LA LETTERA
Da tempo non mi giungeva corrispondenza: l’ultima mia lettera era vecchia di anni, dai tempi del mio amico Antonio, quando era ancora vivo.
Non sapevo proprio chi mi poteva aver scritto: forse era stato qualche ufficio pubblico, forse era pubblicità, forse era qualche comunicato per la pensione.
Lasciai la busta sul tavolo della mia saletta: la stanza buona per gli ospiti che non giungevano mai.
Ero stato un impiegatino pubblico, con molti sogni, molte speranze mai soddisfatte: ero rimasto dietro una scrivania in attesa del giorno fortunato, della donna giusta, della grande occasione, che non giunse mai.
Uscii di casa e me ne andai al parco a fare la mia monotona passeggiata: feci le solite banali chiacchiere con un mio vicino di panchina, andai al negozio per il pane e poche altre cose.
Quella lettera incominciò a incuriosirmi: pensai a mille personaggi del mio passato, a tante situazioni buone e cattive.
Avevo più di sessant’anni ed ero un misantropo in pensione: avevo assistito mia mamma sino alla morte, avevo visto allontanarsi i pochi amici, senza fare nulla per conservare quelle scarse e ormai formali conoscenze.
Da quando non andavo più in ufficio le mie passeggiate erano diventate delle vere esplorazioni di tutti gli angoli reconditi della parte vecchia e più caratteristica della mia città.
Dopo la spesa me ne tornai a casa: era cresciuta la frenesia di sapere chi mi avesse scritto.
Salii le scale di corsa, aprii la porta con il fiatone e la lasciai spalancata: ruppi malamente la busta e mi inforcai prontamente gli occhiali.
Lessi a voce alta, come un ragazzino emozionato: -Caro Francesco, forse non ti rammenti di me. Ci conoscemmo trent’anni fa, quando eravamo giovani. Io mi innamorai di te: eri veramente bello e pieno di vigore. Sicuro di te. Come stai ora? Il tempo ti ha cambiato? Vorrei rivederti.
Non hai capito chi sono? Mi chiamo Elvira, più nota anche come Elvira la Rossa.-
Cercai nei meandri della mia mente chi potesse essere questa Elvira. Non era sicuramente una bellezza, perché le bellone del mio passato non le avevo scordate: conservavo una scatola con le fotografie di tutte le ragazze più interessanti che mi avevano sfiorato nel corso degli anni.
Non c’era nessuna Elvira la Rossa: sicuramente era una bruttina, forse era grassa, certamente una scialba.
Andai a letto senza cenare, mi era scomparsa la fame: pensavo sempre a quella strana spasimante, che ritornava dal mio passato e mi salutava.
Mi aveva lasciato un indirizzo, che si trovava nel mio vecchio borgo, quello della mia giovinezza: allora avevo un’intensa vita sociale, conoscevo tantissime persone, soprattutto miei coetanei.
Erano anni pieni di avventure sentimentali, di rapidi fidanzamenti, di baci rubati e fughe dalle responsabilità sentimentali.
Non chiusi occhio tutta la notte: mi agitai nel letto sino a tardi, mi levai più volte e mi aggirai nella camera come un prigioniero esasperato.
L’alba mi colse con le palpebre gonfie, gli occhi arrossati e il viso stravolto.
Dovevo saperne di più: era una tortura maledetta, la mia esistenza sarebbe stata differente se avessi seguito il mio buon senso e mi fossi accontentato di sposare una donna, semplice, buona, pur non stupenda.
Invece l’età mi aveva portato a credermi un grande uomo, con un futuro radioso, che non giunse mai.
Ero stato pure crudele, quasi sadico con le ragazze bruttine, le avvicinavo, promettevo o facevo credere di essere innamorato, le seducevo e poi le lasciavo divertito.
Tante mi avevano maledetto, ma nessuna poi mi aveva ricercato negli anni successivi: solo questa Elvira mi aveva pensato per tutti questi anni grigi e si era rammentata di me.
Mi addentrai in quelle viuzze, che per me erano zeppe di ricordi: non avevo più messo piede in quelle strade, perché non volevo raccontare che ero un fallito a chi mi avrebbero riconosciuto.
Me ne ero scappato dal quartiere, giurando di non rimetterci più piede, di lasciarlo a quei morti di fame che erano stati i miei amici sino ad allora.
L’orgoglio era ormai l’unica cosa che mi rimaneva, ma il richiamo di un amore antico e perduto mi affascinava: forse ero ancora in tempo, forse potevo ricucire un rapporto, pure da anziano, avere una donna affezionata accanto a me negli ultimi anni della mia vita.
Sarebbe stato un dono molto bello e ambito in quel momento di solitudine estrema.
Mi sarei accontentato di una cinquantenne, pure sciupata, troppo grassa o troppo magra, ma che avrebbe avuto per me un po’ di affetto, come a un povero cane randagio.
Il numero 117 di Via del Monte Alto era un portone vetusto, affascinante e grigio per la polvere dei secoli: aveva l’aspetto di un palazzo signorile, ma ormai decaduto a casa per popolani, per vecchi con la pensione al minimo e per disoccupati, per artigiani poveri, per famiglie numerose e rumorose.
Nulla era cambiato da quando me ne ero andato: tutto pareva uguale, pure le facce mi ricordavano i volti dei miei tempi.
Entrai e bussai alla finestra di quella che pareva una portineria: mi aprì una vecchietta con uno scialle sicuramente bianco in origine, ma zeppo di macchie e ingiallito.
Mi chiese, un po’, scocciata: - Sì! Desidera!-
- Cerco la Signora Elvira!-
Quella sogghignò, poi mi indicò la scala: -Al Terzo piano, …. Buona fortuna!-
Mi venne subito il dubbio di essere terminato in qualche guaio serio: forse era una pazza, forse una truffatrice, forse una ricattatrice.
Mi transitarono tutte le ipotesi peggiori nella testa, ma era troppo tardi per indietreggiare, non mi rimaneva che restare in guardia.
Percorsi le tre interminabili rampe dello scalone di marmo.
Accanto al campanello lessi: -Signora Elvira Fantini.-
Il cognome non mi era nuovo: mi ricordai di un fatto di cronaca nera di molti anni prima.
Non poteva essere ancora la stessa persona del fattaccio, la ragazza di nome Elvira che mi tornò alla mente era morta suicida molti anni prima, si dice per una delusione d’amore.
Mi rammentai che pure la polizia mi aveva fatto delle domande, volevano sapere se ero stato io a deluderla, a deriderla e a spingerla all’insano gesto.
Non c’erano prove, ma effettivamente un po’ di rimorso mi aveva attanagliato l’anima per anni.
Ero certo che qualcuno voleva farmi uno scherzo di cattivo gusto, o si voleva vendicare di quel fatto tanto lontano.
Me ne stavo andando quando la porta si spalancò e la vidi seduta sulla poltrona: era Lei, Elvira la Rossa, bella e pallida, con i suoi occhi scuri e maligni.
Mi sorrideva come può farlo il ragno con la sua preda.
-Io, Commissario di polizia Giuseppe Alessandri, sono stato inviato per indagare sul decesso di un pensionato pubblico, morto cadendo dalla tromba delle scale di un palazzo di Via Monte Alto, 117.
Dopo i primi accertamenti sul caso non mi rimane che constatare il decesso per suicidio da parte del signore Francesco Cantini di anni 62.
Non ci sono indizi per sospettare qualche istigazione al suicidio.
Il caso viene archiviato!
Arduino Rossi