Ettore Gotti Tedeschi
Rino Cammilleri
Volume edito da Lindau di 155 pag.
Nuova edizione ampliata con un commento all'enciclica "Caritas in veritate"
01 Settembre 2010
Fonte come da titolazione, rilevato da Ciani Vittorio x l'Ufficio Documentazione Diocesi Piacenza-Bobbio.
Indice
Pag. 9. Prefazione, card. Tarcisio Bertone
Pag. 15. Premessa
Pag. 17. Introduzione
DENARO E PARADISO
Pag. 23 1. L'economia
Pag. 49 2. Il capitalismo
Pag. 79 3. La globalizzazione
Pag. 105 4. Economia ed etica
Pag. 125 5. Conclusione
Pag. 139 6. La crisi dell'uomo, la crisi economica e l'Enciclica «Caritas in Veritate»
Premessa
Poiché il capitalismo ha origini cristiane e su queste si fonda ancora oggi nonostante le eresie che l'hanno deformato, l'economia di mercato e la globalizzazione che stiamo vivendo sono ancora il sistema che meglio permette all'uomo di valorizzarsi, meglio di altri e nonostante tutto. Dal momento che non esiste un'«economia cattolica» (esistono semmai i cattolici che possono gestirla), è opportuno superare molti luoghi comuni e chiarire tanti pregiudizi. Questo libro propone una serie di riflessioni su vari argomenti: sull'economia di mercato, sul capitalismo, sulla globalizzazione, sulla morale in economia. Proprio per rivedere tanti pregiudizi.
È stato scritto per far capire che l'economia, il mercato, il capitalismo e la globalizzazione non sono di per sé un male e non sono pericolosi: essi sono strumenti neutri nelle mani dell'uomo. È stato scritto anche per spiegare ai non cattolici, nonché ai cattolici meno convinti, che la morale cattolica in economia rappresenta un potenziale vantaggio competitivo da esaltare piuttosto che reprimere. La morale cattolica non è mai stata contro il capitalismo o le leggi del mercato né un ostacolo allo sviluppo, anzi. E questo libro vorrebbe tentare di riconciliare, in piena globalizzazione e crisi economica mondiale, morale e mercato, mostrando i reciproci benefici che l'una può portare all'altro: la morale può rendere più efficace il mercato, l'economia e la ricchezza non impediscono una vita pienamente cristiana.
Chi domanda è l'intellettuale polemico e curioso, chi risponde è l'economista pratico e non accademico. Entrambi sono sensibili al problema dell'uomo, preoccupati di orientare gli sforzi dell'economia verso il di lui bene.
(…) (…)
Capitolo 6 (pagg. 139-154)
La crisi dell'uomo, la crisi economica e l'Enciclica «Caritas in Veritate»
Tra la prima edizione e questa nuova del 2010 molte cose sono accadute. Soprattutto, ai fini del nostro discorso, è intervenuta l'enciclica Caritas in veritate (29 giugno 2009) dell'attuale pontefice, Benedetto XVI, che l'ha promulgata nel quinto anno del suo pontificato.
Due frasi di essa mi sembra opportuno citare a mo' di esergo prima di procedere alle consuete domande-risposte, anche perché paiono, a tutt'oggi, riassumere la strategia di questo pontificato: «Senza Dio l'uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia»; e: «La ragione senza la fede è destinata a perdersi nell'illusione della propria onnipotenza. La fede senza la ragione rischia l'estraniamento dalla vita concreta delle persone».
Veniamo dunque a noi. Leggo nell'enciclica:
Pubblicando nel 1967 l'enciclica Populorum progressio, il mio venerato predecessore Paolo VI (...) ha affermato che l'annuncio di Cristo è il primo e principale fattore di sviluppo (...). A oltre quarant'anni dalla pubblicazione dell'enciclica, intendo rendere omaggio e tributare onore alla memoria del grande pontefice Paolo VI, riprendendo i suoi insegnamenti sullo sviluppo umano integrale e collocandomi nel percorso da essi tracciato, per attualizzarli nell'ora presente. Questo processo di attualizzazione iniziò con l'enciclica Sollieitudo rei socialis, con cui il Servo di Dio Giovanni Paolo II volle commemorare la pubblicazione della Populorum progressio in occasione del suo ventennale. Fino ad allora, una simile commemorazione era stata riservata solo alla Rerum novarum. Passati altri vent'anni, esprimo la mia convinzione che la Populorum progressio merita di essere considerata come «la Rerum novarum dell'epoca contemporanea», che illumina il cammino dell'umanità in via di unificazione.
Dunque, la Caritas in veritate è uscita con due anni di ritardo rispetto alla commemorazione enunciata. Come mai?
Il Santo Padre, anche ritengo su suggerimento del Segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone, sembra aver percepito che la crisi economica incombente avrebbe modificato il contesto stesso cui si riferiva l'enciclica. Sia nelle considerazioni, sia nelle raccomandazioni. È vero, un'enciclica sulla Dottrina Sociale non può essere una lezione di economia, essa è un richiamo pastorale e dottrinale a vescovi, sacerdoti e fedeli riferito al comportamento dell'uomo a fronte di specifici problemi. Come tale un'enciclica è «senza tempo», anche se, dovendo riferirsi a problemi ben precisi e attuali, è «nel tempo». Questa enciclica è una specie di lezione sulla volontà di Dio, che nel caso specifico è stata costretta a occuparsi di economia. Meglio: è stata costretta a occuparsi dell'uso dello strumento economico secondo i fini per cui è stato adottato, il senso che gli è stato dato nel momento specifico considerato dall'enciclica. Nel 2007 le prospettive dell'economia e del ruolo delle grandi nazioni non erano chiare, si era alla vigilia di un grande cambiamento sospettato, sì, ma ancora non chiaramente definibile. Così, appare comprensibile la volontà di rinvio dell'uscita dell'enciclica per coglierlo meglio. Questa volontà di attendere fu provvidenziale perché permise di chiarire una serie di fatti che, spiegando meglio l'origine vera della crisi economica e le sue conseguenze, divennero illuminanti nella diagnosi e nelle raccomandazioni.
È stata giustamente definita «la Rerum Novarum dell'epoca contemporanea». Secondo me lo è anche per il suo profondo realismo e la relazione assoluta tra fede e ragione, tanto affermata dal questo Papa che sa prendere gli uomini «per la testa» e non solo per il cuore. La Rerum Novarum fu promulgata nel 1891 (anche se preparata l'anno precedente), in un periodo molto influenzato da fenomeni economici nuovi e complessi. In quell'enciclica Leone XIII indicò nella concentrazione del potere economico un pericolo per l'uomo. Qualcuno si affrettò subito a leggere in tale considerazione una volontà anticapitalista di quel Papa. Invece, proprio nello stesso anno della preparazione dell'enciclica (1890), era stato approvato negli Stati Uniti lo Sherman Act, legge anti-monopoli o trust che regolava appunto la concentrazione di potere economico, riconosciuta dannosa al mercato e agli operatori economici. Ecco, dunque, la razionalità della fede (e, naturalmente, della morale). Vedremo oltre come anche per la Caritas in veritate risalta la razionalità dell'indicare le vere ragioni, morali e economiche, dell'attuale crisi, già anticipate dalle due encicliche richiamate da Benedetto XVI: Humanae vitae (1968) e Populorum progressio (1967) di Paolo VI, scritte più di quarant'anni prima.
Pesco ancora nel testo e cito:
Con la Lettera apostolica Octogesima adveniens del 1971, Paolo VI trattò poi il tema del senso della politica e del pericolo costituito da visioni utopistiche e ideologiche che ne pregiudicavano la qualità etica e umana. Sono argomenti strettamente collegati con lo sviluppo. Purtroppo le ideologie negative fioriscono in continuazione. Dall'ideologia tecnocratica, particolarmente radicata oggi, Paolo VI aveva già messo in guardia, consapevole del grande pericolo di affidare l'intero processo dello sviluppo alla sola tecnica, perché in tal modo rimarrebbe senza orientamento. La tecnica, presa in se stessa, è ambivalente. Se da un lato, oggi, vi è chi propende ad affidarle interamente detto processo di sviluppo, dall'altro si assiste all'insorgenza di ideologie che negano in toto l'utilità stessa dello sviluppo, ritenuto radicalmente anti-umano e portatore solo di degradazione. Così, si finisce per condannare non solo il modo distorto e ingiusto con cui gli uomini talvolta orientano il progresso, ma le stesse scoperte scientifiche, che, se ben usate, costituiscono invece un'opportunità di crescita per tutti. L'idea di un mondo senza sviluppo esprime sfiducia nell'uomo e in Dio. È, quindi, un grave errore disprezzare le capacità umane di controllare le distorsioni dello sviluppo o addirittura ignorare che l'uomo è costitutivamente proteso verso l'«essere di più». Assolutizzare ideologicamente il progresso tecnico oppure vagheggiare l'utopia di un'umanità tornata all'originario stato di natura sono due modi opposti per separare il progresso dalla sua valutazione morale e, quindi, dalla nostra responsabilità.
Ancora:
«I diritti individuali, svincolati da un quadro di doveri che conferisca loro un senso compiuto, impazziscono e alimentano una spirale di richieste praticamente illimitata (…). Se, invece, i diritti dell'uomo trovano il proprio fondamento solo nelle deliberazioni di un'assemblea di cittadini, essi possono essere cambiati in ogni momento».
Ora, la domanda è: quali problemi reali influenzano l'enciclica nelle sue considerazioni e raccomandazioni?
Vorrei distinguere tre categorie di problemi reali: quelli che hanno originato la crisi economica contemplata dall'enciclica, quelli che hanno concorso ad ampliarla e quelli che dovrebbero risolverla ma vengono ritenuti pericolosi. Nel primo gruppo ha particolare rilevanza il crollo della natalità verificatosi negli anni 1975-80 nel mondo occidentale: troviamo le necessarie considerazioni su questo problema nei capitoli primo e secondo dell'enciclica. Nel secondo gruppo, tra le cause che concorrono ad ampliare la crisi (tramite il cattivo uso di strumenti di carattere politico, economico e finanziario), va segnalato il pensiero nichilistico dominante; questo, separando idee e comportamenti da qualsiasi verità o valore assoluto, porta a considerare l'uomo un animale, pur intelligente, da soddisfare solo in via materiale e costi quel che costi. In verità tutta l'enciclica è riferita a questo problema; per intenderlo specificamente è necessario leggerne bene l'«Introduzione» e la «Conclusione». Soprattutto l'«Introduzione», che, in questa prospettiva, equivale al primo comandamento del Decalogo. Quest'ultimo è necessario capirlo e condividerlo per accettare compiutamente i successivi. Nel terzo gruppo, infine, abbiamo le possibili soluzioni della crisi, che si dovrebbe ottenere tramite l'uso dei soliti strumenti tecnici attualmente idolatrati. Troviamo le considerazioni riferite a questa categoria di problemi nel capitolo sesto dell'enciclica.
Citazione:
«È importante inoltre evidenziare come la via solidaristica allo sviluppo dei Paesi poveri possa costituire un progetto di soluzione della crisi globale in atto». Il Papa, poi, passa a insistere sul «rispetto per la vita, che non può in alcun modo essere disgiunto dalle questioni relative allo sviluppo dei popoli». Indi, stigmatizza il diffondersi di «una mentalità antinatalista che spesso si cerca di trasmettere anche ad altri Stati come se fosse un progresso culturale».
È questa la strategia di fondo dell'enciclica? Il messaggio che vuole comunicare agli uomini?
Forse questa non è la vera strategia dell'enciclica ma certamente ne è il messaggio di partenza. Se non c'è rispetto per la vita che cosa merita rispetto? Richiamando le aspirazioni dell'Humanae vitae di Paolo VI, implicitamente Benedetto XVI impone il richiamo principale dell'intera enciclica e, conseguentemente, prevede il crollo di ogni altro valore e/ o surrogato. Io credo che il messaggio di fondo dell'enciclica sia questo: uno strumento come lo sono l'economia, la scienza e la tecnica non può e non deve rivendicare autonomia morale; ciò produrrebbe danni irreparabili per l'uomo, come è infatti successo. E questo accade quando l'uomo perde il significato del vero e sottomette la verità alla propria libertà (che, nella visuale cattolica, è disordinata). L'autonomia morale di uno strumento è sintomo di confusione e di perdita della verità. Ne consegue che la stessa vita umana perde di significato, la dignità umana perde il suo valore e l'uomo diventa mezzo di produzione, di consumo, di risparmio.
Ma merita soffermarsi un attimo su questo punto del rispetto della vita, perché, se non è il messaggio di fondo, è senz'altro il fondamento del messaggio dell'enciclica. Infatti, negando la vita o subordinandola ad altri (presunti) valori, si producono realmente danni irreparabili. Perciò affermo chiaramente che l'origine della crisi attuale è soprattutto morale ed è dovuta proprio alla negazione della vita. Ricordiamoci che alla fine degli anni '60 i «profeti» neomalthusiani (prima quelli dell'università di Stanford, poi quelli del MIT-Massachussetts Institute of Technology) annunciarono che, se il tasso di crescita della popolazione avesse proseguito come negli anni precedenti (intorno al 4/4,5%), prima del 2000 centinaia di milioni (cifra poi ridimensionata in decine di milioni) di persone sarebbero morte per fame soprattutto in Asia e India. Questo la dice lunga sulle capacità predittive di sociologi ed economisti; infatti, ciò che poi è avvenuto contraddice in pieno i loro assunti. Nel mondo occidentale, che interruppe la natalità portandola, anzi, al di sotto dello zero, si sono create condizioni per la crisi, mentre nel mondo ex emergente, che ha continuato a far figli, si sono invece avuti sviluppo e creazione di ricchezza; e oggi quasi sostengono addirittura il mondo (ex) ricco (ed egoista). Noi occidentali abbiamo creduto di diventare più ricchi negando la vita e invece siamo diventati più poveri.
Ed ecco quel che è successo. Se la popolazione di un Paese ricco (e costoso) cessa di crescere, diminuisce conseguentemente e progressivamente l'accesso alla fase di produttività di giovani; per contro, aumenta il numero delle persone che escono dalle attività produttive e diventano un costo per la collettività. Questa, dunque, decresce sia in numero che in risorse. In pratica, nel sistema socio-economico aumentano i costi fissi; e, non potendosi ridurre le tasse, diminuiscono i risparmi e, dunque, le attività finanziarie. La reazione più naturale è a quel punto aumentare la produttività (il che equivale in pratica a fare gli straordinari) ma ciò ha un limite fisico. Certo, si può tentare con sistemi che cerchino di aumentare il potere di acquisto riducendo i costi (per esempio, la delocalizzazione in Asia di molte produzioni). Ma quando ciò non basta non rimane che un mezzo: il debito. O meglio, il consumismo a debito, che arriva agli eccessi che conosciamo. Il fatto è che l'abnorme espansione creditizia, il cattivo uso degli strumenti finanziari e quant'altro, sono stati effetti, non cause. Altrove va cercata l'origine degli attuali squilibri economici: nel non rispetto della vita umana.
Sempre partendo da citazioni:
«L'enciclica Humanae vitae sottolinea il significato insieme unitivo e procreativo della sessualità, ponendo così a fondamento della società la coppia degli sposi, uomo e donna (...I. Nella Populorum progressio, Paolo VI ha voluto dirci, prima di tutto, che il progresso è, nella sua scaturigine e nella sua essenza, una vocazione».
Con la Sollicitudo rei socialis di Giovanni Paolo II, sono le tre encicliche che la Caritas in veritate riprende. Perché proprio queste?
Come ho anticipato commentando l'Humanae vitae, quando non si hanno idee chiare sulla vita si equivoca sul ruolo dell'uomo, il quale da fine diventa mezzo e non è altro che un animale che basta soddisfare materialmente. Così, lo sviluppo come avvertiva la Populorum progressio non è più «integrale», cioè non tiene più conto dei veri bisogni dell'uomo. L'uomo non è il risultato dell'evoluzione di un bacillo frutto del caos. La Sollicitudo rei socialis di Giovanni Paolo II viene ricordata nella Caritas in veritate in vari punti, soprattutto nel capitolo sesto in cui si parla del rischio di idolatria delle tecniche. Nella Sollicitudo il Papa polacco fu profeta. Egli vide un uomo sempre più concentrato su filosofie positiviste, relativiste e nichiliste, un uomo che crede solo e sempre più nelle scienze e nelle tecniche, che crea strumenti sempre più sofisticati ma non matura in comprensione, sapienza, conoscenza e saggezza. Come potrà questo tipo d'uomo si domandava Giovanni Paolo II gestire siffatti strumenti? Rischierà che gli sfuggano di mano. Come infatti è successo e si teme nel sesto capitolo della Caritas in veritate succederà ancora se l'uomo non matura e ritrova, con la Verità, la vera saggezza.
Cominciamo, anche qui, con un paio di citazioni:
«La sapienza della Chiesa ha sempre proposto di tenere presente il peccato originale anche nell'interpretazione dei fatti sociali e nella costruzione della società». E la convinzione poi della esigenza di autonomia dell'economia, che non deve accettare "influenze" di carattere morale, ha spinto l'uomo ad abusare dello strumento economico in modo persino distruttivo».
Teologia, economia. Sembra che i sei capitoli nei quali la Caritas in veritate è divisa, volendo abbracciare tutta la realtà odierna,finiscano con l'essere in qualche misura scollegati tra loro. Ma noi sappiamo che c'è una «storia» che intendono raccontare, un filo che li unisce e conduce a conclusione, vero?
C'è fin dall'«Introduzione», in cui si spiega quale deve essere il principio di riferimento nell'uso di uno strumento come quello economico: il progetto di Dio, la verità della fede, la carità in questa verità.
Il primo capitolo ricorda le prospettive della Populorum progressio e della Humanae vitae sul valore della vita e sullo sviluppo integrale dell'uomo, si domanda se tali prospettive siano state realizzate e si risponde di no. Il secondo capitolo spiega i motivi del fallimento: chiusura alla vita, fraintendimento dell'uso dello strumento economico, sviluppo falsato, tecniche male usate, distribuzione della ricchezza non realizzata. Nel capitolo terzo si scava ulteriormente: ciò è avvenuto perché l'economia e la tecnica hanno preteso autonomia morale. Ma non devono averne perché sono solo strumenti cui imporre, al contrario, un senso, in quanto ogni decisione economica e tecnica ha impatto morale. Il capitolo quarto propone di riprendere la responsabilità personale nelle azioni e nell'uso degli strumenti, giacché l'etica può essere solo personale. Lo strumento economico va usato per il bene comune secondo una gerarchia di fini; la Chiesa ha il diritto di riaffermare ciò perché ha la responsabilità della tenuta morale della società. La conseguenza di questo agire è trattata nel successivo capitolo quinto, che è riferito al bene comune. La responsabilità personale fa sì che occuparsi di economia voglia dire pensare agli altri, pensare ai popoli come a una sola famiglia con cui condividere sviluppo e benessere. Altrimenti spiega il sesto capitolo si cade in una nuova forma di pericoloso regresso, cagionato questa volta dall'autosufficienza delle tecniche. Sviluppando queste ultime e non conoscenza l'uomo si perde. Per questo è necessaria la Verità. Solo così si avrà un vero sviluppo.
Continuiamo col sistema delle citazioni dall'enciclica:
«Il mercato, lasciato al solo principio dell'equivalenza di valore dei beni scambiati, non riesce a produrre quella coesione sociale di cui pure ha bisogno per ben funzionare [...]. E oggi è questa fiducia che è venuta a mancare, e la perdita della fiducia è una perdita grave».
È un velato rimprovero al mondo dell'imprenditoria e della finanza?
Non lo credo affatto. Tutt'al più potrebbe essere un velato rimprovero a quegli uomini che si occupano di impresa e finanza dimenticando che si tratta di mezzi e che, dunque, necessitano di un fine per essere buoni e efficaci. È certamente vero che è venuto a mancare uno strumento essenziale in economia: la fiducia. La mancanza di fiducia provoca alti sovra costi e produce l'inceppamento di molti meccanismi nel sistema economico.
Parto, anche qui, da una citazione:
Opportunamente Paolo VI nella Populorum progressio sottolineava il fatto che lo stesso sistema economico avrebbe tratto vantaggio da pratiche generalizzate di giustizia, in quanto i primi a trarre beneficio dallo sviluppo dei Paesi poveri sarebbero stati quelli ricchi. Non si trattava solo di correggere delle disfunzioni mediante l'assistenza. I poveri non sono da considerarsi un «fardello», bensì una risorsa anche dal punto di vista strettamente economico. È tuttavia da ritenersi errata la visione di quanti pensano che l'economia di mercato abbia strutturalmente bisogno di una quota di povertà e di sottosviluppo per poter funzionare al meglio.
Qualcuno ha detto che questa enciclica invita a rinnovare il capitalismo. Se non sbaglio su «Il Sole 24 ORE», hai ribattuto che è la mancanza di buoni preti ad aver prodotto l'attuale crisi. Cosa intendevi dire?
Il futuro del capitalismo nel mondo intero non sarà legato a nuove formule o nuove vie. Il capitalismo e il mercato sono strumenti in continuo adattamento all'evoluzione delle strutture economiche. Il futuro del capitalismo è funzione di ciò che sarà l'uomo nel mondo, e il mondo stesso sarà ciò che gli uomini ne faranno. Dunque, tutto dipenderà dal senso che gli uomini daranno alla vita e alle proprie azioni. È infatti inutile biasimare gli uomini che non sanno dare senso all'economia e al capitalismo. Se la vita stessa non ha senso come si potrà darne uno all'uso di uno strumento? E questo insegnamento non si apprende nelle università, dove si insegna economia o finanza o scienze. Il senso soprannaturale della vita e il dovere della ricerca della Verità li insegnano o dovrebbero farlo solo i buoni preti. Una buona confessione o un buon ritiro spirituale in cui venga insegnato solo a cercare Dio e perciò la Verità, dà molto più «valore aggiunto» a un manager di tanti training professionali. I quali sono, certo, utili, ma restano mero mezzo per un fine. Se manca questo manca tutto.
«L'attività economica non può risolvere tutti i problemi sociali mediante la semplice estensione della logica mercantile. Questa va finalizzata al perseguimento del bene comune, di cui deve farsi carico anche e soprattutto la comunità politica. Pertanto, va tenuto presente che è causa di gravi scompensi separare l'agire economico, a cui spetterebbe solo produrre ricchezza, da quello politico, a cui spetterebbe di perseguire la giustizia mediante la ridistribuzione.»
Ora, tutti ritengono che la responsabilità dell'attuale crisi economica globale sia da attribuirsi prevalentemente alla finanza. Qui, però, si tira in ballo anche la politica. Dunque?
La responsabilità dell'attuale crisi non può essere della finanza. Questa, semmai, ha un'altra responsabilità, quella di averla aggravata. La politica ne ha di maggiori. Lo ammise lo stesso presidente Bush nell'ultima riunione del G20 cui partecipò: disse esplicitamente che il suo governo aveva sostenuto una crescita economica esageratamente a debito. Si ricordi che detto governo aveva persino previsto e strutturato ben due agenzie (Freddy & Fanny) per ovviare agli errori eventuali commessi nella concessione di credito e mutui. Anche Obama nel suo primo G20 confessò che gli americani avevano vissuto ben al di sopra delle proprie possibilità e per troppo tempo.
Ma in che senso si parla di responsabilità della politica? Per poter valutarla bisogna tenere presenti tante circostanze complesse e non semplificabili. Per un governo, la diminuzione della crescita del Pil (Prodotto Interno Lordo) è un fatto grave. Implica scarsa capacità governativa, il rafforzamento dell'opposizione e crollo di consensi alle elezioni. Significa minor budget per spese sociali e investimenti, significa sostenere la crescita a debito. Nel caso degli USA vuol dire dover ridurre le spese militari, e magari in un momento cruciale di pericoli bellici o terrorismo (si pensi all'11 settembre 2001) Vuol dire dover prevedere modifiche negli assetti di potere geopolitico nel futuro prossimo e nel compararsi a nazioni a maggiore crescita (per esempio, se gli USA, con 450 milioni di abitanti, crescono del 3% all'anno e la Cina, con 1,5 bilioni di abitanti, del 15%, è evidente che in breve il potere si sposterà in Cina). In pratica, la politica dovrà inventarsi qualcosa per sostenere il suo potere. Negli USA, negli ultimi dodici anni, hanno escogitato per le famiglie la crescita a debito, facendo lievitare, affinché aumentassero i consumi, il peso del loro debito sul Pil dal 68% del 1998 al 96% del 2008. Più 28% in dieci anni, equivalente a un tasso di crescita medio del 2,8% annuo. Oggi dette famiglie hanno perso gran parte del valore dei propri risparmi, del valore della casa (comprata a debito), del valore del fondo pensione; hanno alcune annate di debiti da pagare e un maggior rischio di disoccupazione. In pratica, le famiglie sono diventate sussidiarie ai bisogni dello stato (in fondo, quel che J.F. Kennedy auspicava già negli arali '60).
Nell'enciclica si parla del «danno che il "supersviluppo" procura allo sviluppo autentico, quando è accompagnato dal "sottosviluppo morale"
«(...). Non va dimenticato che il mercato non esiste allo stato puro. Esso trae forma dalle configurazioni culturali che lo specificano e lo orientano».
Dunque, per il Papa la causa della crisi è «morale». Cosa significa? Mi si passi l'espressione: il peccato cagiona anche crisi economiche?
Certamente il peccato, comportando sovvertimento dell'ordine naturale, provoca crisi: dell'uomo stesso, che perde riferimenti e valori, e da ciò, delle sue azioni, anche in quelle economiche, con conseguenze coerenti. Abbiamo già dimostrato che l'attuale crisi è originata dal peccato di negazione della vita. A differenza di quello che, istintivamente, qualsiasi buon cristiano risponderebbe all'opportuna domanda, cioè che l'uomo fu creato «ut operaretur», perché lavorasse, vorrei lanciare una provocazione dicendo che non è vero. L'uomo è stato creato affinché, anzitutto, pensasse. Se non lo facesse, lavorerebbe senza pensare che senso dare al proprio lavoro. Altrimenti potrebbe arrivare persino a maledire il proprio lavoro. Il punto è che la dignità dell'uomo non sta nel lavoro ma nel pensiero. Perciò l'uomo deve prima di tutto pensare bene per poter agire meglio. Il peccato confonde e corrompe sia il pensiero che azione dell'uomo. Ecco perché auspico che accorrano a supporto dei destini dell'umanità eserciti di buoni confessori, tanti santi Curati d'Ars capaci di renderci consapevoli della gravità del peccato e di farcelo odiare. Riscuotendo, con ciò, la gratitudine del mondo intero, psicanalisti inclusi.
Cito alcuni passi in cui si adombrano alcune soluzioni:
«Senza la guida della carità nella verità, questa spinta planetaria può concorrere a creare rischi di danni sconosciuti finora e di nuove divisioni nella famiglia umana».
Parla della globalizzazione, com'è evidente.
«L'economia integrata dei giorni nostri non elimina il ruolo degli Stati, piuttosto ne impegna i governi a una più forte collaborazione reciproca. Ragioni di saggezza e di prudenza suggeriscono di non proclamare troppo affrettatamente la fine dello Stato. In relazione alla soluzione della crisi attuale, il suo ruolo sembra destinato a crescere, riacquistando molte delle sue competenze».
«Per non dar vita a un pericoloso potere universale di tipo monocratico, il governo della globalizzazione deve essere di tipo sussidiario».
«Lo sviluppo integrale dei popoli e la collaborazione internazionale esigono che venga istituito un grado superiore di ordinamento internazionale di tipo sussidiario per il governo della globalizzazione».
Sembra che il Pontefice sia preoccupato anche dalle «soluzioni» dell'attuale crisi.
E come potrebbe non esserlo? Nel sesto capitolo dell'enciclica spiega con chiarezza quale sia la sua preoccupazione. Sì, perché, come alcuni governi sono stati origine della crisi, quegli stessi governi possono benissimo porre in essere soluzioni sbagliate. Come tali governi hanno reso sussidiari alle loro ansie di potere famiglie e individui, trasformandoli in mezzi di consumo a debito e rendendoli perciò vulnerabili e dipendenti, così può succedere che le soluzioni escogitate per uscire dalla crisi aggravino ancor più la situazione, sempre ai danni di famiglie e individui (passibili di venire sottoposti a nuove sperimentazioni). Il Pontefice ci ricorda che, al contrario, devono essere loro, i governi (anche quello della globalizzazione), sussidiari alla persona.
Per finire: l'enciclica al paragrafo 44 dice in sostanza che considerare l'aumento della popolazione come causa prima del sottosviluppo è scorretto, anche dal punto di vista economico. Cosa intende dire esattamente?
L'aumento della popolazione nei Paesi che vent'anni fa erano considerati «in via di sviluppo» ha loro portato oggi, grazie anche alla delocalizzazione produttiva, benessere e ricchezza, in misura tale da potere persino tenere in piedi i nostri Paesi (ex ricchi e senza figli). Questi Paesi oggi stanno investendo in zone che noi occidentali abbiamo sempre considerato in povertà cronica e abbiamo «aiutato» mandando profilattici per interrompere la crescita della loro popolazione. Si stima che in Africa, in via di colonizzazione da parte dei cinesi, fra una decina d'anni potranno esserci un paio di miliardi di abitanti. Su questo i cinesi stanno investendo, creando lavoro e promovendo benessere. Il problema, semmai, sarà di quale cultura e quale visione della dignità dell'uomo questi nuovi colonizzatori saranno portatori fra quelle popolazioni. Certo, non quelle cattoliche.