8 set 2012

storie dell'orrore ....LA LETTERA ...racconti di Arduino Rossi








LA LETTERA

Da tempo non mi giungeva corrispondenza: l’ultima mia lettera era vecchia di anni, dai tempi del mio amico Antonio, quando era ancora vivo.
Non sapevo proprio chi mi poteva aver scritto: forse era stato qualche ufficio pubblico, forse era pubblicità, forse era qualche comunicato per la pensione.
Lasciai la busta sul tavolo della mia saletta: la stanza buona per gli ospiti che non giungevano mai.
Ero stato un impiegatino pubblico, con molti sogni, molte speranze mai soddisfatte: ero rimasto dietro una scrivania in attesa del giorno fortunato, della donna giusta, della grande occasione, che non giunse mai.
Uscii di casa e me ne andai al parco a fare la mia monotona passeggiata: feci le solite banali chiacchiere con un mio vicino di panchina, andai al negozio per il pane e poche altre cose.
Quella lettera incominciò a incuriosirmi: pensai a mille personaggi del mio passato, a tante situazioni buone e cattive.
Avevo più di sessant’anni ed ero un misantropo in pensione: avevo assistito mia mamma sino alla morte, avevo visto allontanarsi i pochi amici, senza fare nulla per conservare quelle scarse e ormai formali conoscenze.
Da quando non andavo più in ufficio le mie passeggiate erano diventate delle vere esplorazioni di tutti gli angoli reconditi della parte vecchia e più caratteristica della mia città.
Dopo la spesa me ne tornai a casa: era cresciuta la frenesia di sapere chi mi avesse scritto.
Salii le scale di corsa, aprii la porta con il fiatone e la lasciai spalancata: ruppi malamente la busta e mi inforcai prontamente gli occhiali.
Lessi a voce alta, come un ragazzino emozionato: -Caro Francesco, forse non ti rammenti di me. Ci conoscemmo trent’anni fa, quando eravamo giovani. Io mi innamorai di te: eri veramente bello e pieno di vigore. Sicuro di te. Come stai ora? Il tempo ti ha cambiato? Vorrei rivederti.
Non hai capito chi sono? Mi chiamo Elvira, più nota anche come Elvira la Rossa.-
Cercai nei meandri della mia mente chi potesse essere questa Elvira. Non era sicuramente una  bellezza, perché le bellone del mio passato non le avevo scordate: conservavo una scatola con le fotografie di tutte le ragazze più interessanti che mi avevano sfiorato nel corso degli anni.
Non c’era nessuna Elvira la Rossa: sicuramente era una bruttina, forse era grassa, certamente una scialba.
Andai a letto senza cenare, mi era scomparsa la fame: pensavo sempre a quella strana spasimante, che ritornava dal mio passato e mi salutava.
Mi aveva lasciato un indirizzo, che si trovava nel mio vecchio borgo, quello della mia giovinezza: allora avevo un’intensa vita sociale, conoscevo tantissime persone, soprattutto miei coetanei.
Erano anni pieni di avventure sentimentali, di rapidi fidanzamenti, di baci rubati e fughe dalle responsabilità sentimentali.
Non chiusi occhio tutta la notte: mi agitai nel letto sino a tardi, mi levai più volte e mi aggirai nella camera come un prigioniero esasperato.
L’alba mi colse con le palpebre gonfie, gli occhi arrossati e il viso stravolto.
Dovevo saperne di più: era una tortura maledetta, la mia esistenza sarebbe stata differente se avessi seguito il mio buon senso e mi fossi accontentato di sposare una donna, semplice, buona, pur non stupenda.
Invece l’età mi aveva portato a credermi un grande uomo, con un futuro radioso, che non giunse mai.
Ero stato pure crudele, quasi sadico con le ragazze bruttine, le avvicinavo, promettevo o facevo credere di essere innamorato, le seducevo e poi le lasciavo divertito.
Tante mi avevano maledetto, ma nessuna poi mi aveva ricercato negli anni successivi: solo questa Elvira mi aveva pensato per tutti questi anni grigi e si era rammentata di me.
Mi addentrai in quelle viuzze, che per me erano zeppe di ricordi: non avevo più messo piede in quelle strade, perché non volevo raccontare che ero un fallito a chi mi avrebbero riconosciuto.
Me ne ero scappato dal quartiere, giurando di non rimetterci più piede, di lasciarlo a quei morti di fame che erano stati i miei amici sino ad allora.
L’orgoglio era ormai l’unica cosa che mi rimaneva, ma il richiamo di un amore antico e perduto mi affascinava: forse ero ancora in tempo, forse potevo ricucire un rapporto, pure da anziano, avere una donna affezionata accanto a me negli ultimi anni della mia vita.
Sarebbe stato un dono molto bello e ambito in quel momento di solitudine estrema.
Mi sarei accontentato di una cinquantenne, pure sciupata, troppo grassa o troppo magra, ma che avrebbe avuto per me un po’ di affetto, come a un povero cane randagio.
Il numero 117 di Via del Monte Alto era un portone vetusto, affascinante e grigio per la polvere dei secoli: aveva l’aspetto di un palazzo signorile, ma ormai decaduto a casa per popolani, per vecchi con la pensione al minimo e per disoccupati, per artigiani poveri, per famiglie numerose e rumorose.
Nulla era cambiato da quando me ne ero andato: tutto pareva uguale, pure le facce mi ricordavano i volti dei miei tempi.
Entrai e bussai alla finestra di quella che pareva una portineria: mi aprì una vecchietta con uno scialle sicuramente bianco in origine, ma zeppo di macchie e ingiallito.
Mi chiese, un po’, scocciata: - Sì! Desidera!-
- Cerco la Signora Elvira!-
Quella sogghignò, poi mi indicò la scala: -Al Terzo piano, …. Buona fortuna!-
Mi venne subito il dubbio di essere terminato in qualche guaio serio: forse era una pazza, forse una truffatrice, forse una ricattatrice.
Mi transitarono tutte le ipotesi peggiori nella testa, ma era troppo tardi per indietreggiare, non mi rimaneva che restare in guardia.
Percorsi le tre interminabili rampe dello scalone di marmo.
Accanto al campanello lessi: -Signora Elvira Fantini.-
Il cognome non mi era nuovo: mi ricordai di un fatto di cronaca nera di molti anni prima.
Non poteva essere ancora la stessa persona del fattaccio, la ragazza di nome Elvira che mi tornò alla mente era morta suicida molti anni prima, si dice per una delusione d’amore.
Mi rammentai che pure la polizia mi aveva fatto delle domande, volevano sapere se ero stato io a deluderla, a deriderla e a spingerla all’insano gesto.
Non c’erano prove, ma effettivamente un po’ di rimorso mi aveva attanagliato l’anima per anni.
Ero certo che qualcuno voleva farmi uno scherzo di cattivo gusto, o si voleva vendicare di quel fatto tanto lontano.
Me ne stavo andando quando la porta si spalancò e la vidi seduta sulla poltrona: era Lei, Elvira la Rossa, bella e pallida, con i suoi occhi scuri e maligni.
Mi sorrideva come può farlo il ragno con la sua preda.
-Io, Commissario di polizia Giuseppe Alessandri, sono stato inviato per indagare sul decesso di un pensionato pubblico, morto cadendo dalla tromba delle scale di un palazzo di Via Monte Alto, 117.
Dopo i primi accertamenti sul caso non mi rimane che constatare il decesso per suicidio da parte del signore Francesco Cantini di anni 62.
Non ci sono indizi per sospettare qualche istigazione al suicidio.
Il caso viene archiviato!

Arduino Rossi

storie di paura da raccontare ...L’ALBERGO... racconto di Arduino Rossi








L’ALBERGO

Ero disoccupato da un mese e per me le cose si mettevano male: se non trovavo subito un lavoro rischiavo di finire sulla strada.
Odiavo lavorare di notte, amavo troppo dormire tranquillo nel mio letto, ma non potei rifiutare quella proposta: serviva un portiere per la notte in un alberghetto di periferia.
Accettai prontamente e mi presentai di sera per la prova: mi dettero le chiavi dei clienti, che sarebbero giunti dopo la mezzanotte.
Lo strano che io non dovevo controllare cosa avvenisse, chi entrava e usciva: bastava che richiedessero il numero della stanza per dover consegnare a loro le chiavi.
Così fu: tutto andò liscio, io non feci domande.
Vennero in trenta o quaranta individui, diversi per ceto, aspetto ed età: c’era il buon borghese, l’impiegato di basso livello, il commerciante sudato, l’operaio, il giovanotto con l’abito della festa.
Era un mondo variegato e tutti avevano volti più o meno tristi: dicevano un numero e io li accontentavo.
L’atrio della sala d’attesa era alto, ampio, con ritratti e fotografie di fisionomie d’altri tempi.
Mi alzavo e li scrutavo incuriosito: un’epoca morta faceva capolino in polverosi quadri ad olio, in quelle fotografie ingiallite.
Nobili impettiti, bambine vestite come bambole di porcellana, in vestine candite, ricamate, lussureggianti mi fissavano dall'alto.
Ritratti realistici di personaggi di fine Ottocento nei loro abiti buoni guardavano il vuoto.
Le notti trascorrevano nella flemmatica noia del mio lavoro insulso: non vedevo mai nessuno, non parlavo con nessuno.
Ormai le fotografie le conoscevo in ogni particolare, mi ero letto diversi libri e mi stavo facendo una cultura.
I clienti non facevano caso alle mie domande curiose e in pratica non sapevo chi stava in quel albergo: forse era un locale per incontri, forse un covo di sbandati, di viziosi o chi sa che altro.
Ero stanco di tutta quel mistero che aleggiava attorno a me: decisi di capire, togliermi qualche perplessità.
Salii le scale di granito, larghe e con il parapetto tornito e decorato con marmo rosa.
C’erano dei lunghissimi corridoi, che parevano infiniti, guardai sopra di me nella tromba delle scale e mi accorsi quanto fosse alto il palazzo dove stavo: in pratica non si scorgeva l’ultimo piano.
Mi parve tutto impossibile: lo stabile, visto dall’esterno, non era così alto.
Me ne tornai al mio bancone, richiamato dallo scampanellio di un nuovo arrivato: scesi le scale prontamente e fui disponibile per il mio servizio.
Era un giovane con lunghe basette, un abito anni sessanta, con pizzo e colori sgargianti.
Cercai di dialogare: -E’ una buona serata! Ci si può divertire.-
Non mi degnò di una risposta, ma solo di un sorriso sarcastico e sprezzante.
Non mi posi problemi, deducendo che i clienti fossero tutti un po’ snob.
Ricevetti il primo stipendio sotto il bancone, in una busta chiusa.
Sembrava tutto in regola, con un piccolo premio e un biglietto: -Ci raccomandiamo per la massima riservatezza nello svolgimento delle sue mansioni! Grazie!-
Forse avevano intuito la mia curiosità e così rimasi al piano terreno per alcune settimane, ma dovevo saperne di più: tornai di sopra e percorsi un corridoio, che non finiva mai.
Oltre le porte delle stanze non si udiva nemmeno respirare, poi da una percepii un brusio basso e fastidioso, intenso.
Sbirciai dal buco della serratura, ma c’era solo buio, mi sentii uno squallido guardone e mi decisi di evitare altre intrusioni.
Stavo per tornare al mio posto, quando alle spalle un omone, con la mia stessa divisa di dipendente dell’albergo, mi bloccò in malo modo, urlandomi nelle orecchie: -Lei deve restare al suo posto e non gironzolare nelle stanze. La paghiamo perché faccia il suo dovere!-
-Mi scusi! Avevo udito un rumore sospetto!-
Me ne scesi di corsa, senza voltarmi e mi sedetti scosso al mio bancone.
Quella notte i clienti furono tanti: erano sempre nuovi, erano volti mai visti.
Iniziai a preoccuparmi di nuovo: c’era qualcosa d’insolito in tutto quello che vedevo, le fogge degli abiti erano di paesi differenti, ma si era in una cittadina di provincia con pochi forestieri in giro per le strade.
Il personaggio che mi aveva assunto non si era fatto più vivo: mi lasciava la busta paga dentro il mio cassetto personale con qualche breve indicazione di servizio.
Tranne quel burbero inserviente dei piani superiori, non avevo incontrato altri dipendenti dell’albergo: volevo saperne di più, al costo di rischiare il licenziamento.
La mattina successiva mi recai negli uffici contabili dove c’era solo una donna delle pulizie, che mi disse –Iniziano a lavorare solo di sera, non c’è nessuno!-
Ero preoccupato e io n’approfittai di una porta aperta per intrufolarmi nelle stanze: non era nessuno, tutto era vuoto e regnava su ogni cosa una gran desolazione.
I mobili delle camere erano coperti da lenzuola, la polvere era tanta e le dimensioni dell’albergo erano normali, con solo una quarantina di camere.
La sera mi recai sul posto di lavoro e mi avventurai al primo piano: c’era sempre quel brusio fastidioso.
Mi misi ad ascoltare dietro ad una porta, che era socchiusa, sbirciai dentro e nella penombra vidi delle forme umane immobili, statuarie.
M’investii della parte del portiere di notte: -Tutto bene, Signori?-
Non ricevetti risposta, entrai e non trovai nessuno: parevano svaniti nel nulla, eppure li avevo visti bene.
Bussai alle altre porte, ma non ricevetti risposta, entrai e in tutte mi parvero queste sembianze che scomparivano appena mi avvicinavo.
Ero più che mai perplesso, quando una processione d’esseri evanescenti, quasi lumino si spinti da una forza misteriosa, riempirono il corridoio, mi circondarono sorridendo con labbra sottili ed esangui.
Avevano la tristezza solita dei miei clienti, gli occhi erano di chi aveva sofferto molto.
Preso dal terrore mi precipitai al mio bancone, dove trovai il padrone, colui che mi aveva assunto: -Ti avevo detto di non disturbare gli ospiti!-
Si tolse gli occhiali scuri e mostrò la sua bocca bianca e cattiva in una smorfia di rabbia trattenuta.
Ora faccio i miei affari, sono il guardiano di questo luogo e attendo i clienti: un giorno sarò anch'io uno di loro, ma per ora rimango al mio posto, indifferente al dolore di chi ha perso la vita ed è entrato nel ricovero delle ombre.


Arduino Rossi

storie di paura ... IL NUOVO LAVORO ... racconto di Arduino Rossi










IL NUOVO LAVORO

Antonella era giunta ai quarant’anni senza aver grossi problemi, senza prendere troppo seriamente la vita: aveva avuto qualche amico e un paio d’amori, che si erano dissolti come neve.
Aveva pure visto la dipartita gli anziani genitori, che non avevano avuto la fortuna di vedere i nipotini che non sarebbero mai arrivati: Antonella era una donna troppo spensierata e un po’ infantile per progettare un avvenire serio, con responsabilità di figli e un marito.
Non amava la fatica, l’impegno e quel lavoretto da impiegatina gli era sfuggito dalle mani senza che se ne preoccupasse troppo, ma poi si trovò senza più mezzi di sostentamento.
Lesse tutti gli annunci di settore, fece per un po’ la commessa, ma era troppa la fatica di restare in piedi dietro il bancone.
La cameriera non era per Lei, la sguattera era troppo pesante e umiliante.
Finalmente lesse ciò che faceva al caso suo: cercavano un impiegatina per una ditta di trasporti, solo turno notturno.
Antonella non aveva molto da pretendere e il lavoro notturno non le dispiaceva, non dormiva molto e avrebbe recuperato il sonno con poche ore nel primo mattino.
Si presentò di sera alle dieci: era un luogo spoglio, polveroso, grigio di periferia, tra vecchi capannoni in disuso e magazzini di poche ditte in fallimento o di dubbia onestà.
Cercò il numero civico, il 1288 ed entro oltre un gran portone di un magazzino alto e antiquato.
Non si era mai azzardata a scendere in quella parte della città: era luoghi malfamati e per Lei indegni di una semplice passeggiata.
Non c’era ancora nessuno: si sistemò su una scomoda panca di legno e attese, d’avanti la porta chiusa di uno studiolo.
I primi a giungere furono due trasportatori con il loro camion: non badarono a Lei e si limitarono a scaricare velocemente la merce nel magazzino accanto.
Avevano fretta e quello che spostavano erano casse coperte da teli scuri.
Antonella si presentò timidamente: - _Salve! Sono la nuova impiegata! Vorrei sapere quando arriva qualcuno per mostrare le mie referenze.-
Quelli si guardarono perplessi e sorrisero: -Signora! Non tema, il vecchio Giacomo si farà vedere, ma non prima di Mezzanotte.-
Antonella non gli rimase che attendere e dopo che i trasportatori se ne furono andati si alzò e volle capire dove fosse capitata: il magazzino era colmo di casse, tutte avvolte da drappi scuri.
C’era qualcosa di strano e incomprensibile, ma non aveva la possibilità di comprendere: formulò molte ipotesi, tra le peggiori e le più fantastiche.
All’improvviso vide arrivare un ometto frettoloso e dal passo deciso, tutto bianco e un po’ calvo andare verso l’ufficio, aprire e non badare a Lei.
Antonella gridò: -Scusi! Signore! Sono qui per quel posto, quello dell’annuncio sul giornale.-
Quello si voltò appena e sorrise: - So chi è! Mi segua!-
Non la lasciò parlare e gli spiegò in cosa consisteva il suo lavoro: registrare le entrate e le uscite delle casse, il cui contenuto rimaneva sconosciuto.
Lei non si preoccupò d’altro e si mise a parlare della sua vita precedente a Giacomo, degli hobby, delle passioni, quando incominciò a raccontare dei suoi amori e della sfortuna il vecchietto la salutò e se n’andò.
Iniziò così quello strano mestiere: registrare bolle di consegna su vecchi registroni, grossi e ingialliti dagli anni. Scriveva con cura tutto e cercava sempre di chiacchierare almeno con i trasportatori che non badavano a lei, perché avevano sempre una gran fretta.
Finalmente rivide i primi individui che aveva incontrato che gli spiegarono qualcosa: -Questa è un’antica società, Giacomo è stato un’istituzione fino ad oltre la pensione, poi si era ritirato perché…non si sa !-
Il mistero continuava, ma Antonella non se ne importava: aveva il suo stipendio, che gli era consegnato in contanti regolarmente nel cassetto di destra, non aveva capi e padroni e poteva districarsi, decidere come organizzarsi.
Il giorno lo trascorreva come il solito a leggere e a passeggiare.
Era diventata misantropa, non vedeva più le sue amiche, ma non per colpa sua: non le trovava mai in casa, non rispondevano mai al telefono.
Si era abituata anche a quella placida vita solitaria.
Il suo lavoro era diventato un’abitudine fissa, un bisogno, una necessità in se stessa, più che una necessità dovuto al proprio mantenimento.
Si era sempre considerata sprecata nelle sue mansioni ripetitive, ma questa volta provava uno strano piacere nel contare le casse, nel affermare che andava tutto bene al camionista.
Una notte il vento di tempesta penetrò nel magazzino e mosse i drappi che avvolgevano alcune casse: Antonella scoprì con disgusto e spavento che erano bare.
Corse nella sua stanzina e vi rimase sino a quando un trasportatore non venne a bussare.
Quell’uomo burbero la rincuorò: -Non tema! Sono solo casse da morto vuote!-
-Lo spero!-
-Non sapeva che questo è il magazzino di una fabbrica di bare1-
Antonella si abituò anche all’idea di a che fare con un articolo così macabro e non ci pensò più.
Invece quella notte le cose presero una brutta piega: i due nuovi camionisti fecero cadere una bara, che si scoperchiò. C’era il cadavere di un uomo con gli abiti neri, ben in ordine, di una sepoltura recente.
Antonella ebbe una crisi isterica e se la prese con i due poveretti: -Idioti! Cosa fate, vi farò licenziare!-
I due non si scomposero: -Ci dispiace, ma è stato un piccolo incidente.-
-Lo chiamate un incidente questo!-
Si accorse della sua situazione assurda e del fatto che nessuno fosse venuto quella sera a presentarsi al nuovo lavoro, oltre a Lei.
Si rinchiuse a chiave nello studio e vi rimase l’intera notte: meditò e valutò la faccenda, poi si rassegnò a quella situazione.
Non avrebbe trovato altro impiego alla sua età.
Le nottate successive furono zeppe di terrore, per ogni minimo rumore e sussurro: dal magazzino giungevano fruscii e scricchiolii.
Lei si alzava cauta e si affacciava alla porta, ma non si azzardava a entrare.
I nuovi camionisti erano sempre più rozzi e maldestri: ora capitava spesso che il coperchio cadesse o non ci fosse neppure. I corpi di morti di ogni età erano trasportati in quel luogo insolito.
Antonella ricominciò a sospettare qualche traffico misterioso e orripilante: corpi smembrati in messe nere, sette sataniche, ….traffici di organi.
Voleva chiarimenti, ma lo stipendio era sempre più generoso, i premi superavano di molto la paga sindacale: aveva sempre più bisogno di denaro per i suoi gusti raffinati.
Non si decideva a rovistare tra gli incartamenti, tra i registri più vecchi dell’ufficio, poi n’aprì uno con le età di nascita e di morte di molte persone.
Scovò un nome: Giacomo Rapelli, nato il 12 Giugno 1815 morto il 15/4/1897.
Era colui che le aveva presentato le sue incombenze il primo giorno: non riusciva a capire.
Chiese ai due trasportatori, appena giunti, che gli risposero: -Possibile che non comprendi! E’ tutto ovvio!-
Antonella ripensò a tutto, poi si ricordò che la prima sera di lavoro non rammentava quando fosse uscita di casa, che tutto da allora era misterioso, che non avesse più incontrato visi noti.
Allora si dette una spiegazione, l’unica plausibile, cercò il suo nome nel registro e lesse: -Antonella Di Paoli, nata il 18 gennaio 1956 morta il 3 Novembre 1999.-

Arduino Rossi 

Storia dell'orrore .... IL CRONISTA ... racconto di Arduino Rossi









IL CRONISTA

Mi trovavo sempre male nella mia situazione lavorativa, non riuscivo a mutar impiego perché non ero più giovane: la pensione era ancora distante e con i colleghi i rapporti erano difficili.
Sognavo sempre la fuga e non riuscivo a realizzare le mie ambizioni: avevo la passione dello scrivere, mi sarebbe piaciuto fare il giornalista, ma non avevo gli agganci giusti.
Mi accontentavo di inviare lettere su lettere ai giornali di tutte le tendenze, schieramenti e generi: qualche volta vedevo pubblicato qualche mio scritto, che trattavano di parecchie questioni differenti, ma sempre collegati a fatti di attualità.
Proprio per queste mie sporadiche apparizioni sulla stampa, mi ero guastato i rapporti personali: le mie uscite erano spesso polemiche, con qualche attacco contro interessi, favoritismi, questo o quel partito, mantenendo sempre la mia indipendenza, il mio senso critico sopra le parti.
Non mi attendevo più un invito da parte dei quotidiani, delle riviste locali: ero fuori tempo massimo per l’età, per il mio carattere scorbutico, per la mia difficoltà congenita
ad abbassarmi di fronte ai capi e ai capetti.
Lo squillo del telefono mi colse di sorpresa: da tempo non ne sentivo il suono.
Alzai il ricevitore quasi con timore, la voce un po' gracchiante di una segretaria mi fischiò nell'orecchio: mi chiese di contattare il quotidiano “La Notte del Cittadino”, perché il Direttore mi voleva parlare.
Detti prontamente la mia disponibilità ad un appuntamento e lo ottenni la sera stessa.
Eravamo in Novembre e il buio calava presto: le serate erano umide e io non amavo uscire dopo il tramonto.
Ero diventato, da tempo, un pantofolaio e un misantropo: un uomo senza più ambizioni, né speranze, il grigio era il colore dominante della mia vita.
Il quotidiano in questione era poco diffuso, quasi sconosciuto: Io lo avevo scovato tra gli indirizzi di un vecchio elenco di giornali.
Ero convinto che fosse già tra gli estinti: trovabile tra gli annali dei periodici d’epoca.
Infatti, tutto era antiquato, quasi vetusto: l’edificio di fine Ottocento, le scale di marmo per salire alla redazione, la mobilia in noce scuro, tetra quasi macabra.
Mi pareva un’agenzia di pompe funebri: io in ogni modo attesi che l’anziana segretaria sbucasse dai vuoti corridoi.
Senza preamboli mi comunicò: -Il Direttore l’attente!-
Tornò al suo tavolino a sfogliare pratiche ingiallite, mentre Io avanzavo nel nulla della penombra, in un silenzio agghiacciante: bussai con timidezza e sentii un invito ad entrare.
Mi parve una voce cavernosa e aprii con cautela: invece trovai un ometto in giacca e cravatta, sorridente e cortese.
Mi disse: -Si accomodi!-
Mi sedetti nella logora poltrona e attesi che mi rivolgesse la parola: fu inutile, era troppo intento a scrivere alla macchina da scrivere.
Mi decisi a rompere il ghiaccio: -Mi chiamo Antonio Di Paolo, ho qualche esperienza di giornali.
Ho collaborato…-
Mi fece zittire: -Li sente?-
-Chi? Cosa?-
Lui insistette: -Non sente nulla?-
Io percepivo un silenzio pesante e monotono: per un istante temetti di trovarmi dinnanzi ad un folle.
Invece aveva ragione lui: c’era un brusio di sottofondo.
Ero nel cuore di una redazione e la frenetica attività serale stava iniziando con l’ansia dell’ultima notizia da buttare il prima pagina.
Il Direttore mi chiese: -Se la sente di iniziare a lavorare questa sera stessa?-
-Certamente! Non vedo l’ora di gettarmi nella mischia.-
Mi sentii improvvisamente il vigore dei ventanni nelle vene, con tante speranze e tanti
sogni da realizzare.
Mi consegnò un foglio: -Qui c’è il sunto della notizia, la sviluppi e poi vedremo.-
Mi accompagnò in una stanzetta dove c’era un tavolino dei fogli e una macchina da scrivere vecchiotta, ma funzionante.
Strappai quattro o cinque fogli prima di aver trovato l’ispirazione giusta: il lavoro era decente e mi decisi di consegnarlo al capo redattore, un omone sudato in maniche di camicia.
Lo lesse brevemente e fece solo un mugugno per commento: non compresi se di  compiacimento o di disapprovazione.
A mezzanotte me ne uscii, stanco, ma felice come un bambino: mi gettai sul letto senza togliermi gli abiti e mi risvegliai appena in tempo per correre in ufficio.
Il mio umore era allegro e notai diversi sguardi stupiti su di me, ma non svelai a nessuno il mio segreto.
Appena potei, durante la pausa pranzo, corsi in edicola per acquistare “La Notte del Cittadino”: c’era il mio articolo, un po’ tagliato alla fine, ma con la mia firma in grassetto.
Ero entusiasta: avevo raggiunto lo scopo della mia vita, non mi restava che riuscire a farmi assumere e licenziarmi da quella che era ormai la mia prigione.
Fu così che continuai a presentarmi in redazione, dopo le 21 e lì mi impegnavo per due o tre pezzi, che mi erano sempre pubblicati.
Ricevetti il primo compenso, un discreto gruzzolo, ma non ebbi altre informazioni dal burbero capo redattore.
Il Direttore era irraggiungibile, era assente o aveva sempre fretta: la mia assunzione restava una chimera.
Mi stancai e bussai con decisione alla porta del Direttore, sentii la solita voce cavernosa
che mi disse di entrare: -Si accomodi Antonio, l’attendevo.-
Non avevo capito come aveva fatto ad intuire che ero io, ma non mi preoccupai: il capo era placidamente sdraiato sulla poltrona, con i piedi appoggiati sulla scrivania.
Fui cortese e determinato: -Vorrei avere dei chiarimenti, la mia condizione di precario è inaccettabile…..-
Mi sorrise e mi consegnò una busta: conteneva la mia tessera di giornalista professionista, ero stato assunto a tutti gli effetti.
Si alzò e mi strinse la mano: -E’ soddisfatto! Complimenti!-
Me ne uscii borbottando ripetutamente grazie.
Ero estasiato, confuso, andai nel mio ufficio.
Lessi con attenzione la mia tessera: era tutto regolare, ma la data del rilascio era 1896, pensai a un errore di stampa, poi mi accorsi che c'era uno stemma dell'epoca: tutto era di più di cento anni prima.
Non mi fidai dei miei colleghi, sempre evanescenti, sfuggenti, con cui avevo scambiato solo poche brevi frasi e qualche battuta simpatica.
Il caporedattore non si era mai degnato di rispondere alle mie richieste: decisi di saperne di più in biblioteca.
La mattina successiva, all'ora dell'apertura, mi presentai dall'addormentato bibliotecario, chiedendogli tutti gli annali di "La Notte del Cittadino": mi fornì dieci libroni polverosi, con rilegati cinque anni di pubblicazioni del quotidiano.
Erano dell'inzio del Novecento.
Mi arrabbiai e stizzito chiamai l'occhialuto bibliotecario, che mi rispose senza alterarsi: -"La Notte del Cittadino" non esiste più da almeno novantanni.-
-Non è possibile! Io vi lavoro!-
Un vecchio, intento a leggersi un periodico, mi sorrise: -Lei ha bisogno di una vacanza, mi pare un po' esaurito: non può lavorare in un giornale di morti.-
Ero stordito, confuso, terrorizzato, ma volli sapere tutto: il mio quotidiano non esisteva
più perchè l'edificio era crollato e tutti, redattori, segretarie, telefonisti, erano rimasti sotto le macerie.
L'edificio non esisteva più e al suo posto c'era un giardno pubblico: mi sembrava di impazzire, ma poi compresi il tutto e attesi il buio per tornare al mio posto, dietro una scrivere a stillare articoli che nessuna anima viva avrebbe letto.
IL GIORNALE DELLA CITTA' - del 1 Novembre lxxxix: - ....ieri mattina, alle sette, è stato ritrovato il cadavere dell'impiegato Antonio Di Paolo, deceduto di infarto, secondo la perizia del Medico Legale. Il corpo era su una panchina del giardino, noto come lo spiazzo del Giornale dei Morti......-

Arduino Rossi

storia breve ...IL CAVALLO .... racconto di Arduino Rossi









IL CAVALLO


La mia casa era isolata, al limite del bosco ombroso, dove la gente difficilmente si inoltrava dopo il calar del sole: si diceva che lì ci fossero gli spettri.
Io non avevo mai avuto l'onore di incontrarli: mi sarebbe piaciuto avere a che fare con uno di essi, ma sapevo che non esistevano.
I miei superstiziosi compaesani avevano tanta fantasia: di anime in pena tra le fronde non ne avevo mai viste.
Mi avevano raccontato che c'era il senza testa, la donna con il bambino, il vecchio cieco e tante altre creature della notte, scaturite da vicende tragiche del passato.
Inoltre cercavano di intimorirmi con la paura del sovrannaturale, ma era tutto fiato sprecato con me: non credevo né al Cielo né all'inferno.
La vista del cavallo tra i cespugli mi sorprese: chi poteva lasciar libero un animale simile, dal manto nero, alto, potente, quasi spaventoso tanto era irruente.
Nitriva irascibile e dalle narici usciva il fumo, faceva molto freddo. 
Era molto bello e mi venne una gran voglia di impossessarmi di quella bestia:sapevo bene che non poteva essere mia, non c'erano cavalli selvaggi nella regione.
Il primo incontro con "Nero del Diavolo", l'avevo battezzato in questo modo in onore di un racconto dei miei sciocchi vicini: sostenevano che il peggiore degli spettri fosse un cavallo dell'inferno.
Nero per me era in carne ed ossa, possente, selvaggio e libero, come ero io: era solitario, appariva solo dopo il tramonto, si avvicinava a casa mia, ma non si faceva sfiorare né da me né dal mio vecchio servitore.
Arturo era stato l'unico tra i miei servi che mi era rimasto fedele, l'unico che era resistito alle miei maniere brusche, alle mie sfuriate e anche ai miei gesti violenti e improvvisi, quasi senza motivo.
Gli ordinai di catturare il cavallo, ma Arturo era troppo vecchio per riuscire nell'impresa, era troppo codardo, troppo impacciato.
Non mi rimase che fare tutto da solo: Nero si lasciava avvicinare, scalpitava e fremeva, ma non fuggiva più.
Lo fissavo negli occhi brillanti e luminosi, pareva corrispondere al mio sguardo.
Non si lasciava toccare, provai a sfiorarlo, ma tutto fu inutile: si alzava sulle zampe posteriori e pareva minacciarli con gli zoccoli che agitava in aria.
Cercai timidamente di saperne di più: non risultavano cavalli fuggiti dagli allevamenti vicini.
Ipotizzai che quello fosse un animale liberatosi da maltrattamenti degli zingari, che erano abituati a impossessarsi di bestie stupende, ma non sapevano poi tenerle.
Invece in paese erano certi che quell'animale fosse uno spirito infernale.
Mi disse un vecchio contadino: -E' il cavallo del Diavolo, ne sono certo!-
Io ero invece troppo sicuro di me: -Che importanza ha? Basterà cavalcarlo un po' per domarlo:
Satanaccio o bestia selvaggia che sia.-
La sera mi attendeva nella penombra, così mi pareva.
Non fuggiva più ed era sempre più mansueto, lo sfiorai: aveva il manto liscio,morbido, ma sotto si percepivano i muscoli tesi ed elastici.
Era un capolavoro di forza e di elasticità, una creatura magnifica.
Lo avvicinai poco alla volta, ma temevo di salirgli in groppa, sapevo anche cavalcare senza sella: avevo imparato quest'arte quando ero un ragazzo e vivevo come un piccolo selvaggio.
Allora non ambivo a diventare ricco, potente, a tutti i costi, senza pietà né morale: ne avevo fatta di strada e non dovevo dire grazie a nessuno.
Nel mondo degli affari ero diventato un predatore: agivo sempre al limite della legalità.
Avevo portato sul lastrico molti concorrenti, ma anche qualche socio, sprovveduto, a cui avevo sottratto tutto.
Per colpa mia ci furono due o tre suicidi: le vedove e i figli vennero sotto le mie finestre ad urlare il loro odio.
Gli scacciai chiamando la polizia: ci furono scene patetiche, con pianti, urla, svenimenti.
Non mi lasciai commuovere, né il rimorso ebbe il sopravvento: erano sentimenti per deboli, per donnicciole.
Compravo e vendevo terreni, case, le merci più disparate.
Avevo un fiuto per le situazioni di crisi: i disperati diventavano le mie vittime.
Ebbi pure qualche guaio con la giustizia per dei prestiti ad usura, ma riuscii a cavarmela: ero per tutti il vecchio usuraio in pensione: il rancore contro di me si era attutito in semplice
antipatia, che si sfogava in battute scherzose ed amare contro di me, al mio passaggio.
Non me ne importava di accumulare altro denaro, ne avevo abbastanza e forse troppo: non avevo moglie e figli a cui lasciare le mie ricchezze, non avevo parenti a cui tenevo.
C'era solo un nipote, sempre in cerca di denaro, sempre nulla facente, sciocco e farfallone con le donne.
Non ero un moralista, ma non sopportavo la sua aria da futuro ricco, certo dell'eredità.
Sapeva bene che avevo in odio preti e beneficenza, non avrei mai lasciato i miei denari a canili o vecchie gattare.
Non sapevo sperperare, tutto sarebbe rimasto a lui, a quello sfaccendato che si godeva per di più la vita, cosa che non seppi mai fare.
Era il cavallo Nero invece a entusiasmarmi come nella mia prima giovinezza: finalmente mi parve docile, gli accarezzai il duro collo nerboruto, mi mossi lentamente e provai a saltagli in groppa.
La mia agilità era ancora buona e parve che l'animale neppure si accorgesse di me.
Iniziò a correre conducendomi verso prati e campi, poi si infilò nel bosco fosco.
Ebbi paura, ma mi piacque: i rami mi colpivano il viso, mi graffiavano.
Le tenebre erano fitte, la notte era senza lune né stelle.
L'esperienza era fantastica, ma mi stavo stancando, volevo tornare a casa: cercai di stringergli il collo, di tirare la criniera, ma non si arrestava, non si faceva comandare.
Mi stava portando in luoghi a me sconosciuti: oltre il crine del monte, tra alberi secolari e boscaglia fitta.
Il buio fu disturbato da bagliori rossi, sempre più luminosi e violenti, il paesaggio attorno mutava e diventava roccioso, senza vegetazione: pareva un deserto sterile e aspro.
Un fragore di risate mi accolsero in un anfiteatro: una folla di miserabili mi attendeva con bocche sdentate e quasi fameliche.
Ci fu un momento di gioia, di entusiasma maligno, feroce.
Nero si imbizzarrì e mi scrollò dal suo dorso: svanì tra quella folla, che si avvicinò impetuosa e minacciosa.
Urlai. -Che volete? Chi siete?-
Tentai la disperata fuga, ma riconobbi i più vicini: erano le miei vittime, i miei compari di tanti affari, i miei peggiori amici.
Mi lasciai cadere e desistetti alla lotta contro il mio destino finale.
-Ieri fu rinvenuto il corpo del vecchio Anselmo, noto pregiudicato per usura, vicino a casa sua.
Dai primi rilievi pare un decesso per infarto, ma il vecchio servitore dell'uomo, un certo Arturo, farneticò della presenza di un cavallo nero: il racconto sfociò in assurdità superstizione.
Quello doveva essere il cavallo del Diavolo che rapì l'anima dello strozzino.
Fummo costretti a far rinchiudere il servitore Arturo in un manicomio.-

Arduino Rossi