1 ott 2010

Editoriale prima e settima pag. Quotidiano d’Informazione di Piacenza

Riflettere su Dio, la natura, il diritto é necessario


Fonte come da titolazione, rilevato da Ciani Vittorio x l’Ufficio Documentazione Diocesi Piacenza-Bobbio.
Francesco D'AgostinoPresidente Emerito Comitato Nazionale di Bioetica Presidente Unione Giuristi Cattolici Italiani
Strano titolo per un Convegno Dio, la natura e il diritto di domani all'Alberoni. Il riferimento a Dio potrebbe non suscitare particolare meraviglia, in un tempo, come il nostro, pieno di rivendicazioni religiose di timbro fondamentalistico.
Ma il riferimento alla natura che rilievo può avere nel mondo d'oggi, e in particolare per i giuristi? Nel mondo postmoderno la natura sembra non avere più alcuna risorsa.
È messa ai margini dallo strapotere della tecnica e dall'arroganza antropologica (che continua a ripetere, da decenni, che l'uomo non ha una natura, ma è"cultura; esclusivamente "cultura".
Stanno davvero così, le cose? Naturalmente no, se non in una prospettiva vetero-illuminista, peraltro ancora oggi diffusa. Spieghiamo perché.
L’antigiusnaturalismo non è un'ideologia moderna: attraversa, come un filo rosso, tutta la storia del pensiero giuridico occidentale. Il diritto naturale è stato tante volte dato per morto ed è sempre risorto.
Un illustre giurista tedesco, Heinrich Rommen, dedicò un libro all'eterno ritorno del diritto naturale. La cosa si spiega, se pensiamo che, contrariamente a quanto sostengono malevolmente alcuni suoi critici, il radicamento del diritto della natura non ha nulla di "biologistico"; non è alla natura "fisica" che il giusnaturalista deve e vuole rendere omaggio, ma alla natura specificamente "umana; quella che ci convince che tutti gli uomini sono uguali, cioè che i loro bisogni, le loro passioni, le loro speranze di felicità e soprattutto i loro diritti sono assolutamente gli stessi. Postulare l'esistenza del diritto naturale significa semplicemente negare che chi ha il potere possa arbitrariamente pretendere che la sua volontà normativa sia da considerare la fonte del giusto e dell'ingiusto o addirittura del bene e del male. Il legislatore, che non si riconosca nel modello giusnaturalistico, non potrà alla fine che fondare il suo potere sulla forza: sulla forza bruta, se egli si comporta da tiranno, sulla forza dei numeri, cioè della maggioranza   pur sempre una forza   se egli si comporta democraticamente, ma pur sempre, in un modo o nell'altro, sulla forza. Ben diversamente si comporterà il legislatore giusnaturalistico: egli riterrà che ogni norma che possa promanare dalla sua volontà debba avere una giustificazione oggettiva e debba essere misurata sul bene comune dei cittadini.
Essere giusnaturalisti significa, in buona sostanza, sottoporre la legislazione (e in primo luogo la stessa Costituzione!) al vaglio della ragione. Questa ragione avrà naturalmente i propri condizionamenti storici, ma non sarà mai riducibile esclusivamente a “cultura”, sì che i diritti goduti dai cittadini di un popolo non possano essere ritenuti godibili da quelli di qualsiasi altro popolo. Essere giusnaturalisti significa credere che ogni discriminazione è non solo odiosa, ma ingiustificabile.
Se non è difficile costruire un nesso essenziale tra diritto e natura (nel senso sopra illustrato), ben più difficile è costruire un nesso del diritto e della natura con Dio. Qui entrano in gioco le dinamiche della secolarizzazione e il laicismo post-moderno, con tutto il suo peso.
Non voglio minimizzare queste difficoltà, né voglio, come giurista cattolico, negare una verità essenziale e cioè che come esperienza umana il diritto non ha carattere confessionale: posso avere rapporti giuridici con credenti e non credenti e il principio di giustizia mi obbliga a non discriminare chi abbia la fede da chi non l'abbia. Il punto è che il riferimento a Dio, nell'esperienza giuridica, non va percepito sul piano dei contenuti. È sufficiente la comune ragione umana per convincerci che se godo di un diritto fondamentale non posso negare che gli altri uomini, che sono come me, ne godano allo stesso modo.
Se Dio entra nel discorso giuridico (e a mio avvisò non può non entrarvi) vi entra in altro modo e sotto due diversi profili. Sotto un profilo storico-culturale, in primo luogo: un profilo che non può essere in alcun modo minimizzato, perché sono state le grandi religioni a"civilizzare" l'umanità e ad insegnare agli uomini valori fondamentali, primo tra tutti la pace (non a caso augurarsi reciprocamente la "pace" è il modo di salutarsi più tipico tra i credenti delle tre grandi religioni monoteistiche mondiali). Possiamo però, e dobbiamo, andare al di là dell’orizzonte storico-culturale. Se la giustizia è un assoluto (e non può non esserlo, almeno per chi ritenga assoluti alcuni diritti umani, come la libertà di coscienza, la parità tra i sessi, il diritto all'educazione e alla salute, il rifiuto della guerra, della tortura e della violenza in generale, ecc.) solo un fondamento assoluto, cioè Dio, può renderla credibile.
Questo modo di porre la questione oggi è scarsamente condiviso; ma è apparso consistente al di là di ogni possibile dubbio a generazioni di pensatori: non solo a tutti i grandi pensatori della tradizione ebraico-cristiana-islamica, ma anche, ad esempio, a un Voltaire.
E continua oggi ad apparire credibile al massimo filosofo tedesco vivente, Jűrgen Habermas, che pur dichiarandosi non credente, sostiene che tra il pensiero laico e quello religioso debba instaurarsi un intelligente processo di "apprendimento complementare ". È quanto basta per sostenere che l'epoca di un positivismo chiuso ed ottuso è alle nostre spalle e che una rinnovata riflessione su Dio, la natura e il diritto è non solo sensata, ma con ogni evidenza assolutamente necessaria.