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L’unità d’Italia ha 150 anni e la rabbia dei partiti ora cade contro la Lega Lombarda, che rappresenta il popolo del Nord, quello deluso dal potere centrale.
Le contraddizioni della Lega sono evidenti e il gioco di mettersi in bella vista contro una Roma capitale d’Italia e nello stesso tempo restare dentro il sistema, al governo, non pare un gioco chiaro, ma certamente è tutta pubblicità gratuita che cade sulla Lega, forza di Governo che raccoglie il malcontento delle periferie del Paese.
Ora l’attacco dei partiti, oggi tutti patriottici e felici di cantare l’inno nazionale, nasconde un passato ambiguo, in particolare di parte delle sinistre divise: l’amore di Patria è stato un sentimento contrastato, deriso, criticato per anni, contrario all’internazionalismo proletario, ai valori di unità tra le genti.
Un tempo si diceva che i proletari non avevano Patria o l’aveva nell’Unione Sovietica, o i confini sarebbero stati tutti aboliti e i popoli si sarebbero liberamente fusi tra loro, in pace, senza più guerre capitalistiche, imperialistiche, nazionalistiche.
Sono ormai ricordi lontani e chi lo diceva oggi pare che se lo sia scordato: ora siamo tutti orgogliosi di essere italiani, italiani veri e fieri, riprendendo pure quella retorica storica e patriottica che stordì intere generazioni e degenerò nel ventennio fascista.
Chiaramente è meglio essere uniti che divisi, è verissimo che l’Italia è nata prima come cultura italiana, come lingua italiana e poi come nazione unita, come Stato unitario, ma è pure vero che questa cultura era diffusa tra una minoranza di italiani colti, che conoscevano e leggevano l’italiano di Dante, Petrarca e Boccaccio, ma pure di Manzoni.
La scuola poi tentò l’unità linguistica, ma creando tanto mostri culturali tra la gente umile, strani orrori gergali, mezzi dialettali e mezzi italiani.
Infine giunse prima la radio e poi la televisione, l’unità si concluse, almeno dal punto di vista linguistico: il carosello fece miracoli e tutti imparammo un italiano svilito, povero di termini, che spazzò via i 100 e più dialetti popolari, che avevano le radici dentro il Paese reale, contadino, analfabeta, ma non incolto.
Sparì così una civiltà antica 3mila anni, quella contadina, sostituita dalla futilità insulsa di troppe mezze culture e aborti culturali: i giovani non si esprimono più in dialetto, ma spesso, escludendo qualche caso, in un italiano stentato, che dimostra tutta la debolezza di questo linguaggio quando poi passa al testo scritto, tradendo un pensiero debole, non incisivo.