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12 set 2012

maledette storie .. IL PONTE TRA LE SPINE










IL PONTE TRA LE SPINE

La vecchietta si sedette accanto al camino, attizzò il fuoco, si sfregò le mani e finalmente cominciò: -La povera Maria era molto buona e in paese tutti la stimavano! La sua sfortuna fu di non avere la dote, essendo di una famiglia molto povera.
Giovanni fu l'unico a chiederla in sposa e i genitori di lei acconsentirono.
Ella andò ad abitare con il marito nella cascina vicino al ponte, sul sentiero che da Santa Brigida porta a Valtorta, poco distante dalla desolata boscaglia del Sac.
Noi, le sue amiche, salivamo da lei per confortarla e consigliarla:
-Cara Maria, dovresti chiedere aiuto ai tuoi fratelli! Quest'uomo ti picchia senza ragione tutti i giorni e, così giovane, stai già sfiorendo.-
-Io non voglio che i miei parenti sappiano quello che accade a casa mia, poi essi non potrebbero fare nulla per me!-
Il marito si ubriacava tutte le sere; non lavorava e quel po' di beni, che aveva ereditato, li dissipava giorno dopo giorno.
Alla sera rientrando, passava sotto l'orrido del Sac; gli spettri che infestavano quel luogo lo chiamavano: -Vieni, Giovanni, con noi: questa sarà la tua casa!-
Egli bestemmiava e scagliava pietre contro di loro.
Alla cascina pretendeva di essere servito subito e mai una volta che fosse soddisfatto.
-Io ti ho sposata perché mi accontenti in tutto, ma tu non ne fai una giusta!-
La poveretta si scusava e lo scongiurava, ma veniva sempre bastonata crudelmente.
Là, al Sac, gli spiriti osservavano divertiti e lo incitavano a continuare.
Questi sono gli stessi esseri che escono nella notte dalle loro cavità e vanno dai cristiani per istigarli al peccato, o per mutare i loro sogni in incubi.
I sacerdoti più coraggiosi di Santa Brigida avevano tentato inutilmente di scacciarli dai loro anfratti, benedicendo quella selva intricata; quegli spiriti si consideravano a casa loro, tra quelle rocce frastagliate, immerse nelle sterpaglie sterili, dove le cornacchie e le civette fanno il nido.
Giovanni ritornava sempre più tardi alla sera e ormai picchiava selvaggiamente la moglie senza alcun pretesto.
Si era ingobbito e si esprimeva con versi quasi animaleschi.
Non temeva più i diavoli del Sac, anzi solo con loro si sentiva a suo agio e di ritorno dall'osteria sostava sino a notte tarda nella boscaglia, in compagnia delle anime dannate.
Il suo animo diveniva sempre più violento: litigava con tutti e partecipava a tutte le risse.
L'oste fu costretto a negargli il vino e la gente del paese, stanca delle sue angherie, lo scacciò.
Giovanni in astinenza fu più brutale di quando era ubriaco: salì alla cascina e si infuriò contro Maria.
La colpì con tutta la cattiveria di cui era capace, ma ella per la prima volta si ribellò: -Tu non sei un uomo, sei un diavolo: Torna dai tuoi amici dannati e lasciami in pace!-
Si difese scagliandogli contro tutto quello che riuscì a impugnare: lottò con disperazione e il marito la sopraffece a fatica. La martoriò con calci e con pugni, sino a farle perdere i sensi.
Smise solo quando fu sfinito, ma era intenzionato a farla a pezzi, se un'idea peggiore non gli fosse balenata nella mente allucinata: ansante per la sua follia di vendetta, egli la legò molto stretta con una corda nodosa e attese che rinvenisse.
Poi la trascinò sino al ponte, per dare a tutti prova della sua orrenda ferocia.
In quel momento una folata gelida uscì dalle cavità del Sac e gli tolse anche gli ultimi barlumi di ragione: egli appiccò il fuoco a un fascio di sterpaglie e le gettò sulla moglie.
Ella gridò, si divincolò tra atroci dolori; Giovanni la coprì di fogliame e di arbusti secchi per rinvigorire le fiamme.
Le urla della disgraziata si affievolirono tra lo scoppiettare delle cortecce umide.
Ella ormai non provava più alcun dolore e la sua immagine, finalmente serena, si consumava lentamente.
Per pochi minuti Giovanni ebbe coscienza del suo crimine: urlò il nome della moglie, quasi non credesse all'orrore compiuto.
Poi sfogò la sua rabbia angosciata in un turpiloquio sconnesso.
Frantumò, spezzò tutto ciò che trovò nella cascina; si ferì, ma non provò dolore.
Ormai era divenuto un povero demente e fuggì nei boschi, per non tornare più tra gli uomini.
Fu scorto vicino alle baite dei pastori e cercava tra l'immondizia qualcosa da mangiare, con gli abiti a brandelli e il viso coperto di cicatrici.
Da quel giorno, dopo i rintocchi dell'Angelus, su quel ponte fu visto il fantasma della donna aggirarsi, supplicando i viandanti ritardatari di aver pietà di lei.
La sventurata si mostrava piangente, con lo sguardo smarrito e il pallore lunare sul volto.
La sua voce era così leggera da confondersi con i fruscii della notte e un ricordo sfuocato rimaneva di lei.
I rovi crebbero attorno al ponte e si infittirono sempre più.
Fu inutile tagliarli o sradicarli, perché infoltivano maggiormente e avvolsero tutto il ponte, che fu denominato maledetto e più nessuno costruì la sua casa nelle vicinanze.-

La vecchietta concluse così e mi sorrise: aveva intuito che il cittadino incredulo era persuaso della verità del suo racconto.

Racconto di Arduino

zombie .... ESILIATO DAL CIMITERO













ESILIATO DAL CIMITERO

La signora Severina aveva sofferto molto durante la vita, ma si era conservata gioiosa come una ragazza: scherzava con me e il suo grosso corpo sussultava per le sue risate squillanti.
Però un giorno richiesi di raccontarmi una leggenda del paese, beffando l'ingenuità dei montanari; ella si offese e mi disse:
-I nostri vecchi vedevano veramente gli spiriti e non bisogna deridere la loro buona fede!-
La donnona si accomodò sullo sgabello e mi scrutò, poi mi narrò questa storia con espressione assorta: -Quando mio padre era giovane in paese, a Santa Brigida, c'era Michele, un eretico: non andava mai alla Santa Messa e alla dottrina; sparlava dei preti e dei Santi, si vantava delle sue bravate.
Insomma disprezzava la religione e i suoi santi simboli: bestemmiava furente tutte le volte che incontrava quel buonuomo
del parroco, che scuoteva il capo sconfortato e allungava il passo, fingendo di non udirlo.
Dal pulpito avvisava i fedeli del pericolo di aver in paese un miscredente di quella razza e invitava a pregare il Signore con più devozione.
Le punizioni del Cielo non si fecero attendere e colpirono l'intero paese: i raccolti vennero danneggiati, il bestiame si ammalò e la fame entrò in molte case.
Michele non si preoccupava della carestia, perché racimolava sempre qualcosa per vivere: era un esperto erborista e praticava la negromanzia a pagamento.
In alcune situazioni i montanari avevano bisogno della sua esperienza per gli ammalati, perché le prestazioni del farmacista erano troppo costose e poco efficaci.
La maggioranza della gente si accontentava di qualche intruglio contro il malocchio e le malattie, ma qualcuno perfido gli chiedeva anche fatture maligne.
In quegli anni in paese ci furono alcune morti misteriose: giovani nel pieno delle forze e bambini vivaci morirono improvvisamente.
L'eretico era un gran bevitore e trascorreva quasi tutta la giornata all'osteria.
Era circuita da una masnada di perditempo e li divertiva coi suoi sarcastici racconti: insinuava le più ingiuste calunnie nei confronti dei benefattori del paese e la sua volgarità non risparmiava le virtù delle donne per bene.
Durante una sbornia cadde agonizzante.
Il parroco fu avvisato prontamente e sperò di far ravvedere quell'anima nera: gli parlò con dolcezza e gli preannunciò la dannazione sicura se non si fosse pentito.
Michele in coma non rispose: fissava l'ostensorio quasi incantato.
Già la gente stava gridando al miracolo e si stava inginocchiando commossa, quando quel diavolo di eretico volle essere coerente sino alla fine alla sua personalità perversa: riprese colore e l'astio gli ridette la forza da spaventare il timido prete, che fuggì con gli oggetti sacri stretti fra le braccia.
Il moribondo maledisse l'intero paese e la sua onestà: stremato da quell'ultima sfuriata si spense con ghigno diabolico, rantolando e irrigidendosi nello sforzo dell'ultimo respiro.
Nonostante tutto, il parroco gli concesse un funerale cristiano e nella sua omelia parlò del perdono e disse: -Non giudicate!-
Il morto fu deposto nella terra consacrata.
Tutti protestarono per quel sacrilegio: un negromante non poteva essere sepolto accanto alle persone timorate di Dio.
Nella notte il suo cadavere fu visto camminare tra le tombe.
Pareva un misero demente: sbandava tra le lapidi, cercando un varco nel muro di cinta, o disperato allungava le braccia fuori dal cancello, invocando aiuto.
I primi testimoni non furono creduti, perché erano due ubriaconi, in seguito altre credibili persone videro l'eretico tentare di scavalcare il cancello; con una smorfia di dolore, egli lanciava angosciati lamenti.
Perché - spiegò Severina - i dannati sepolti in terra consacrata subiscono all'Inferno doppi tormenti e cercano di far traslare le loro salme fuori dal recinto sacro.
Il parroco benedì invano il cadavere, ma continuarono le fughe notturne del negromante.
Contro quel genere di peccatore un povero prete di montagna, nonostante le sue preghiere esorcistiche, era impotente.
Allora si chiuse a riflettere in canonica, camminando avanti e indietro, come un orso in gabbia, sfiduciato perché non sapeva riportare la tranquillità in paese.
Finalmente un vescovo esperto di esorcismi, abituato a tutti quegli orrori, giunse dalla città.
Affrontò risoluto il morto e gli si avvicinò a pochi metri: gli ordinò di rientrare nella fossa e di non disturbare i buoni cristiani.
Grazie a Dio, l'eretico si sottomise a quell'uomo della chiesa e da allora non si fece più sentire.
Il mattino dopo suonarono le campane a festa e tutti i compaesani
si riunirono alla Messa prima per ascoltare la predica di quel vescovo così severo e solenne.-
Quando ella ebbe terminato io fui rapito dalla sua ferma convinzione e rabbrividii: la mia incredulità era stata sconfitta.

racconto di Arduino Rossi

storie di fantasmi ... IL POZZO DI SAN PATRIZIO













IL POZZO DI SAN PATRIZIO

I pagani avevano mantenuto per molti anni, dopo il trionfo del cristianesimo, un cimitero, dove conservavano, in modo celato, i loro riti da idolatri.
Quando anche l'ultimo seguace delle divinità degli inferi si convertì alla giusta fede, quel luogo rimase abbandonato nella selva: solo gli animali rapaci si nascondevano tra le rovine delle tombe, tra le lapidi spezzate.
Fu presa la decisione di raggruppare tutti quei sarcofagi e gettarli in una cavità profondissima, in modo da non permettere agli adoratori di Satana di cantare qualche messa nera.
Di quella cavità, posta sopra una collinetta, nessuno vi fece caso sino a quando, da quella vasta voragine, non uscirono gli spettri in cerca di vendetta e con tanto rancore contro i cristiani.
Era sempre di notte: apparivano sulle ali di luce opaca, volavano fuori dalla cavità come zanzare dal nido e salivano, spalancando le loro fauci tremende, assetati di sangue e vita umana.
Erano esseri tenebrosi che bussavano alle porte delle case, cercando di insinuarsi nelle abitazioni delle persone per bene,portando odio, rancore, terrore, confusione nel cuore.
Fu presa la giusta decisione di coprire quell'apertura con un enorme macigno, trascinato da tutto il paese con corde e tronchi.
Con la chiusura della cavità la gente non si sentiva ancora tranquilla: fu costruito un santuario, sopra la collinetta, per mettere a guardia del luogo un Santo.
Fu prescelto San Patrizio, perché sarebbe stato il più adatto a impedire la fuga delle anime in pena: si temeva che dal pozzo, necessario per dare acqua al santuario, uscissero ancora i dannati.
Il luogo fu chiamato: la collina del pozzo di San Patrizio.
Non si ebbero miracoli come quelli che fece il Santo in Irlanda, sconfiggendo le carestie, facendo sgorgare l'abbondanza dal suo pozzo benedetto.
Comunque non ci furono più spettri che infastidirono le anime vive e fu sufficiente ringraziare il Santo con una solenne processione una volta all'anno.
Dal paese salivano i paesani sino alla collinetta, dove si ergeva il bel luogo sacro, con le sue arcate costruite sulla roccia.
Il rustico edificio romanico era stato abbellito da arcate e da una statua del Santo, dominante la vallata.
C'era sempre un'aria macabra alla sera attorno al luogo e la gente la evitava, temendo di incontrare qualche anima morta: il timore dei defunti è duro da sconfiggere tra i valligiani,nonostante l'aiuto del Cielo.
La tradizionale devozione verso il Santo affievolì nei secoli e la gente abbandonò il santuario al suo destino: per anni rimase disabitato e cadde in rovina, poi un vagabondo si rifugiò.
Il tetto era in parte crollato, la canonica accanto non aveva più porte né finestre, ma la chiesa resisteva ancora alle intemperie, al potente vento della valle, ai saccheggiatori occasionali.
L'ospite della chiesa di San Patrizio era un giovane un po' troppo magro per essere un eroe, forse anche un po' pazzo, ma certamente dal carattere audace.
Non erano certamente gli spettri a intimidirlo e, indifferente alle dicerie, andava nella cripta, dove c'era il pozzo, e lì dormiva.
Il brusio che si udiva alla bocca del pozzo lo infastidiva e, curioso, volle calarsi per capire di cosa si trattasse: non trovò nulla, se non una grande cavità che parve così immensa da non poter scovare il fondo.
Eppure il vociare lo aveva sentito chiaramente: forse era provocato da correnti d'aria sotterranea, o il flusso di aria calda che saliva e fredda che scendeva.
Forse era l'acqua che scorreva nel fondo.
Non gli rimase che risalire per quella volta, ma i paesani lo sconsigliarono di proseguire nelle sue ricerche: erano certi che quella grotta fosse l'anticamera dell'inferno.
Il vagabondo non volle ascoltar ragione e si arrischiò ancora, non tornando più.
Nei decenni altri giovani e meno giovani scomparvero dentro il pozzo di San Patrizio: un povero mentecatto, un cercatore di tesori, un archeologo, etc.
Nel paese non si trovò una squadra di volontari che potesse esplorare la cavità: c'erano sempre delle scusanti per non scendere in quella "bocca dell'inferno", come era stata ribattezzata.
Era inutile calarsi perché troppo stretto, perché pieno d'acqua.
In realtà non c'era motivo se non nel timore superstizioso: la gente credeva alle leggende dei loro padri e sapevano che prima o poi avrebbero visto la morte uscire da quel pozzo.
Un tempo gli anziani raccontavano che le pestilenze, la carestia, gli insetti dannosi alle messi provenivano da quel luogo.
Le sparizioni proseguirono: questa volta fu il turno dei ragazzini in cerca di avventura, di altri vagabondi, di fuggiaschi ricercati dalla giustizia, di innamorati decisi a farla finita.
Un vecchio continuava a ripetere: -Vedrete che torneranno tutti! Torneranno e allora piangeremo!-
Gli anni si sommavano a gli anni e degli scomparsi pure il ricordo svaniva: solo un elenco di nomi rimaneva nell'archivio della chiesa, anche quello sbiadito e ingiallito.
Cosa provocò la fine della protezione del Santo?
Chi tolse il sigillo alla bocca del pozzo?
Non lo si sa!
Si sospetta lo scherzo di cattivo gusto di qualche buontempone, o un collezionista di antichità, che scoprì la dicitura in latino, o semplicemente qualche ragazzotto un po' sciocco quanto incosciente.
Da quella notte a San Patrizio fu impossibile transitare dopo il tramonto senza imbattersi in morti che camminavano, in processioni di cadaveri, in larve dagli occhi di fuoco, assetate di sangue, dalla rabbia secolare compressa nelle membra scheletriche.
Fermare quella folla di dannati fuggiti dall'inferno era ormai impossibile: mancavano gli uomini coraggiosi, la fede era fiacca e la morte avanzava sulla terra, coprendo la vallata con un incubo della peggiore fantasia malata.
La piaga si dilatava come una malattia medioevale risorta ai giorni nostri: non era possibile credere a quei fatti, ogni persona di buon senso rideva delle paure dei montanari.
La valle fu scordata e con essa la bocca dell'inferno, posta nel santuario di San Patrizio, che avrebbe arrestato la morte se gli uomini si fossero ricordati di lui e del suo pozzo.
La luna ora illumina le ombre nella vallata e lo spettacolo delle tenebre si confondono con le anime che si celano nei boschi, con
i loro occhi tristissimi, la solitudine infinita della notte, il gelo del buio perpetuo.
L'immane potenza della natura selvatica e invincibile sovrasta il destino degli uomini senza meta.

racconto di Arduino Rossi

NOTIZIE NEWS ...... LO SCRITTORE




Del mio primo giorno di lavoro all'E.S.B.Z.A., ENTE di SOCCORSO e di BONIFICA delle ZONE ALLUVIONATE, ricordo, come fosse oggi, l'espressione bonaria del Ragioniere Morandi nello spiegarmi l'attività dell'ufficio: -E' stato istituto nel 1883, per effetto del Regio Decreto n.1318, per regolamentare i soccorsi e le sovvenzioni governative!-
La sua pacata formalità nascondeva un certo disappunto e io interpretai il suo pensiero: -E chi me l'ha mandato questo! Non conosce neppure la funzione dell'Ente!-
Imparai presto dal Ragioniere le principali regole del quieto vivere e del buon impiegato: -La prima cosa che esige il Direttore, Dottor Cattaneo, è la puntualità! Poi, un consiglio che ti do in confidenza, non sopporta le chiacchiere, specialmente nei corridoi. Il nostro è un ufficio aperto al pubblico e bisogna mantenere un certo contegno!-
Egli mi allettò subito con previsioni di carriera, convinto che soltanto chi lavora ed è abile può migliorare.
In quello aveva perfettamente ragione, perché solo i non
raccomandati faticavano per la carriera, gli altri iniziavano con già il massimo livello possibile per le loro capacità e per i loro meriti.
Io, Rodari Angelo, di "Santi in Paradiso" non ne avevo ed ero stato assunto per un colpo di fortuna.
Non dovevo favori a nessuno e ne ero orgoglioso, ma tra i colleghi nessuno mi stimava: per loro, una persona più aveva un potente protettore e più era importante.
Del loro vanto per posizioni non meritate non mi curavo e inoltre quel tipo di carriera non mi interessava, forse perché ero troppo presuntuoso e poco pratico.
Non ridevo alle insulse barzellette del Direttore, non lo ossequiavo servizievole: venni addetto all'archivio.
Per i miei colleghi era l'ultimo dei lavori, perché uno si sporcava le mani di polvere.
Io ero in realtà felice di questa incombenza, che impegnava tutta la mia abilità coordinativa e perfezionava il mio scarso senso dell'ordine.
Secondo gli psicologi, quasi tutto ciò che ci capita è voluto inconsciamente da noi: tutti i casi della vita hanno le loro motivazioni.
Io non ho mai creduto a una cattiva coscienza che causi tutti i nostri guai, ma se questo fosse vero un complesso di colpa è sicuramente il responsabile del mio interesse per gli archivi: soffro infatti di una brutta allergia alla polvere.
Possiedo un'anima da topo di biblioteca.
Con le mani irritate dalla polvere, accumulata in anni sugli scaffali, rovistavo in cerca di documenti e di mappe di valore storico.
Sfortunatamente l'Ente pro-alluvionati non ha nulla di interessante: abbiamo parecchio vecchiume, però gli odierni incartamenti sono compilati nel rispetto scrupoloso dello stesso stile fin dalla fondazione e solo le date differenziano l'antico dal moderno.
Silvia, la collega della stanza accanto, mi aveva richiesto
questi vecchi fogli: -Basta cambiare la data e risparmiamo ore di lavoro!-
Io rifiutai seccato e risposi che era vergognoso presentare una pratica ufficiale del 1889 e mutarla in una del 1989, aggiungendo alle cifre qualche zero per l'inflazione.
A sopraintendere il mio lavoro c'era il Geometra De Giovanni, gran chiacchierone e uomo dalla figura mastodontica, una vera rovina per lo sprovveduto che lo invitava al ristorante.
All'inizio lo temevo, mi fermava per i corridoi e mi avvisava preoccupato: -E' arrivato qualcosa che la riguarda! Venga nel mio ufficio che ne parliamo!-
Io andavo spaventato: non si sa mai cosa può capitare in un Ente Pubblico, un errore può finire come nulla in un provvedimento disciplinare.
Nello studio di De Giovanni il caos toccava il culmine: da lui non si ritrovava mai nulla di quanto occorresse.

La scrivania era coperta di pratiche e di riviste, alcune erano di genere pornografico: all'arrivo di qualcuno, egli si affrettava a nasconderle.
Con mio stupore le carte che mi riguardavano le rinveniva quasi subito e con esse ricomparivano parti di importanti procedimenti, accantonati perché incompleti.
-Guarda dove erano finiti! Si cerca, si cerca e li abbiamo sotto il naso! Ora parliamo della sua questione!-
Una qualsiasi sciocchezza era trasformata dal Geometra, Direttore Aggiunto, in un assillante problema: -Capisce! Bisogna rispondere con la massima urgenza a Roma!-
Col tempo imparai a considerare la Direzione Generale di Roma simile ad un drago cinese: insaziabile mostro, divoratore di enormi quantità di verbali, avvisi e solleciti.
Una brutta mattina entrai in ufficio, puntuale come al solito e percepii immediatamente un atteggiamento di ostilità contro di me, da parte dei miei colleghi.
La mia presenza li fece zittire e un'aria da tempesta aleggiò sopra la mia testa.
Qualcuno, al quale ero antipatico, mi salutò per la prima volta con ironia.
Silvia mi chiamò: -Il Dottor Cattaneo ti vuole immediatamente nel suo studio!-
Le mie gambe tremavano, sudavo senza essere accaldato e brividi febbrili mi attraversarono la schiena.
Ella mi pose una mano sulla spalla e mi costrinse a guardarla negli occhi: -Ma Bravo, da te ci si può aspettare di tutto!-
Fu l'ultima botta, ora qualsiasi cattiva notizia non avrebbe  causato un effetto peggiore.
Io amavo Silvia, con quella esasperata passione che allora caratterizzava ogni mio interesse.
Il mio sentimento si infrangeva contro incomprensioni e si disperdeva in goffi tentativi di corteggiamento.
Io ero più morto che vivo e il Direttore mi fece sedere, sospirando alcune volte rammaricato, poi spiegò la questione: -Da Roma è pervenuta una grave nota disciplinare nei suoi confronti!-
In sostanza una ditta aveva ricevuto il 10% in più del dovuto, perché non era stata valutata la sottrazione fiscale dell'ultimo Decreto Legge.
Io ero solo l'esecutore, le precisazioni sul caso le avevo
chieste direttamente al Direttore.
Ora mi consideravano l'unico responsabile, con il sospetto avallato dalla Commissione Disciplinare di "interesse privata in atti d'ufficio".
Il Dottor Cattaneo mi sorrise e mi accompagnò alla porta: -Vedrai che si aggiusterà in bene!-
Invece la vicenda prese subito la piega sbagliata e i miei
colleghi non persero tempo a chiudermi in un cerchio di
disprezzo, senza avere dubbi.
Il loro silenzio mi accusava più di qualsiasi biasimo: parlavo già con poche persone, essendo un po' misantropo e così ne soffrii poco.
Silvia replicò alle mie lamentele: -Ognuno ha quello che si merita! In fondo l'hai voluto tu. Sapevi che qui fanno cadere sugli altri le proprie responsabilità e tu hai lasciato che ti mettessero in trappola!-
Ella era l'unica che riconosceva la mia innocenza e mi
rinfacciava di essere un ingenuo.
Ero esasperato, volevo chiudere con le "cartacce" e con gli apatici miei colleghi.
Non avevo prospettive, ma l'idea di avere un avvenire incerto tanto mi spaventava quanto mi esaltava: l'ufficio era stato la tomba dei miei sogni di viaggi in paesi lontani e affascinanti.
Ora tutto nella mia mente era tornato possibile: avventure e anche disgrazie mi sarebbero capitate nel futuro, ma non un destino da impiegatuccio.
Ero appena rinato e stavo immaginando viaggi in India, percependo già i suoi "profumi", quando ricevetti un telegramma da parte della casa editrice "Alfiere Nero".
Inseguendo i miei sogni di successo, nei quali non credevo molto, le avevo spedito, poi dimenticandolo, un mio racconto ed essa mi invitava a un colloquio nella propria sede.
La fantasia era diventata realtà, un nuovo mondo colorato si spalancava davanti a me.
Con la gioia che mi scoppiava dentro non rimasi in casa, avevo bisogno di uscire e parlare da solo ad alta voce, come un pazzo: -Hai visto Angelo! Sei riuscito nei tuoi intenti! Cinque anni di ufficio sono finalmente conclusi, basta con l'obbedienza e con la paura nei capi!-
La gente mi guardava allibita, ma nella mia esuberanza nulla mi importava.
Telefonai a Silvia: -Ciao! Fra tante brutte notizie finalmente una buona! Vedrai che riuscirò a fare strada!-
Lei smorzò ogni mio entusiasmo, poi non si limitò alle solite parole di disappunto: -Io no ho mai dubitato delle tue capacità: ora rimani calmo e non crederti un genio! Non fantasticare! Se funzionerà sarà meglio per te!-
La sua freddezza mi riportava sempre in un angusto realismo.
Ormai ero già un po' deluso: telefonai ugualmente al capo
redattore di "Alfiere Nero".
-D'accordo! Giovedì alle 16, sarò puntuale!-
Sul treno il mio piccolo sogno si dissolveva, a mano a mano che mi avvicinavo.
Il puzzo della periferia industriale mi preannunciava quel
panorama privo di brio dei grandi edifici di pochi anni e già coperti di fuliggine, delle insegne pubblicitarie, delle lunghe recenti fabbriche e di vecchie fonderie abbandonate.
Nessuno è totalmente padrone dei suoi pensieri e quell'amaro sapore che ha la realtà divenne sostanza nelle mia mente.
Attraversai questa maledetta Milano nel suo caos, che lascia spesso allibito un povero provinciale come me. Scoprii il suo aspetto peggiore, con il suo flusso intenso di vita e negli angoli della metropolitana l'odore, lo sporco, tra giovani arabi e zingari mendicanti.
Quando fui presentato al capo redattore non mi attendevo nulla di straordinario: -Si accomodi! Dunque lei è?.....-
-Rodari, Rodari Angelo, quello del....-
-AH! Certo! No, non tema, non l'avevo scordato! Il suo lavoro è ottimo, con qualche modifica sarà perfetto!-
Egli mi riconsegnò il mio racconto con l'obbligo di un quasi completo rifacimento e forse, più avanti, lo avrebbe preso in considerazione.
Il Dottor Cattaneo, la mattina del giorno successivo, mi chiamò sorridente nel suo ufficio.
-Bene Rodari! Lei può star tranquillo! Finalmente è stata
appurata la sua completa estraneità, d'altra parte qui nessuno ne dubitava!-
Mi accompagnò sino alla porta dell'archivio, battendomi piano la mano sulla spalla: -Hai visto! Chi lavora onestamente alla fine non ha problemi!-
Io tentai di sorridergli, ma feci una triste smorfia.
Lo abbandonai senza dire una parola e ripresi il mio lavoro: lettere da scrivere a macchina, carte da riordinare e verbali da completare.
Io avevo vissuto sino ad allora nella luce della fantasia e
credevo che nessun burosauro mi avrebbe sconfitto.
Quello che era avvenuto in quella settimana era concluso e io riprendevo la mia solita attività, ma dentro di me si era
frantumato qualcosa: non ero più invincibile.
Mi potevo scacciare ingiustamente dal mio lavoro e gettare nella periferia, tra i rottami e nel fumo delle ciminiere.
I miei viaggi, mille volte invano progettati, si erano dissolti nel nulla.
-Ciao Silvia! Hai visto che tutto si è risolto!-
-Sono contenta per te!-
Quella sua indifferenza, che usava solo con me, mi raggelò, la verità dei suoi sentimenti nei miei confronti mi fu chiara: ella non provava nulla per me.
Fughe, amore e velleità letterarie erano apparse davanti ai miei occhi: parevano solide, ma erano svanite al primo impatto.
Abbandonai le mie speranze e vissi alla giornata.
Da allora fui bene accetto ai miei colleghi e i loro interessi furono i miei.
Oggi attendo la domenica per la partita dalla mia squadra, discuto con loro di belle donne, di motori, di gran premi automobilistici e non desidero nient'altro.



RACCONTO TRATTO DAL LIBRO "Gli statali. Gioie e dolori per il posto fisso”

Scritto da Arduino Rossi

Morpheo editore
– Narrativa

http://www.morpheoedizioni.it/Gli_Statali.htm

storie maledette .. LA CACCIA DEL MORTO












LA CACCIA DEL MORTO

I cacciatori sono sempre stati i primi ad alzarsi alla domenica e quando la selvaggina era abbondante, ai tempi dei fucili ad avancarica, la passione era molta.
Non sempre tutti rispettavano la legge, l'onestà, la morale: capitava che qualcuno invadesse i campi, uccidesse animali domestici, provocasse danni alle persone, senza poi risarcire le vittime.
Le maledizioni contro questa categoria di appassionati, che sparavano ai guardia caccia, non erano sufficienti e anche dai pulpiti i parroci invitavano alla pace, al rispetto delle proprietà e delle persone.
Alder era uno spaccone di quelli che non ponevano limite alle loro affermazioni né alle loro azioni: i guardia caccia di tutta la valle lo ricercavano, ma non riuscivano mai a prenderlo sul fatto.
Alder era un bracconiere scaltro, agile e fortunato, ma fu scorto dal vecchio Andrea celare un cerbiatto sotto la vegetazione, per appropriarsene con tutta calma di notte.
L'aveva catturato con una trappola nella stagione di ripopolamento della fauna.
Il guardia caccia si avvicinò al manigoldo con cautela e alle spalle gli ordinò di abbassare l'arma.
Alder obbedì e alzò le mani: -Hai vinto, Andrea! Ora sarai soddisfatto e potrai condurmi in prigione!-
-Era ora che ti trovassi con le mani sulla preda e questa volta due anni di carcere non te li leveranno più!-
-Non essere sciocco, Andrea! Io uscirò di prigione e mi vendicherò!-
Andrea non era tipo da farsi intimorire: si accostò per legargli i polsi, togliergli il fucile e condurlo, facendolo camminare davanti a sé, sino alla caserma della forza pubblica.
Commise l'errore di non perquisire il bracconiere: si voltò di scatto, dopo essersi fermato per una finta distorsione alla caviglia, e ficcò il coltello nel petto del vecchio.
Andrea cadde a terra e dopo una breve agonia morì: fu sepolto nel bosco, ben celato per non permettere di ritrovarlo.
Le ricerche del guardia caccia furono inutili: Alder era stato troppo abile e il bosco non avrebbe mai restituito la salma del povero uomo onesto.
L'assassino non si pentì mai del suo delitto, proseguì nella sua esistenza errabonda, senza famiglia, senza affetti e morì di morte naturale, ormai anziano, solo come era vissuto.
Presto i valligiani si scordarono di lui: era uno dei tanti che erano campati ai margini della legalità, senza però essere dei fuorilegge, ricercati per crimini di particolare gravità.
Erano trascorsi anni quando di notte, in autunno, quando le foglie cadono e i cacciatori inseguono le loro prede, fu avvistato una bara che scivolava lungo i sentieri, preceduta e inseguita da cani feroci, irsuti, famelici, quasi lupi.
Il chiasso che provocava quel corteo era tale da svegliare gli abitanti delle cascine isolate e delle case ai margini dei villaggi.
Per decenni quella presenza fu notata e diversi terrorizzati testimoni dissero che quel funerale proseguiva sino all'alba, poi svaniva alle prime luci del sole.
Era necessario liberare la valle da quella presenza malefica: si diceva che avrebbe portato sfortuna, era il segno di dolore, delitti e sangue che avrebbero infestato i luoghi visitati dagli spettri.
Qualcuno avrebbe dovuto porsi di fronte al corteo macabro e fermarlo, chiedendo al morto nella cassa di alzarsi e dire ciò che voleva dai vivi.
Trovare un uomo simile, capace di affrontare gli spiriti dell'inferno, era quasi impossibile: non doveva essere uno che faceva un atto simile per denaro, né per scommessa, sarebbe morto di paura.
Doveva agire per generosità.
Solo un uomo era capace di far ciò, ma era troppo vecchio e ormai più vicino all'altro mondo che a questo: una delegazione di
notabili salì da lui cercando di farlo intervenire.
Egli era un vecchio cacciatore di spettri, aveva liberato di presenze malefiche le cascine, i cimiteri, i palazzi, i castelletti diroccati.
Alla vista di tanti signori importanti il vecchio si tolse il cappello e chiese cosa potava fare per loro.
Conosciuta la loro richiesta si schernì, dicendo: -Sono troppo avanti negli anni, sicuramente dei giovani sono più abili e più coraggiosi di me!-
-Tu sei il più esperto! Sai affrontare ogni tipo di spettro!-
Il cacciatore di fantasmi si mise a pensare e commentò: -Certamente qui c'è un orrendo crimine commesso da qualcuno! Un'anima morta vorrà porre riparo a qualche suo sbaglio in vita!-
Accettò e attese che la caccia del morto iniziasse: di giorno si udiva l'abbaiare dei cani e le fucilate dei cacciatori vivi, di notte, quando già la neve stava imbiancando le cime, si udiva il latrare macabro della caccia del morto.
Non c'era una logica apparente nel percorso della bara notturna: una volta era sui monti, giungeva sino alle vette, poi calava nel fondo valle e sfiorava i paesi senza mai entrarvi.
Ormai la montagna aveva lo stesso colore della barba e dei capelli del cacciatore di spiriti: la neve la copriva già, ma egli non si scansava dalla sua posizione.
L'attesa del vecchio dette frutto: una notte il corteo funesto incappò proprio sul sentiero dove il paziente vecchio vegliava, i cani infernali gli ringhiarono contro, ma inutilmente.
La bara si dovette arrestare e le belve si misero tutte in cerchio, ululando e minacciando, come lupi attorno alla loro preda.
Il cadavere era stato collocato in un letto di fiamme che non lo consumavano e lo illuminavano con una luce purpurea vivacissima.
Il rosso del fuoco brillava e risaltava sul nero del feretro.
I capelli corvini del cadavere erano lunghi e gli occhi erano violacei, tenebrosi.
Il dolore patito dal reprobo era incommensurabile, ma non c'era una sola smorfia di patimento sul suo volto da colpevole.
La mattina successiva il vecchio fu trovato piangente e confuso, ripeteva in continuazione: -Bisogna seppellirlo, al più presto, povera anima, povero galantuomo!-
Non narrò mai ciò che il dannato gli aveva rivelato né il suo nome, ma indicò unicamente il luogo dove era stato sotterrato il guardia caccia, che fu riconosciuto e restituito ai figli e ai nipoti, per una degna sepoltura.
Solo io scovai la prova che lo spettro della bara fosse Alder, fratello maggiore del cacciatore di fantasmi.
Tra diversi incartamenti di un santuario rinvenni una pergamena, dove si chiedeva perdono per l'assassino, condonandolo dal supplizio tremendo della bara in fiamme: il cacciatore morto avrebbe dovuto percorrere per l'eternità i viottoli che in vita aveva battuto, inseguendo la selvaggina.
ROSSO
Il paese di Santa Brigida, mollemente adagiato in una soleggiata apertura della valle Brembana, era da considerarsi fortunato: abbondava di acqua e di grassi pascoli, dove sostava il bestiame disceso dagli alpeggi.
Ad eccezione di Rosso gli abitanti erano tutte persone laboriose: la pecora nera da sempre sfaticata, che campava di rapina e di bracconaggio.
Egli vagabondava di vallata in vallata: deciso e inaspettato aggrediva le sue vittime poi, come un animale selvatico, si rifugiava nei boschi, bivaccando in qualche anfratto naturale.
Trascorreva l'inverno al paese e si nascondeva quando le guardie
lo ceravano; egli detestava quelle quattro case rustiche e ripeteva tra sé a denti stretti: -Paese di donnicciole e di buoi!-
I suoi compaesani, spesso vittime della sua brutalità, lo evitavano e i suoi arrivi erano preannunciati: -E' tornato Rosso! Che Dio ci salvi!-
Passava i periodi di riposo della sua attività, gendarmi permettendo, all'osteria di Santa Brigida.
Una domenica di settembre, a dispetto di tutti quelli che gli volevano male, beveva e imprecava: -Brutti idioti e buoni a nulla! Siete sempre qui a chiacchierare come servette!-
I compari di Rosso tacevano quando egli beveva troppo: -Ehi! Portatemi un altro mezzo litro di vino!-
Subito l'oste lo servì dicendogli: -Rosso! Oggi sei più in forma del solito!-
Egli si alzò provocando i presenti: -Io parto per la caccia! Non c'è foschia, voi andate pure alla Festa della Madonna!-
Attraversò il sagrato e guardò sogghignante la folla di fedeli: egli si eccitava trasgredendo le leggi di Dio e le tradizioni paesane.
Quel giorno Santa Brigida onorava solennemente la Madonna Addolorata: fu proprio durante quelle funzioni religiose che Rosso, da ragazzo, intraprese la sua carriera di farabutto.
Sua madre tentò invano di farlo ravvedere, ma le maniere buone non servivano e i modi severi lo rendevano più rabbioso: l'anima di Rosso era predisposta al male come la gazza al furto.
La vita in mezzo ai boschi gli aveva sviluppato un'agilità da bruto: la montagna deserta era il suo regno ed egli penetrava come un cinghiale, violento e silenzioso, la intricata boscaglia spinosa.
Quel giorno erano tutti riuniti in paese e solo Rosso girovagava nella macchia: iniziò la battuta timoroso, fermandosi e cambiando
spesso direzione.
Il sole accarezzava i prati: licheni e fiori erano ravvivati dalla luce trasparente del pomeriggio avanzato.
Egli si inserì cauto tra le betulle, vicino alla pozza dove si abbeveravano i camosci: Rosso ritenne che la giornata fosse buona per catturare il capo del branco.
Muovendosi supino sbucò al limite del bosco e si adagiò lentamente dietro i cespugli.
All'inferno Satana esaminava il libro dei peccatori più incalliti e osservò che Rosso da tempo meritava la dannazione: -Portatelo
qui immediatamente! Corpo e anima!-
Tre demoni salirono, volando con le nere ali di pipistrello, sulla Terra.
Rosso scrutava i pascoli sino alle rocce e dentro le gole, rifugio per gli animali selvatici, completamente liberate dalle neve.
Avanzava carponi nella direzione di alcuni fruscii, protetto dagli arbusti, impugnando il fucile già carico.
Tre grossi camosci maschi dalle corna nodose gli apparvero come una visione.
Rosso non aveva mai visto animali così maestosi e pensò: -Quei poveri fessi, che sono rimasti alla funzione, non sanno cosa perdono!-
I camosci pascolavano placidi, in apparenza incuranti del cacciatore che si era incautamente esposto.
Emozionato Rosso controllò se l'arma fosse a punto e con un dito
bagnò la cima della canna.
Egli si lisciò con le unghie la rossiccia barba ispida, pose un ginocchio a terra e mirò a pochi metri, ma gli animali non si spaventarono.
Il più grosso dei tre, da lui tenuto attentamente sotto tiro, mutò: tutti e tre si ingigantirono e le loro ombre avvolsero Rosso in una notte precoce.
Egli udì un'intimazione: -Rosso! Non sparare!-
Ma egli sparò e l'eco del colpo risuonò per tutta la vallata; le tenebre lo ghermivano, sbalordito egli portò le mani agli occhi.
Stava per soccombere quando le campane a festa annunciarono l'inizio della processione.
I demoni sbandarono confusi e fuggirono: -A presto Rosso! Te la sei cavata, per ora!-
Egli non capì il pericolo scampato: prima guardò attorno stordito, poi si sfogò sul vecchio fucile e lo gettò con rabbia contro una roccia.
-Hai sempre funzionato e mi scoppi in faccia ora, con tre prede così ben pasciute!-
All'osteria raccontò la sua disavventura e tutti ascoltarono stupiti: i presenti intuirono che qualcosa di misterioso incombeva su Rosso.
Il vino lo rincuorò e il giorno successivo, prima dell'alba, Rosso andò nei luoghi più ricchi di selvaggina.
Camminò tutta la giornata, bramoso di rivincita e alla sera scovò un giovane capriolo, tenero e lontano dalla madre.
Rosso gli sparò in fronte, mentre l'animale lo fissava titubando e ancora incerto sulle zampe.
Egli si caricò il capriolo sulle spalle e scese lungo un ripido sentiero, l'ora era tarda e non avrebbe incontrato nessuno, si sedette vicino ad una cappelletta dedicata a San Rocco e degnò di uno sguardo il ritratto del Santo, rustico e rudimentale.
Scacciò il ricordo nostalgico di quando pregava con la madre il Santo e si caricò il capriolo sulle spalle.
Subito dopo incespicò in un maialetto rosso fuoco che gli ammirava davanti e lo ostacolava, mostrando i denti aguzzi.
Quel misterioso animale lo preoccupò ed egli lo colpì con un calcio: -Torna all'inferno, stupido mostro!-
Il maialetto scomparve in una fiammata e una nube di fumo irritante avvolse Rosso.
Egli tossì e si coprì la bocca e il naso con le mani; alle sue spalle la roccia cedette trascinandolo nella frana.
Egli rovinò per vari metri, i sassi gli volarono attorno: i tre demoni avevano causato la frana per portarselo con loro, ma la pelliccia di Rosso aveva resistito.
Si levò stordito e graffiato, riprese la sua strada.
Non abbandonò il capriolo, suo scudo nella caduta: non comprese che il Cielo l'aveva salvato, ma per l'ultima volta.
Un vecchio saliva alla sua baita, vide la cascina di Rosso aperta e osò sbirciare dentro.
Per primo notò il capriolo appeso per le zampe ad una trave, con le carni rosee spogliate dal pelo.
A terra, sotto l'animale, giaceva Rosso.
Il vecchio corse al paese per dare, con tutta la foga di cui era capace, la notizia della fine del bruto: -Rosso è morto! Ora siamo liberi!-
Veloce l'annuncio del vecchio si diffuse e la gente si adunò curiosa.
Rosso aveva agito con troppa malvagità e da morto intimoriva ancora: un gruppo di giovani, quasi sospingendosi l'uno con l'altro, si impegnò a salire lassù per primi.
Essi ricomposero pietosamente la salma e la deposero sul pagliericcio.
Quel volto di cera non intimidiva più nessuno, però essi sospettarono che il Diavolo, non soddisfatto dell'anima, avrebbe rapito pure il corpo.
I giovani più coraggiosi decisero di impedire il sacrilegio e di difendere l'onore del paese contro il potere dell'inferno. Verso sera la porta e gli scuri della baita furono sbattuti dal vento, l'aria si era raffreddata e minacciava burrasca.
Essi chiusero la porta e le finestre, si sedettero accanto al fuoco, giocando a morra, alzando la voce per nascondere la paura.
Il temporale, inatteso a fine settembre, scoppiò con violenza; la cascina fu investita da folate di vento e da una pioggia scrosciante.
I giovani avvertendo il pericolo, smisero di giocare.
La luce dei lampi filtrava attraverso le fessure delle imposte e illuminava la macabra espressione del volto di Rosso che non era stata notata in precedenza, i giovani la interpretarono per un funesto presagio.
La poca mobilia venne accatastata contro la porta e altre assi furono inchiodate per assicurare i battenti traballanti.
Un violento colpo di vento spalancò la finestra vicino a Rosso e spense tutti i lumi.
La confusione impedì ai più audaci di intervenire immediatamente.
Fra urla di terrore ed esclamazioni di rabbia impotente qualcuno riaccese un lume; tutti si strinsero attorno ad esso.
Richiusero la finestra, ma il corpo di Rosso era scomparso.
Alla mattina i compaesani decisero di trasportare la bara nella terra sconsacrata.
Un tronco sostituiva il corpo e tutti i paesani erano riuniti, ma la soddisfazione di non rivedere più il famigerato Rosso fu turbata dall'improvviso incendio dei boschi a valle, i più fitti del paese, che furono totalmente distrutti.
I vecchi dissero: -Rosso si è vendicato per l'ultima volta!-


racconto di Arduino Rossi