In onore del giorno della memoria, per non dimenticare, mai
Non ho parole
Non ho parole
Il corpo soffre
la mente pensa
il cuore piange.
L’ULTIMA FERMATA
Volvo rossa station wagon piena di tutto
come conviene ad un artista errante.
Il caro pittore amico di famiglia mi
invita ad andare in Polonia sua terra natale. Accetto, malgrado la
differenza di età. Partiamo in un giorno di aprile pieno di sole.
A Warszaw ci
aspettano la moglie con i cagnolini: Kaja e Buba, un’elegante coppia di
bassotti, molto giocherellona.
Il viaggio comincia senza fretta, guida
lui ed io osservo. Osservo lui ed il panorama; non so cosa mi attira di più. Passiamo la
prima frontiera e usciamo dall’Italia. Arriviamo a Dresda,
cittadina pulita e ordinata, mi colpisce il centro senza automobili. In un albergo
piccolo ma di lusso, prendiamo possesso delle nostre rispettive camere,
poi l’artista si reca a cercare un soggetto adatto per un suo nuovo quadro.
Ritrae paesaggi dal vero, e non come fanno tanti pittori che copiano
belle cartoline. A sera torna e mi chiede di “scrutare” bene il suo
capolavoro: nel dipinto, eseguito lasciando il colore corposo, si nota una “A” celata
fra i rami degli alberi.
Un tributo alla sua giovane amica! Il giorno
seguente ripartiamo e questa volta guido io. I campi si susseguono ai boschi, i
colori sono intensi, merito del bel tempo e dell’aria pura.
“Guarda, Ari, com’è bello il mondo!” Wlod
(Włodzimierz Zakrzewski questo è il
nome Del mio amico pittore), esprime la sua gioia.
Per il paesaggio affascinante, o perché è
contento della mia presenza?
“Radar!” Esclama un attimo dopo.
“Radar!” Continua.
Io sto guidando a velocità sostenuta e
lui mi sta avvisando che lungo l’autostrada sono stati installati i rilevatori di
velocità. Comprendo e continuo rallentando la mia andatura. Il viaggio è
lungo, dopo altre tappe ci avviciniamo alla sua Polonia, decidiamo di fare una
sosta per riposare, anche per compiere una visita culturale, la
nostra ultima fermata è: Oświęcim, in tedesco Auschwitz il campo di concentramento.
Varchiamo il cancello con la famosa
scritta. Il binario nero e diritto è arrivato al Capolinea e tutto intorno sembra di
avvertire ancora odore di morte.
Le costruzioni allineate una di seguito
all'altra parlano da sole agli alberi, anch’essi allineati ma solo lungo il
perimetro di questo lugubre posto. Ogni edificio conserva il passaggio di una
umanità strappata alla vita da individui appartenenti sì al genere umano, ma colmi
di presunzione, di odio, di pazzia. L’aria non è più tersa, lo smog è
pesante, la cappa nera aumenta il disagio che incomincio a sentire inoltrandomi
sempre di più in questo giro turistico da brivido. Un lungo percorso
di terra battuta e protetto da alti fili spinati mi conduce a quelle che erano le
infermerie, con i piccoli presidi medici: urla strazianti in questo
silenzio muto, sono rimaste aggrappate ai muri. Giro intorno più volte a quelle
baracche squadrate, tutte uguali, ideate per eseguire ordini diversi, ma gli
esecutori avevano tutti l’unico scopo di essere attori sadici della storia. Un
edificio più basso e lungo si sta avvicinando, lo vedo ben chiaro.
Arrivo, apro la porta
ed entro in un grande vano con il soffitto basso, dal quale
pendono numerosi soffioni di docce, questo posto emana una pesante presenza
di anime: pianti abbracciati coscienti nel freddo. Poi il fumo e più
niente.
L’ultima palazzina mi aspetta per darmi
conferma che tutto è realmente accaduto: vetrine piene di borse, di
occhiali, di capelli. Cumuli di stampelle, cataste di valigie, mucchi di vestiti e
poi paralumi di mummie. Saponette intoccabili. Tutto è reale quanto la mia
angoscia che mi fa chiedere: perché?
Perché tanto accanimento, perché tanto
dolore, sadismo, violenza gratuita, miseria dell’anima? Come ha
potuto la mente umana pianificare un progetto tanto orribile? La storia ci
ricorda le persecuzioni dei forti sui
deboli, le torture più efferate, gli
eccidi e i crimini commessi in nome di qualche dio o di chissà quale causa
ideata da menti contorte.
Tutta questa violenza è servita a migliorare l’uomo e
la sua condizione?
“Io ti aspetto al parcheggio.” Mi avvisa Wlod.
Capisco il suo stato d’animo, lui che è
stato prigioniero in Siberia, lui che ha avuto tanti amici deportati , anche
nel campo appena visitato.
Lui che ha visto la sua Warszaw completamente distrutta. Lui che ha dovuto
ricomporre la sua anima!
Questo giro turistico mi rimarrà impresso
nella memoria. Esco. E’ scontatodire: “Non ho parole”. Ma istintivamente
è l’unica frase che si riesce ad esprimere. Tutte le parole della nostra
conoscenza non bastano e non riescono a descrivere quelle morti presenti in
ogni mattone, in ogni finestra, in ogni recinto, in ogni granello di
terra, in ogni filo d’erba, senza che io abbia visto un solo cadavere. Volto lo
sguardo a Wlod, è triste e silenzioso, solo poco prima aveva detto che il mondo
è bello!
“Perché vi siete rassegnati ? Perché vi
siete fermati?”
L’ultima fermata.
Noi ripartiamo.
Tratto dal libro
ASHANTI scritto da Arianna Iezzi – Stampa luglio 2011 -
arianna.iezzi58@gmail.com