8 set 2012

fantasy ...IL BOSCO DEL MORTO .. racconto di Arduino Rossi









IL BOSCO DEL MORTO

Aveva da poco acquistato una baita in una zona boscosa e collinare, lontano dalla città, stanco di traffico e di rumore.
Andrea era un pensionato poco più che cinquantenne: ancora giovanile nei modi, nell’aspetto, nelle abitudini spartane.
Aveva reso la casupola appena vivibile, eliminando tutto ciò che non gli serviva e vi si era trasferito: tutto era in ordine, preciso come sapeva esserlo Lui.
Non aveva famiglia: non si era sposato e aveva perso i pochi amici lungo la strada della vita, gli erano sfuggiti nella monotonia di un’esistenza grigia.
Era stato un impiegato di basso livello presso un ufficio comunale, non si era ammazzato dal lavoro e aveva mantenuto i suoi hobby solitari: principalmente lunghe passeggiate da misantropo in montagna, inoltre dipingeva quadri con paesaggi, che nessuno voleva, scriveva poesie, leggeva molti libri.
Era quasi un intellettuale, sicuramente era sempre in forma: controllava il cibo con attenzione e ogni sei mesi si faceva “rivedere” dai dottori, con analisi e visite specialistiche.
Oltre all’abitazione rurale possedeva un po’ di prati e anche un bosco fitto e aspro, abbandonato da anni, covo di civette, volpi e caprioli.
Era chiamato”il bosco del morto”, forse perché era avvolta spesso da un’ombra densa e un po’ tenebrosa, quasi inquietante.
Ogni tanto Andrea saliva per raccogliere un po’ di legna in quella che era la sua selva intricata, fitta di rovi e sterpi: amava quel luogo e si sentiva libero dai suoi pensieri.
Non aveva rimorsi, ma molti rimpianti: aveva desiderato tante donne ardentemente e mai le aveva possedute, né avvicinate.
Ora gli anni coprivano tutto con la nebbia dell’oblio, donando quella dolcezza malinconica all'autunno dell’esistenza.
Andrea segava i rami secchi e li trascinava sino a casa: aveva sempre bisogno di legna.
Quell’inverno era particolarmente gelido e il fuoco del camino scaldava appena quella che era diventata la sua cucina: un luogo scuro e fumoso, basso e dalle pareti irregolari, zeppe d’arnesi d’altri tempi.
Il giorno era sempre più breve e il sole tramontava presto dietro le colline ad Oriente: il crepuscolo era spesso con un cielo nuvoloso, gonfio di neve, che spegneva ogni colore e i sussurri nella valle. 
Era faticoso trascinare con il freddo la legna spinosa, ma era necessario, poi quella vita ruvida e scomoda gli modellava l’anima: diventava sempre più deciso, coraggioso e determinato.
I corvi volavano bassi in cerca dello scarso cibo, la luce si stava spegnendo tra il bianco della neve, il rosso della terra nuda, il bruno degli alberi spogli.
Si udiva il fruscio del rapido movimento di piccoli roditori tra i cespugli innevati.
Andrea percepiva il sudore caldo lungo la schiena e il gelo sul viso, ma doveva terminare prima che
la notte lo sorprendesse: non voleva arrischiarsi lungo il sentiero al buio, non aveva neppure una torcia elettrica con sé.
La notte calò mentre Lui era ancora a spezzare rami, a legare fascine: dovette affrettarsi, perché temeva di non vedere neppure quella poca luce riflessa dai borghi della vallata.
Si stava ponendo la corda sulle spalle per trascinare il fardello racimolato, quando udì una voce possente: -Lascia quella legna! Lasciala lì! Ladro!-
Andrea si voltò, ma non vide nessuno, urlò: -Chi è? Dove sei?-
Non ricevette risposta e proseguì, sicuro di aver immaginato tutto o di aver udito un suono distante, storpiata dall'eco.
Lungo il sentiero udì nuovamente quella voce, che ripeteva con sempre più rabbia: -Ladro! Lascia tutto e vattene dalla mia terra!-
Andrea non sopportava prepotenze, in particolare non accettava, neppure da un matto, che qualcuno violasse i suoi diritti acquisiti legalmente, usurpasse il proprio territorio, onestamente comprato.
Infuriato gridò, pronto a tutto: -Fatti vedere!-
-Ladro, restituiscimi la legna!-
-Cosa vuoi? Questa terra è mia, il bosco è mio!-
Ci fu un silenzio lungo un tempo infinito, poi quell’arrogante individuo, dal tono forte e cattivo, riprese a pretendere ciò che considerava suo.
Giunto a casa Andrea si barricò dentro e impugnò il fucile da caccia, deciso a sparare al primo tentativo scasso per entrare sino al suo rifugio.
Il silenzio rimase impenetrabile e per tutta la notte una tranquillità pesante aleggiò attorno alla baita.
All’alba Andrea si decise a sgusciare fuori, sempre guardingo e armato di una spranga: non c’era nessuno, ma volle subito avere chiarimenti su chi avesse osato attentare alla sua pace e alla proprietà.
Disse il parroco: -Sarà stato un vagabondo! Da noi non ci sono personaggi simili.-
Il vecchio panettiere invece sorrise: -Può essere stato uno scherzo. Qui ci sono molti burloni.-
Gli proposero mille ipotesi e nessuna fu soddisfacente.
Si decise di andare dall’eremita, un personaggio così chiamato da tutti per la sua solitudine, per la riservatezza silenziosa, per la religiosità umile, popolare: -Sarà stato certamente lo zio Barbabianca.-
-Chi sarebbe questo tizio? Il matto del paese?-
-No! Nulla di simile: era solo uno scapolo egoista e scontroso, padrone di quella che è oggi casa tua con tutti i terreni attorno.-
Andrea era curioso e voleva conoscere il personaggio: -Dove vive?-
-Non vive più, perché morì venti anni fa!-
Fu un colpo per Lui, era convinto che l’eremita fosse una persona normale, ma gli apparve in quel momento totalmente folle: -Cosa sta dicendo? I morti non parlano, non pretendono ciò che fu loro.-
L’eremita sospirò, scuotendo il capo, gli voltò le spalle e gli disse sconsolato: -Ti accorgerai!-
Seppe altro sul vecchio Barbabianca: era stato un poco di buono da giovane, era stato in prigione per omicidio, che un avvocato aveva fatto depennare in un eccesso di legittima difesa.
Era mal considerato da tutti e scendeva in paese solo per comprarsi il vino, di cui non poteva restare senza.
Era stato il più gran bevitore del paese, ma nessuno lo aveva visto barcollare.
Era alto e magro, era tutto nervi e rabbia: non si poteva contraddirlo né importunarlo, se non si voleva rischiare di essere colpiti dal suo bastone, che teneva sempre con sé.
Aveva posseduto solo quel pezzo di terra, dove nessuno osava entrarci.
Aveva avuto pure due cani, grossi e neri, più feroci di Lui.
Andrea sorrise incredulo e indifferente: non sarebbe stato certamente uno spettro a scacciarlo dalla sua proprietà.
Chiese: -Di cosa è morto?-
-Fu assassinato mentre difendeva il suo bosco dai saccheggiatori di legna.-
-Trovarono chi lo assassinò?-
-I sospetti caddero su tre giovinastri del borgo vicino, che furono rinvenuti cadaveri in fondo al burrone del diavolo, quella spaccatura della montagna, che si vede in fondo alla valle.-
-Ovviamente la gente avrà incolpato il defunto Barbabianca!-
-Qui si afferma che i tre fossero terrorizzati e pure la loro fine sia avvolta da fatti inspiegabili.-
Andrea non volle sentire altro: era certo che volessero intimidirlo per fargli svendere la baita con tutto quello che sta attorno.
Pensò: -Non sarò così sciocco da farmi spaventare da un branco di grossolani montanari!-
Se ne tornò a casa e non si preoccupò più della faccenda: si chiuse in casa e tenne a portata di mano il fucile carico.
Non capitò nulla sino a quando non incominciò, dopo il tramontare del sole, a udire dei passi pestare la neve o il fango: era certamente un omone, dal rumore che provocava.
Uscì più volte per vedere chi fosse: trovò solo le impronte di scarponi chiodati d’altri tempi e nient’altro.
Quella persecuzione proseguì per intere nottate: Andrea non dormiva più, all’alba era stanchissimo.
Tornò con il suo fucile a tracolla sino al bosco e provocò l’ira del presunto fantasma, spezzando alcuni rami secchi e si caricò sulle spalle in piena notte.
La solita voce tenebrosa e possente riprese ad accusarlo di essere un ladro.
Andrea sparò tutti i colpi che aveva in canna, sprecò le munizioni, ma non riuscì a capire dove fosse nascosto: in alto, in basso, vicino, oltre la cresta del monte.
Lasciò tutto lì, tranne il fucile, che brandiva come una clava, pronto a difendersi in un eventuale scontro ravvicinato.
La voce ripeteva: -Ladro! Ladro! Restituiscimi la legna, la baita, il mio bosco!-
-Qui, tutto è mio! Fatti vedere, se hai coraggio!-
Lui ebbe una sonora risata come risposta, che riempì la valletta.
Corse come un dannato verso la sua baita e vi si barricò dentro.
Non voleva cedere e gridò: -Fatti vedere, anima dannata!-
-Come vuoi tu!-
Gli apparve, oltre i vetri polverosi e affumicati della cucina, un essere altissimo, quasi gigantesco, di una figura longilinea non umana.
Andrea era terrorizzato, ma uscì agitando l'accetta come un forsennato, urlando: -Fatti sotto, mostro del diavolo, spettro ripugnante!-
L’essere era lunghissimo, sottile, dalle fattezze truci, deformate in smorfie ghignanti e dolorose: sorrise con i suoi denti bianchissimi che risaltavano sul volto pallido.
Andrea si arrestò e non ebbe più il coraggio di seguirlo mentre l’entità si dileguava tra i cespugli del torrente asciutto: si sciolse come un’ombra alla luce.
Andrea attese il sole alto per uscire dal suo nascondiglio, dentro la baita: era provato, angosciato,
ma non riusciva a provare terrore, l’emozione era stata troppo forte per permettergli di connettere e prendere una decisione sensata.
Corse dal parroco, che lo ascoltò con occhi perplessi: gli consigliò di farsi vedere da un medico.
Tornò dall’eremita, che gli sorrise compassionevole: -Vattene! Lascia tutto e torna in città.-
-Non posso! Non voglio!-
-Non hai alternative! Barbabianca non ti darà tregua sino a quando non ti avrà scacciato, oppure dovrai resistere per tutta la vita alle sue pretese. Ricordati di non aprirgli mai. Lui non può fare nulla se tu non lo lascerai entrare in casa: solo allora avrà la meglio.-
Andrea tornò alla baita e lì rimase: lavorava assiduamente sino al tramonto, poi si serrava in casa e lì era costretto a udire lo spettro che continuava a chiamarlo, lo provocava senza mai desistere.
Era già passato un mese e gli era sempre più difficile resistere al richiamo del morto.
Quella sera si lanciò fuori, urlando: -Vattene! Lasciami in pace, ritorna all’inferno!-
Lo spettro rimase immobile di fronte a Lui: sogghignava e gli chiese con un gesto di entrare.
Andrea acconsentì involontariamente: -Va dove desideri!-
Una volta dentro le urla del morto gli fecero male alle orecchie: -Ladro, rendimi ciò che è mio!-
-Scordatelo! Ora è solo mio! Tu non esisti più!-
Andrea impugnò un tizzone ardente e lo usò come arma contro lo spettro, che indietreggiò sino alla porta e fuggì, inseguito dai primi raggi di sole del mattino.
Andrea urlò: -Io l’ho rimandato da dove è venuto! Lo farò sapere a tutti!-
Uscì ansando, inciampando e rialzandosi più volte: era stravolto e il cuore batteva forte, troppo forte, fino ad incepparsi.
Lo ritrovarono lungo il sentiero che conduce al paese, esamine, con la bocca spalancata per l’ultimo tentativo di rubar l’aria al mondo.
I montanari che lo scorsero si tolsero il cappello: -Poveraccio! Questo è un’altra vittima di Barbabianca, quella maledetta anima dell’inferno!-


Arduino Rossi

Fantastico Racconto .... IL POSTINO ..racconto di Arduino Rossi









IL POSTINO


Era da mesi che il postino giungeva in ritardo: parecchia corrispondenza era fuori tempo di settimane, se non di mesi.
Non ne potevo più, ma come al solito le mie proteste, verbali o scritte che fossero, finivano nell’ammasso maledetto della burocrazia.
Il mio lavoro di consulente per clienti stranieri andava di male in peggio: ero il referente commerciale di alcune aziende che importavano ed esportavano pezzi meccanici, macchine utensili.
Rischiavo di finire sul lastrico, senza la possibilità di trovare un altro lavoro: ero troppo giovane per la pensione e troppo vecchio per ricominciare da capo.
L’ultimo mio cliente straniero mi dette il ben servito, consigliandomi di cambiare zona o anche città, per trovare un servizio postale più efficiente.
Ero disperato, non tanto per motivi economici, avevo un bel gruzzolo in banca, che mi sarebbe bastato per gli anni che mi mancavano al raggiungimento della pensione.
Il lavoro per me era stato tutto sino ad allora: avevo rinunciato al tempo libero, alle donne, a una famiglia, si può dire avevo scordato tutto per la mia professione.
Ora avevo tutto il tempo che potevo desiderare e non sapevo cosa fare.
Meditai vendetta e mi convinsi che il colpevole fosse il portalettere: un ometto sempre allegro, sempre sorridente: mi pareva, nella mia fantasia, un topo ghignante.
Ero certo, si era preso gioco di me, nonostante le mance, le preghiere, le minacce, mi portava sempre la posta in ritardo per farmi dispetto.
Mi derideva, con quella falsa riverenza, che mi disturbava: - Dottore! Non riceve più la corrispondenza di un tempo. Cosa è capitato? Non lavora più?-
Lo odiavo sempre più e lo avrei strozzato subito, se non avessi imparato da tempo a mantenere la calma e che la vendetta si gusta fredda.
Non lo vidi per un po’ di tempo, mi rinchiusi in casa a meditare cosa fare: l’alcool mi dette il coraggio e iniziai a pedinarlo.
Sicuramente si accorse del mio goffo modo di seguirlo, ma non protestò, convinto che ormai fossi impazzito.
Seppi tutto di lui, degli amici che frequentava, delle strade che percorreva, dei bar in cui entrava a bere.
Era solo un misero personaggio, piccolo piccolo, con una famigliola , meschina anche quella: era un padre affettuoso di due figli maschi che avevano un’unica ambizione, quella di diventare campioni di calcio.
La moglie, scialba e bruttina, puliva le scale dei condomini, Lui invece aveva qualche lavoretto in nero.
Mi immaginavo che con i suoi figli e con quella misera donnina si divertissero alle mie spalle: sognavo a occhi aperti risate a crepapelle nei miei confronti.
Giunse finalmente un gennaio gelido e nebbioso: le strade mattutine erano deserte e lo attesi vicino alla roggia, che scorreva impetuosa.
Lo colpii alle spalle e veloce lo gettai nell’acqua: non urlò e ci fu solo il tonfo sordo della caduta del corpo.
Me ne andai, certo della sua morte: attesi il quotidiano del giorno successivo, ma non c’era nulla di nuovo, nessuna notizia a riguardo della sparizione del postino.
Ero soddisfatto, senza rimorsi.
La mattina successiva non badai alla cassetta della posta e chi distribuisse la corrispondenza, ma per strada me lo trovai di fronte: -Buon giorno Dottore!-
Balbettai anch’io: -Salve!-
Me ne andai stupito e confuso: avevo assassinato un poveraccio che non aveva nulla a che vedere con il mio maledetto nemico, forse era il sostituto.
Che idiota ero stato, ma ormai non potevo più far nulla.
Non volevo farmi scoprire, ma dovevo capire chi avessi ucciso.
Il terzo giorno lo fermai quasi bruscamente: -Chi era a sostituirla all’inizio della settimana!-
-Che cosa vuole Dottore? Nessuno mi ha sostituito in questi giorni.-
Mi sorrise con la solita maligna aria canzonatoria: pareva volermi dire, ci siamo capiti, hai qualcosa da nascondere.
Sul giornale non c’era mai nulla, poi finalmente ci fu il laconico comunicato di poche righe del ritrovamento nella roggia, alla chiusa di fondo valle, dei resti di un uomo, forse un vagabondo, forse un suicida.
Non si parlava di altro, mi convinsi di aver colpito un poveraccio che si era messo accanto alla borsa del postino, forse per rubacchiare qualcosa o per curiosare.
Ero dispiaciuto per lui, ma il mio peggior nemico doveva pagarla: lo attesi ancora nella nebbia e tentai di colpirlo alle spalle, ma lui si voltò e mi sorrise:- Dottore! Cosa sta facendo? Mi voleva forse far del male?-
Era serio e rabbioso, io indietreggiai quasi spaventato, poi gli urlai il mio odio, lo maledissi e lui ridacchiò appena: - Per questo mi ha assassinato? Solo per questo?-
Non capii subito il senso della frase, poi pensai che fosse un folle.
Lui mi prese con una forza inaudita i polsi, inaspettata in un ometto di quella dimensione:- Vieni con me!-
Mi Trascinò verso la roggia, ma gli opposi tutta la mia volontà, poi mi accorsi dei suoi abiti bagnati, del viso esangue e le labbra viola, dei suoi occhi bianchi.
Mi accorsi che nessuno c’era attorno a noi, nonostante l’ora di punta per i pendolari: il tempo si era fermato e io ero già uno dei morti.
Mi lasciai condurre al mio giusto destino, in fondo all’acqua maleodorante e fredda, -E’ stato riconosciuto il corpo ritrovato giovedì: si tratta del postino Andrea Santi, mentre un nuovo cadavere è stato ripescato oggi, ma le generalità sono ancora sconosciute.-

Arduino Rossi

Racconto ....LA VOLPE... di Arduino Rossi










LA VOLPE

Ero un esperto cacciatore: mi dilettavo nell'inseguire le prede sin dentro le grotte.
Cacciavo volpi, tassi, lepri.
C'erano ancora rari orsi, lupi, cerbiatti, cervi, nella mia zona, tra le mie colline.
Io avevo con me un bracco dalle lunghe orecchie, furbo e fedele: mi precedeva e si infilava in ogni anfratto per scovare la selvaggina.
Ogni tanto tardava in qualche tana: lo sentivo abbaiare da dentro qualche cavità, poi tornava sempre con qualcosa in bocca: un ramo, un sasso.
Io attendevo che il cane scovasse qualche animale e sparavo, con buona mira, colpendo quasi
sempre al primo colpo la preda.
Un giorno autunnale, con il cielo color del piombo, si intrufolò in una fessura stretta e fangosa: lì rimase parecchio tempo.
Io lo chiamai con la voce e con il fischietto, ma non dava più segno di vita, solo dopo un po' udii abbaiare lontano: mi sembrava sin dentro il cuore della montagna.
Non riusciva più a uscire: dovevo salvarlo e mi arrapicai sin alla bocca del diavolo, una larga apertura posta nella parete liscia e umida.
Ero ancora agile, ma soprattutto ero determinato: il mio cane era l'unico amico che mi era rimasto.
Avevo litigato con tutti in paese: ero un vero attacca brighe, avevo un carattere impossibile.
La mia natura irascibile era peggiorata quando avevo capito che tutti mi erano nemici, da quando mi ero rifiutato di assecondare il Conte, un uomo arrogante, ricco e senza avversari.
Era il vero padrone di quel maledetto mucchio di case di sassi e malta.
Io non mi inchinavo davanti a nulla e a nessuno: fui minacciato, aggredito dagli scagnozzi del Conte, fui denuncito e costretto a difendermi in un tribunale.
Me la cavai con un occhio pesto e un taglio di striscio al braccio.
Ebbi una piccola ammenda per un insulto.
Impararono a rispettarmi a loro spese: arrivai a porre il mio coltello alla gola del Conte e gli urlai nelle orecchie: -La prossima volta che cercherai di farmi assassinare ti consiglio di farlo bene. Se i tuoi scagnozzi sbagliassero, mi ferissero solo, ti giuro che questa lama entrerà nella tua gola.-
Mi lasciarono in pace e io non provocai l'ira del Signore di tutte le terre fertili della vallata.
Sapevo che prima o poi me l'avrebbero fatto pagare: ero un condannato a morte con la possibilità dell'ultima passeggiata.
Il mio cane mi aveva salvato da trappole, mi aveva avvisato dell'avvicinarsi degli scagnozzi del
conte:aveva abbaiato come un forsennato e io avevo preso a scoppiettatequei bulli da osteria.
Quell'animale era troppo importante per me, non ne potevo farne a meno: era l'unico essere vivente di cui mi fidavo.
I miei parenti mi avevano rinnegato, maledetto: avevo un caratteraccio, non sopportavo di essere contraddetto, non accettavo regolamenti di una vita civile.
L'entrata della grotta era stretta e alta: per fortuna ero magro e mi infilai, scivolando come una biscia tra le viscere della montagna.
Avevo con me una torcia, che accesi, appena mi trovai in un'ampia cavità, conosciuta come il buco della volpe.
Si raccontano tante sciocchezze sulla volpe: è una bestia infernale, tutta rossa come il fuoco, furba come il diavolo, anzi il diavolo in persona.
I superstiziosi miei compatrioti restavano alla larga da quel luogo: tutti sapevano che c'erano profonde gallerie, ampie grotte, vasti spazi sotterranei: si narrava di tesori nascosti da briganti, da ricchi che temevano gli eserciti di passaggio.
Io mi ero intruffolato da ragazo, ma non avevo scoato né la volpe, né l'oro.
Mi stavo avvicinando al mio cane, che latrava sempre più debolmente.
Lo raggiunsi finalmente: era immobilizzato da una frana.
Fu facile liberarlo dai sassi: non era ferito, ma molto spaventato, capii che un terrore terribile lo aveva preso.
Era stato fin all'ollora un cane coraggioso, non lo avevo mai visto così: era stato spaventato da qualcosa di terribile, eppure aveva affrontato orsi e lupi.
Gli parlai con tenerezza: -Non preoccuparti. Sono qua, ti farò uscire da questo luogo fetido e gelido.-
Mi sentivo spiato da qualcuno o qualcosa: percepivo degli occhi invisibili che mi spiavano: erano
occhi malvagi, feroci, da belva che osserva la sua preda.
Mi affrettai a uscire, ma il timore mi prese e persi l'orientamento: mi ficcai in diverse vie a fondo chiuso, poi scivolai dentro un tunnel viscido.
Io e il mio povero cane finimmo in un luogo avvolto a un silenzio minaccioso: non si sentiva neppure il solito giocciolio.
Appoggiai la mia cara bestia al suolo, la accarezzai e gli sussurrai: - Non avere paura.-
Il mio cane non osava neppure latrire, sentivo solo un mugugno lieve e timido.
Riaccesi la torcia e la luce mi mostrò una vasta cavità, vuota e dalle pareti lisce come quelle di una sala di marmo.
Era perfettamente vuota, senza sbocchi, né entrate, né uscite tranne quella da cui provenivo, praticamente impraticabile per un'eventuale ritorno sui miei passi.
Non sapevo cosa fosse, ma la vidi: era un essere simile a una volpe,ma tutto fuoco vivo, che velocissimo si avvicinava e si allontanava.
Era la volpe?
L'ambiente e la solitudine favoriva le allucinazioni.
Non badai a quella visione e mi misi in cerca di un'uscita: toccai le pareti fino a quando mi accorsi che c'era una pietra che si muoveva, la spinsi e finalmente fui libero: c'era un lungo corridoio e in fondo una luce.
Mi sentii salvo,ma tra i miei piedi c'era la volpe, che miostacolava il cammino: cercai di liberarmi, ma era decisa a non farmi arrivare verso l'uscita.
Feci un salto e raggiunsi lo spazio libero, o così credetti: fuori non c'era il sole, ma una grande luna che illuminava la boscaglia ed era di una terra a me sconosciuta: forse era la patria del vento e della notte.
Tutto era assurdo e non volevo entrare in quella che per la mia gente era la patria delle ombre, della morte, dei morti.
Io mi sentivo vivo, ero certamente vivo.
Il mio cane si riprese rapidamente eimprovvisamente, iniziò ad abbaiare contro l'invisibile.
Oltre c'era qualcosa o qualcuno che mi attendeva, il mio cane non era uno sciocco e non abbaiava per nulla: aveva visto, percepiva qualcosa.
sapevo che, se avessi oltrepassato la soglia di quella valle, non sarei più tornato tra i vivi.
La volpe infuocata iniziò a mostrare i suoi denti, il suo ghigno feroce e percepii delle risate: erano di là che mi attendevano, ma non mi avevano ancora: io non mi sarei arreso senza combattere.
Presi il mio fucile e sparai contro il nulla che mi minacciava, contro la volpe: i colpi rimbombarono e si persero nell'eco, sino a sfumare distanti.
Colpii la volpe con il calcio del fucile, lottai come un forsennato, ma la bestia di fuoco non aveva forma, né consistenza: era solo un'allucinazione, maledetta e assurda.
Presi il guinzaglio del mio cane, determinato ad andarmene dal mio incubo: li mio fidato animale era scomparso e una possente mano mi afferrò la spalla destra.
Mi girai immediatamente, ma non scorsi nulla: era una forza invisibile, che mi trascinava nella valle delle ombre.
Alla fine li vidi: erano loro, tutti i miei compari di avventura, gli amici più cari, che preso da improvvisa codardia, avevo venduto ai gendarmi per l'impunità.
Erano stati tutti impiccati, ma prima di morire avevano giurato che si sarebbero vendicati: lascia cadere il fucile e sospinto dalle loro braccia, dal fuoco della volpe alle spalle, scivolai tra le ombre, nel dolore profondo ed eterno.

Arduino Rossi 

orrrore .. LA MESSA DEL PRETE racconto di Arduino Rossi









LA MESSA DEL PRETE

Ero sempre stato ostile alla religione, specialmente a quella costituita: odiavo riti, simboli, funzioni sacre.
Per me erano tutte sciocchezze e il mio spirito fermo, positivo, moderno disprezzava ogni formadi spiritualità: esisteva ciò che toccavo, vedevo, mangiavo.
Ogni uomo. secondo me, era il risultato di ciò che si metteva nella pancia: gli spiriti li vedevano chi mangiava poco, chi beveva troppo vino e grappa, chi era oscurato da idee superstiziose, ridicole, medioevali.
Avevo litigato con i parroci di campagna, con contadini colmi di idee fantasiose, contro tutti coloro che parlavano come sciocchi di angeli, di diavolo, di oltretomba.
Solo la luminosa scienza liberava la mente, apriva la strada della conoscenza, della verità.
Ero ormai anziano e da sempre ero un buontempone: non avevo mai lavorato veramente, mi ero accontentato di badare gli affari di famiglia, la gestione delle tenute di campagna, dei negozi, delle azioni delle banche.
Queste questioni mi avevano impegnato poche ore al giorno e pochi giorni della settimana, quando ero più giovane: ora avevo lasciato tutto in mano a un nipote fidato, onesto e leale.
Comunque sapevo le tentazioni erano tante: una volta alla settimana controllavo i libri mastri e verificavo le entrate e le uscite, non mi sfuggiva un centesimo.
Così mi potevo dedicare alla vita notturna da signore: trascorrevo il mio tempo al circolo degli ufficiali, a quello di cavalieri.
Giocavamo a carte, a scacchi: si beveva qualche liquore, si fumava un buon sigaro, di ottima qualità.
C'erano spesso delle discussioni a cui non partecipavo, tranne quando si dibatteva delle questioni religiose: perdevo la mia calma, insultavo, mandavo all'inferno.
Spesso finivo la serata al bordello, dove ero spesso ospitato sino a notte tarda: lì avevo amiche fedeli con cui parlare e ....giocare.
Uscivo quando il sole iniziava a violare la notte, con un limpido alone all'orizzonte.
Solo d'inverno il buio era pesto e mi affidavo alle luci dei lampioni, con le fiammelle tremolanti e fioche.
Lungo la mia via incontravo solo qualche cane randagio, i gatti in amore, le prostitute da strada che si offrivano ancora ai viandanti Spesso transitavo vicino a una chiesetta da tempo sconsacrata, in rovina, sempre chiusa.
Quella sera gelida di gennaio, con l'aria tagliente come una lama, il vento che sputava nevischio notai che la porta fosse socchiusa: c'era una fioca luce e si udiva il salmodiare di una voce tremolante da vecchio.
Sapevo che quella che era stata una chiesa con tanti fedeli un tempo, ma era stata mutata in un magazzino di un rigattiere, colmo di cianfrusaglie sino al soffitto.
Invece era tutto libero, con i banchi in fila, le lampade accese e le candele che splendevano sull'altare centrale.
C'era un prete molto anziano, quasi decrepito che pregava in latino: era avvolto dai paramenti sacri viola, come nei funerali o durante la quaresima.
Io entrai e mi sedetti all'ultimo posto, osservai quel prete con le sue movenze lente, i suoi gesti pacati: aveva le mani tremolanti, le dita sottili, scheletriche.
Si rivolse a me e mi chiese in latino di assistere alla sua Santa Messa: ero confuso e non risposi, me ne andai.
Trascorsi la giornata a letto, sempre più dubbioso: non avevo imprecato, bestemmiato.
Quel sacerdote alto, dai capelli lunghi e candidi, dal viso lungo e sottile, aveva qualcosa di sorprendente, incredibile.
La serata la trascorsi come al solito e uscii dal bordello alla chiusura e i liquori mi avevano fatto scordare il mio prete solitario e la sua Messa: non mi accorsi quasi della chiesa, ma la luce e il coro in latino di un'antico canto funebre mi costrinse a dar fede a quella maledetta cerimonia.
Si udiva il coro dietro l'altare, ma non si vedeva nessuno.
C'era il prete che orava: erano preghiere che avevo udito da ragazzo, quando mia mamma, di nascosto da mio padre, anticlericale convinto, mi portava in chiesa e mi faceva benedire da un vecchio frate, un Santo secondo la mia povera e bigotta mamma.
Crescendo l'influenza di mio padre ebbe il sopravvento: divenni libertino, sprezzante nei confronti della religione, dei buoni costumi.
Quel prete, sull'altare, continuava a rivolgersi a me e mi chiedeva risposte in latino, che, senza rendermi conto, uscirono dalla mia bocca balbettii, parole mozze: stavo seguendo una Messa e recitavo antiche parole.
Un amen mi riportò il silenzio e una voce mi disse di avvicinarsi verso l'altare: il prete aveva una grande croce e me la pose tra le mani, era pesante e dura.
Il sacerdote mi disse: -Va! Rinnega te stesso.-
Mi risveglia davanti al mio palazzo: ero al suolo, addormentato, svenuto, sicuramente malconcio per la sbronza.
Ero certo che fosse stato un sogno, ma le mie mani avevano strette tra le dita una piccola croce: la riconobbi perché era unica, era quella che avevo lasciato tra le mani a mia madre, prima di far serrare la bara.
Attesi con ansia la sera e corsi al circolo: erano tutti là per le solite partite.
Urlai: -Basta, stolti! La nostra ora prima o poi giungerà.-
Mi fissarono e mi dissero: -Hai già bevuto a quest'ora? Va a casa a dormire.-
-Tacete! Non sapete cosa vi accadrà se non vi pentirete.-
Fui scacciato dal circolo dai servi: mi ritrovai al suolo, assaporai la polvere della strada, ma non me ne importò.
Attesi la notte più scura e andai alla mia Santa Messa: risposi con decisione e partecipai al rito con attenzione.
Il prete mi sorrise e mi invitò a seguirlo: mi condusse sino al coro e lì mi sedetti, accanto c'erano le figure che si mostrarono nella penombra.
Anch'io partecipai al canto delle litanie e non me ne importò più nulla del mio passato.
-Il corpo del Conte Giacomini è stato ritrovato nella chiesetta sconsacrata della Santa Croce: non ci sono segni di ferite, si suppone che sia morto di morte naturale.
Tutta la città si è stupita del fatto che il Conte fosse abbracciato a una grande croce lignea, in una posizione disperata e in apparente prostrazione.
Forse il gentiluomo, prima di morire, aveva rinnegato un'esistenza di gozzoviglie e di ateismo dichiarato?-

Arduino Rossi

HORROR ....La guida ... racconto di Arduino Rossi












LA GUIDA

Era la mia prima passeggiata in montagna dopo anni, facevo fatica e sudavo abbondantemente: avevo un grosso zaino sulla schiena e faceva un caldo strano per quel autunno inoltrato.
Maledicevo la mia vecchia pigrizia, colpevole per il mio fiatone e il grasso accumulato.
Rimpiangevo la mia giovinezza, quando quel sentiero lo avrei percorso quasi correndo e mi accorgevo che non ero più quello di un tempo, non era solo per gli anni trascorsi, ma in particolare per il mio adagiarmi ad una vita monotona e ripetitiva.
Odiavo il mio lavoro e rimpiangevo, rimpiangevo……le occasioni perse, gli amici che avevo abbandonato, le speranze che avevo tradito.
La mia solitudine mi pesava non poco, ma era il dolore meno intenso: non capivo più il mondo e le nuove generazioni, non comprendevo quella maledetta fame di denaro, ma soprattutto quel voler primeggiare a tutti i costi, a spese degli altri.
Giunsi finalmente al castello: un edificio diroccato, circondato da sterpi e da fiori selvatici, forse era stato un antico fortilizio medioevale, forse una fattoria cinta da spesse mura.
Il panorama riempiva d’allegria: si vedeva tutta la vallata, con i paesi grigi e rossi lontani, le montagne già con la prima neve troppo bianca, mentre il verde dei boschi e dei prati circondavano la radura da dove il castello dominava.
Mi sedetti per riprendermi, provavo caldo e freddo allo stesso tempo, ero ansimante e non mi sentivo a mio agio: l'intuito mi stava segnalando un pericolo che si stava avvicinando.
Il sole stava calando dietro le montagne e regalava gli ultimi raggi ad una natura multicolore, vivace e pronta al cambiamento gelido dell’inverno.
Il cielo era limpido e due nuvole all’orizzonte si erano tinte di un rosa quasi innaturale, da quadretto di pittore dilettante.
Ero stanco e pensai che nessuno mi stava attendendo a casa, nessuno avrebbe notato la mia mancanza: decisi di restare a bivaccare lì.
Non c’era rischio di pioggia, ma l’umidità della notte mi avrebbe infastidito: sistemai alla meglio delle frasche e sopra posi delle foglie asciutte, dove collocai il mio sacco a pelo, adatto a proteggere in condizioni peggiori.
Accesi un fuoco per riscaldare il poco cibo che avevo con me: il rossore delle fiamme mi dava un po’ di calore e d’intima serenità, il silenzio della notte mi faceva ricordare il mio passato e gli amici di un tempo, specialmente quelli che non avevano mai superato la giovinezza.
Mi adagiai senza preoccuparmi troppo del fuoco e, dopo aver bevuto un paio di birre, sprofondai nel sonno del giusto, o se preferite, del duro e puro.
Non avevo mai rinnegato i miei ideali giovanili, la voglia di cambiare il mondo, fedele ai miei sogni dei venti anni, ma quel età così tumultuosa era finita da molto tempo.
Sentendomi ancora una forza della natura, ero diventato bianco di capelli prematuramente e le abitudini molli del impiegatino mi avevano trasformato in un debole: da giovane facevo paura per la grinta, ma il mio aspetto era cambiato in un placido signore di mezza età.
Non so che sogni feci, ma quando mi svegliai ero certamente lucido e con i cinque sensi ben attenti: qualcuno si era messo di fronte a me, dall’altra parte del fuoco, e mi fissava.
Stavo per dirgli di andarsene, che non volevo vicino estranei, quando mi parve di riconoscerlo, anzi ne fui certo: era Franchino, il mio amico morto in un incidente con la moto trentanni prima.
Sembrava che si stesse scaldando al fuoco con movimenti lenti, indifferente a me.
Gli chiesi: -Che fai qui?-
-Nulla! Sto solo cercando un po’ di calore!-
Era Lui sicuramente, pure la voce era la sua.
Cercai di capire qualcosa: -Dove ti trovi ora non c’è il riscaldamento?-
-Non t’immagini quanto freddo c’è!-
Non volli altri particolari, ma passai subito al pratico: -Desideri qualcosa?-
-…..solo un po’ di pace e il tuo aiuto!-
Mi drizzai dal mio giaciglio: -Che posso fare? Pregare?…-
-Questo è il minimo! Ho pure bisogno di una mano.
Sorpreso esclamai convinto: -Chiedi!-
-Qui c’è un tesoro, frutto di rapine e saccheggi da parte di una banda di briganti, due secoli fa.
Devi scavare e trovarlo, poi ti faremo sapere.-
Scomparve come nebbia al sole e mi rimase il dubbio se fosse stato un sogno, un’allucinazione o qualcosa di più intenso e reale, di misterioso.
All’alba mi levai prontamente, mi preparai una colazione veloce e me ne tornai sui miei passi velocemente, sino alla fine del sentiero, dove c’era la mia automobile.
Me ne tornai alla mia casa da scapolo solitario: ripresi le abitudini e mi impegnai in mille attività frenetiche per non pensare a ciò che mi era capitato.
La settimana trascorse veloce e non mi preoccupai più di nulla: mi buttai a capo fitto nel lavoro e feci pure parecchie ore di straordinario, di sera ero troppo stanco perché ricordassi il mio fantasma.
Solo il venerdì il fatto avvenuto al castello mi si ficcò con prepotenza nella mia mente: non mi rimase che indossare gli scarponi, procurarmi lo stretto necessario e partire per la montagna, in cerca di quell’allettante e fantomatico tesoro.
Era già notte quando arrivai al castello: mi sistemai alla meglio sotto una tettoia e mi coricai, nell'attesa di qualcosa di straordinario.
Non aspettai molto: Franchino apparve nella penombra, chiuso nelle sue spalle e il volto era seminascosto.
Mi disse: -Sento freddo!-
-Ti accendo subito un fuoco, anch’io sento l’umidità sin dentro le ossa.-
Parve che stesse meglio: -Grazie per il calore che mi offri! Noi abbiamo sempre bisogno di tepore e premure.-
Passai subito al dunque: -Dove è questo tesoro?-
-Hai fretta? Calmati, parliamo invece dei tuoi progetti.-
-Con la mia parte non lavorerò più: andrò in un paese lontano, tropicale e farò il fannullone sulla spiaggia con qualche bellezza locale.-
Sorrise: -Secondo il tuo parere sarei tornato apposta per farti avere questo? Sei pazzo! Mi dispiace, ma queste ricchezze sono sporche di sangue e si possono spendere solo in beneficenza.-
-Ero certo, che mi avresti fregato! Lo hai sempre fatto, anche quando eri vivo.-
-Non prendertela, la vita è strana e ciò che sembra buono alla fine è velenoso. Dovresti saperlo ormai!-
Non ero felice, mi sentivo ingannato, truffato: -Ti voglio seguire, ma che cosa ci guadagno?-
-Hai l’occasione d’essere generoso e avrai il tuo premio!-
Me ne tornai a casa e mi chiusi nella mia camera, mi detti malato e per una settimana bevvi birra, vino, grappa, non mangiai e pensai a cosa fare: decisi di assecondare il mio amico fantasma, anche per vedere questo tesoro.
Lo attesi quasi tutta la notte, ero sveglio e in piedi, appoggiato al muro di cinta del castello, tra ortiche e rovi.
Era quasi l’alba quando apparve: -Ti sei deciso? In ogni modo non avevi alternative: per il tuo bene questa è la scelta migliore.-
Mi indicò dove scavare e sparì.
Io avevo con me un piccone e un badile: con foga cercai, ruppi, feci un largo e profondo buco, ma nulla c’era.
Temetti che fosse uno scherzo, o che avessi le allucinazioni e fossi impazzito.
Dopo otto ore giunsi al baule: era di bronzo per resistere all’umidità del terreno.
Feci molta fatica per liberare il coperchio da tutto il materiale, ma riuscii a forzarlo.
Dentro c’era uno splendore di gemme e oro abbagliante.
I secoli non avevano reso opachi tutti quei preziosi: io provai il desiderio di non mantenere la parola data.
Mi impossessai di ciò che potevo far stare nella mia sacca, celai sotto degli sterpi e foglie secche il baule con il resto dei gioielli.
La notte calò rapida e sul sentiero vidi il mio amico, che mi stava aspettando ad un bivio: -Ricordati della promessa: non puoi ingannarmi.-
-Quali vantaggi avrò se ti accontenterò?-
-Tantissimi, sciocco…-
Non tornai a casa e versai l’intero “bottino” in una banca, poi rifeci il percorso tre volte sino al castello: era una ricchezza immensa, da miliardario.
Era un vero peccato dare tutto in beneficenza, ma non avevo alternative: non potevo contrastare la volontà dell’Oltretomba.
Era più per paura che per amore che cedevo alla forza dell’Aldilà, ma non potevo rischiare terribili conseguenze da morto.
Non ero religioso, non frequentavo la parrocchia, ma davanti ad un fatto simile chinai il capo.
Il patrimonio era tale che avrei dovuto seguire le donazioni personalmente per anni: decisi di licenziarmi e creare una società con tanto d’ufficio, d’archivio e segretaria.
Ero solo il gestore di tutto quel ben di Dio: ogni tanto salivo al castello e prendevo un po’ d’oro, facevo due chiacchiere con Franchino e ricominciavo ad aiutare i poveri, i malati, gli orfani.
Tutto andava bene, ma la tentazione era forte e una volta cedetti: m’impossessai di un po’ di gemme e le usai per sedurre alcune ragazze, disponibili e sensibili a certe lusinghe.
Franchino entrò nei miei sogni: -Devi restituire ciò che hai rubato!-
Poi mi perseguitò anche di giorno, con la sua presenza malinconica e silenziosa, costringendomi a cedere, a ripagare il mio furto poco alla volta.
Ora mi sento realizzato, soddisfatto e tranquillo: sono vecchio, malato e mi manca poco a morire.
Non temo il trapasso, perché ho un amico come Franchino.
Non mi rimane che scoprire se la mia guida ha affermato sempre la verità: mi auguro che non mi abbia ingannato.

Arduino Rossi

Star Trek - La serie classica, online Enterprise e un Doodle tutto spaziale

Enterprise è ancora in viaggio alla scoperta di nuovi mondi?
Pare proprio di sì, non si fermerà mai il desiderio umano di conoscere, scoprire e sapere, capire.
La fiaba mitica di Star Trek, posta in un futuro immaginario, improbabile nella dimensione che noi conosciamo, fantascientifica e quindi ingenua, si rivolge a un pubblico giovane, nel senso non solo anagrafico, ma di gente capace di sognare.
Questo non è un difetto, ma un pregio, perché senza i sogni non avremmo un futuro e non saremmo mai sbarcati sulla luna, non avremmo mai scoperto l'America o inviato sonde nello spazio.
Saremmo tutti nei nostri villaggi primitivi a mangiare bacche selvatiche.
Quindi sognate i viaggi spaziali, anche se non sono a portata di mano e li godranno i nostri nipoti e pronipoti: noi abbiamo la fiaba, loro avranno la fatica e la noia di mesi, di anni di viaggi tra pianeti e forse tra le stelle.