meglio l'orecchio. Il Lupo Mannaro con quella sua vociaccia ròca, urlava:
- Chiamatemi il cuoco.
Il cuoco venne.
- Credo che siamo in punto, - gli disse - mi pare una quaglia.
- Bisogna vedere - rispose il cuoco.
La Reginotta sentì che giravano adagino il pomo della serratura:
- Ahimè! Dunque si trattava di lei? Il Lupo Mannaro voleva mangiarsela.
Le si accapponò la pelle, sfido io! Si fece piccina piccina, e finse di dormire. Il Lupo Mannaro s'accostava al letto, svoltava le coperte con cautela, e il cuoco cominciava a tastarla tutta, come gallina da tirargli il collo.
- Ancora una settimana, - disse il cuoco - e sarà un boccone reale.
Come intese queste parole, la Reginotta si senti rinascere:
- Otto giorni! Oh, quella quaglia il Lupo Mannaro non l'avrebbe mangiata; no, no!
Pensa e ripensa, le venne un'idea. La mattina, saltata giù dal letto, appostossi alla bocca della grotta, dentro il collo del pozzo, ed aspettò che venisse gente ad attinger acqua. La carrucola stride, la secchia fa un tonfo, ed ecco la Reginotta che s'afferra alla corda, puntando i piedini sull'orlo della secchia. La tiravano su lentamente; era un po' pesa. A un tratto la corda si rompe, e secchia e Reginotta, patatunfete, giù!
Accorsero le cameriere e la ritirarono dall'acqua.
- Ebbi un capogiro e cascai. Non ne fate motto, per carità; il Lupo Mannaro mi picchierebbe.
E passò un giorno.
Il secondo giorno, aspetta aspetta, la secchia non venne giù. Bisognava trovare un altro mezzo: ma non era come dirlo. Quale? La grotta non aveva che quell'unica uscita.
E passò un altro giorno.
La Reginotta non si perdette d'animo. Appena aggiornava, era al suo posto; ma la secchia non calava.
E passarono altri due giorni.
Una mattina, mentre lei piangeva dirottamente, guardando fisso nell'acqua vide lì un pesciolino rosso, che parea d'oro, colla coda bianca come l'argento, e con tre macchie nere sulla schiena.
- Ah! Pesciolino, tu sei felice! Tu sei libero in mezzo all'acqua, ed io qui sola, senza parenti né amici!
Il pesciolino montava a fior d'acqua, dimenando la coda, aprendo e chiudendo la bocca; pareva l'avesse sentita:
- Ah! Pesciolino, tu sei felice! Tu sei libero in mezzo all'acqua, ed io qui sola, senza parenti né amici. Fra quattro giorni sarò mangiata!
Il pesciolino rosso, dalla coda bianca e dalle tre macchie nere sulla schiena, s'era accostato alla sponda:
- Se tu fossi di sangue reale e volessi sposarmi, saremmo liberi tutti e due. Per vincere il mio incanto non ci vuol altro.
- Son sangue reale, pesciolino d'oro, e son tua sposa fino da questo momento.
- Cavalcami sulla schiena e tienti forte.
La Reginotta si mise a cavalcioni del pesciolino e gli si afferrò alle branchie; e il pesciolino, nuota, nuota, la portò in fondo al pozzo. Di lì passava un fiume, sotto terra. Il pesciolino infilò diritto la corrente e la Reginotta gli si tenne sempre ben afferrata alle branchie.
Ma ecco, in un punto, un pesce grossissimo, con tanto di bocca spalancata, che voleva ingoiarli:
- Pagate il pedaggio, o di qui non si passa.
La Reginotta si strappò un'orecchia e gliela buttò. Nuota, nuota, ecco un altro pesce più grosso del primo, con tanto di bocca spalancata e una foresta di denti:
Pagate il pedaggio, o di qui non si passa.
La Reginotta si strappava l'altra orecchia e gliela buttava.
Quando la corrente sboccò all'aria aperta, il pesciolino depose la Reginotta sulla sponda e diè un salto fuor dell'acqua. Era diventato un bel giovane, con tre piccoli nèi sulla faccia. Lei disse:
- Andiamo a presentarci al Re mio padre. Son tredici anni che non mi vede.
Al portone del palazzo reale non volevano lasciarla passare.
- Sono la Reginotta! Son la figliuola del Re!
Non ci credeva nessuno, nemmeno il Re. Pure ordinò di fargliela venire dinanzi:
- Chi sa? Poteva anche darsi!
Il Re la guardò da capo a piedi: gli pareva e non gli pareva. Lei gli raccontò la sua storia; ma non disse nulla delle orecchie, per vergogna. Infatti nascondeva il suo difetto, tenendo basse le trecce.
Ma un ministro se n'accorse:
- E le orecchie, figliuola mia? Dove le perdeste le orecchie?
Il Re, indignato, la condannava a rigovernare i piatti e le stoviglie della cucina reale. Il principe Pesciolino (lo chiamarono subito così) fu dannato a spazzar le stalle:
- Imparassero in tal modo a farsi beffa del Re!
Un giorno Sua Maestà volea mangiare del pesce. Ma in tutto il mercato c'era due pesci soltanto, e nessuno sapeva che razza di pesci si fossero, neppure i pesciaioli. Ed erano lì dal giorno avanti, e cominciavano a passare. Ma il Re volea del pesce ad ogni costo, e il cuoco li comprò:
- Maestà, non c'è che questi; nessuno sa che pesci siano, neppure i pesciaioli. Trovansi in mercato da due giorni e cominciano a passare.
- Sta bene, - disse il Re - portali in cucina.
In cucina il cuoco fa per sventrarli, e che gli trova nelle budella? Due orecchie di creatura umana, ancor stillanti sangue!
Chiamarono subito Senza-orecchie, come le aven messo il nomignolo:
- Senza-orecchie, Senza-orecchie, ecco roba per te!
La Reginotta accorse: eran davvero le sue orecchie. Tremante dalla contentezza se le adattò al capo e le si appiccicarono; il sangue avea servito da colla.
Colle orecchie, il Re suo padre raffigurolla ad un tratto:
- È lei! È la mia figliuola!
E bandì feste reali per otto giorni. Poi, siccome era vecchio, volle lasciare il regno. E il re Pesciolino e la regina Senza-orecchie regnarono a lungo dopo di lui.
Stretta la foglia, e larga la via,
Dite la vostra, ché ho detto la mia.