31 ago 2012

IL PRINCIPE ... racconto di Arduino Rossi


IL PRINCIPE

Il fieno era fresco e profumava di primavera.
Dormire nella stalla con i cavalli mi era sempre piaciuto e da ragazzo passavo le notti estive nelle stalle.
Ero considerato un pazzo dalla mia famiglia, ricchi mercanti di bestiame e di terreni, gente pratica con le idee chiare e il senso del denaro nella testa, anzi nelle vene.
Spesso mi prendevo un cavallo, dei più bizzosi e selvaggi.
Cavalcavo sotto il cielo stellato in cerca di non so che, forse un po' di natura libera e violenta, senza alcun limite, tra blu, rosa e viola dei prati inselvatichiti delle radure tra le rocce delle colline brulle, tra la macchia della terra di nessuno.
Mi inoltravo sin dentro la selva del castello, così denominata perché la proprietà era ancora in mano ai vecchi principi di Norbo, gente fiacca e senza intelligenza.
Era una stirpe nobiliare ormai imbastardita e priva di animo umano: si diceva che fossero delle vere bestie nei modi, nell'atteggiamento, nel parlare.
Possedevano vaste terre che erano rimaste incolte per negligenza, per stoltezza, per la disonestà dei fattori.
L'ultimo dei Norbo aveva poco da campare e io ero deciso ad acquistare le sue proprietà, nonostante i miei fratelli mi sconsigliassero: -E' terra cattiva, che non darà mai frutto! E' arida o boschiva, ma non si riesce a strappar nulla da quelle zolle: il Diavolo ci ha messo di mezzo la zampa!-
I miei fratelli erano superstiziosi come donnicciole e nonostante la loro mentalità pratica non si alzavano mai al di sopra della credulità dei rustici.
Io invece non credevo ai detti, alle leggende, ai pregiudizi del popolino: ero l'unico della mia famiglia ad avere studiato.
Ero l'unico che se ne infischiava di affari, di compravendite, di cavalli e vacche: dicevano che fossi nato signore e per i miei compaesani questo non era un complimento.
Divenni così il proprietario di un castellaccio mezzo diroccato, di tante ortiche e di alberi curvi e secchi, o nodosi come quelle di un dannato sotto le bastonate del diavolo.
Avevo come rendita unicamente il magro pedaggio dei pastori, che transitavano e pascolavano in estate, mentre il taglio dei boschi mi rendeva così poco che li feci sospendere.
Comunque quel poco mi bastava e mi accontentavo di pane e formaggio, di un po' di legna per l'inverno e di quattro assi per sistemare qualche muro pericolante.
Facevo anche il muratore e trascorrevo il mio tempo a chiudere
crepe, a ricomporre parti crollate, a rinforzare pavimenti instabili.
Infondo quella era la mia reggia, grande quanto inutile, ma stupenda quanto rustica: mi sentivo il nuovo signore di Sassiduri, così l'avevano richiamato, ma in realtà era il feudo di San Lorenzo.
Presto mi feci passare come ultimo erede della stirpe del Norbo e i passanti incuriositi si chiedevano come era possibile che quella gente così corrotta e lasciva avesse potuto generare un uomo alto, robusto, deciso come me.
Infatti avevo la nobiltà dei feudatari di un tempo, quando essere
signore significava essere un guerriero ardito e senza tante remore.
La gente del posto sapeva chi fossi, ma stavano al gioco e presto si scordarono chi fossi realmente confondendomi con un nobile.
Tra le rovine della cappella ritrovai vecchie corazze e mi immedesimai nella parte di un cavaliere di venduta coraggioso, leale, pronto a difendere la sua terra e il suo Re.
Divenni così il Pazzo di Sassiduri e mi beffarono per questa mia mania: mi presentavo in corazze ai forestieri e pretendevo di essere ossequiato come un feudatario di altre epoche.
Invece folle non lo ero, sapevo ciò che facevo e ben presto i miei compaesani ebbero bisogno di me: il colera colpì le campagne basse e calde, una gran folla di profughi giunse sino a noi, ultimo paese delle terre alte, prima della frontiera, era un popolo di disperati che non sapeva cosa fare né dove andare.
Sarebbero stati respinti dalle guardie di confine e la mia gente invece li avrebbe affrontato a fucilate se avessero tentato di superare il ponte che conduceva al villaggio.
Ne sarebbe nato un feroce scontro con altri morti e feriti, oltre a quelli del morbo: come nobile e coraggioso signore decisi di offrire la mia modesta dimora ai fuggiaschi, evitando un inutile spargimento di sangue.
In quei giorni mi prodigai per soccorrere moribondi e malati, non disdegnando il contatto da Buon infermiere, ma rimanendo in salute sino alla fine della moria.
I superstiti se ne tornarono alle loro case ringraziandomi e benedicendomi: ero matto, ma sicuramente un buono e generoso.
Anche tra la mia gente ci fu chi riconobbe i miei meriti, ma nessuno volle ringraziarmi, anzi mi accusarono di essere stato dalla parte della gente della piana, da sempre loro rivali.
Non mi preoccupai delle loro opinioni e proseguii a fare il signore di quella fortezza senza soldati, senza importanza.
Gli anni passarono e i miei capelli divennero bianchi, la mia voce roca, i miei occhi stanchi: la morte non era ancora arrivata ad annunciarmi quale destino mi attendeva e io rimanevo lì, pronto ad ospitare qualche viandante, qualche vagabondo o pellegrino che fosse.
Non chiedevo dove andavano né dove venivano, ma solo per quale motivo si erano rifugiati in quel posto così arroccato e lontano dalle grandi strade di comunicazione del regno: -Siamo dei poveracci e non possiamo pagare i pedaggi del sovrano.
Siamo briganti! Siamo eremiti!-
Erano queste le solite risposte che ottenevo, ma una mi confuse e mi riempì di dubbi: -Sono tornato per vedere chi era rimasto così nobile da continuare la mia missione!-
Chi fosse costui non lo sapevo, forse era un vecchio mercenario, sicuramente un vecchio soldato con molte battaglie alle spalle: aveva l'aria marziale e molte cicatrici di arma bianca sul viso e sulle braccia.
Era forte e dai modi di chi era abituato a comandare e non ricevere mai rifiuti o disubbidienze ai suoi ordini.
Gli chiesi: -Chi sei?-
-Sono il fondatore, il costruttore del castello!-
Era più folle di me, il rudere era stato costruito secoli prima.
Invece quello proseguì: -Ai miei tempi nessuno si sarebbe   permesso di alzare lo sguardo su me, quando alzavo la voce.
Questo conta molto! Sei un mio pari!-
Scomparve come era arrivato e al suo posto trovai una croce, scavai. Rinvenni i resti mortali di un signore in una grande armatura dorata: aveva in una mano scheletrica una pergamena con scritto chiaramente il mio nome: era la dichiarazione a nuovo Signore di Sassiduri, Principe di diritto, erede legittimo.

LIBRI . racconto di Arduino Rossi


LIBRI

Lo scopo della mia vita era lo studio: leggere e accumulare appunti per un'opera mastodontica che avrei chiamato l'enciclopedia.
Non sarebbe stata come quella degli enciclopedici del secolo dei Lumi, ma come una nuova pietra fondamentale del sapere moderno.
Stavo accumulando dati su tutto lo scibile umano, dalla biologia all'astrologia, dal mondo delle fiabe a quello delle musiche giovanili rumoreggianti e legate al consumo delle droghe.
Ero il bibliotecario di una piccola biblioteca di periferia che aveva pochi utenti, per di più vecchi professori con le loro manie culturali, specializzati su autori latini e greci.
Avevo uno scatolone dove erano ammucchiate centinaia di quaderni con le bozze di quanta anni di impegno.
Mi mancava solo la casa editrice disposta a far stampare tutto quel materiale, anche a pagamento, ma per pubblicare il tutto mi serviva una somma enorme.
Sostenevano che non avesse valore commerciale un'edizione così grande volume di dati e date senza scopo alcuno se non quello della pura conoscenza pedante.
Non esistevano più gli amanti delle nozioni e delle informazioni senza scopo se non quello della pura divulgazione.
La ricerca del denaro per far entrare in biblioteca il mio lavoro di tutta la vita era diventata un'ossessione, io non avevo mai desiderato denaro: ero uno scapolo abitudinario, con i ritmi precisi e ripetitivi, quasi maniacali senza fantasia.
Mangiavo alla data ora, andavano sempre a letto alle venti e mi alzavo alle cinque del mattino in qualsiasi stagione: mi lavavo le miei cose, mi preparavo la mia magra colazione.
Mi sistemavo il mio vestito grigio con la cravatta intonata e il mio cappello, tenuto con religiosa precisione.
Ero stato indifferente alle mode e il mio vestiario era particolarmente antiquato: i giovani sorridevano vedendomi passare, per loro ero un rudere vivente.
Come potevo ottenere denaro?
I miei risparmi non erano sufficienti, la mia liquidazione avrebbe coperto la metà della spesa, mentre io volevo vedere pubblicato tutto al più presto.
Temevo che un malore mi avrebbe portato all'altro mondo senza poter concludere la mia opera.
Era questa la seconda ossessione che non mi lasciva dormire: dover lasciare tutto qui senza aver visto la fine del mio impegno, mi terrorizzava l'idea perché mi pareva di non dare un senso alla mia vita.
Di libri la mia biblioteca ne conteneva più di duecentomila: era un vero tesoro di antichità e di rarità.
Ero l'unico a sfogliare i testi più preziosi, i manoscritti più belli, miniati con gusto aristocratico.
Fu proprio in uno di questi miei tesori, come li chiamavo io, che scovai la mia fortuna o sfortuna se preferite: era la descrizione di un enigmatico covo di briganti, proprio nella parte vecchia della città è sotto un edificio che oggi non esiste più.
Lì, secondo il libro, c'era l'oro dei poveri, le pietre preziose dei miseri, l'argento della madre terra.
Poteva essere benissimo simbolico e rappresentare virtù cristiane, ma volli andare sino in fondo alla questione.
Non fu facile convincere il custode dello stabile che sorgeva al posto del monastero in parte abbattuto il secolo scorso: con una buona mancia il burbero guardiano mi lasciò scendere negli scantinati, tra topi e ragni, come diceva lui, tra reperti archeologici come sostenevo io.
Infatti di resti di precedenti costruzioni, pre-romane e medievali ne individuai parecchi, ma non ero sceso per quello: dovevo trovare il corridoio che portava al covo, o se preferite al nascondiglio dei briganti.
La porta delle segrete era stata murata secoli prima, ma c'era ancora la traccia degli antichi cardini: non era da lì che sarei riuscito a penetrare nella sala del mio tesoro.
Avrei dovuto cercare in un altro tratto, forse dalla chiesa
patronale.
Attesi la sera e mi nascosi nel confessionale, il sagrestano chiuse le porte e se ne andò, così potei uscire indisturbato.
Fu facile trovare la porta dei sotterranei, era rimasta aperta e la conoscevo benissimo, grazie alle mappe che avevo in biblioteca.
Fu facile arrivare all'imbocco degli scantinati dell'antico convento, meno facile fu penetrarvi.
C'era una massiccia porta di legno, ma per fortuna la serratura si era arrugginita: forzarla fu semplice.
Da molti anni nessuno era entrato in quelle gallerie e l'aria era fetida, ma non mi importava, dovevo giungere sino al mio scopo.
L'oro c'era, pure l'argento e le pietre preziose, il libro non
aveva mentito, ma pure mi sembrava troppo facile la mia scoperta: possibile che nessuno si era accorto di quella porta e non si era inoltrato in quei tratti dei sotterranei?
Il mio problema principale era quello di ritornare a casa, procurarmi i mezzi per portare con me quelle ricchezze e spenderle senza dare sospetti.
Non era un'operazione facile: cominciai a riempire la borsa di canapa che avevo con me, poi tornai sui miei passi, ma ben presto mi accorsi di essermi smarrito.
Eppure la mappa non doveva essere sbagliata: le gallerie erano lunghe solo poche centinaia di metri e nulla più.
Mi stavo facendo prendere dal panico: dovevo al più presto richiudere la porta, senza lasciare tracce di scasso e nascondermi in chiesa, per uscire indisturbato con la gente della prima Messa, all'alba.
Finalmente scovai una nuova porta, uscii all'aperto, proprio in una piazza che non avevo mai visto.
C'era un buio tenebroso, la notte era illuminata dalle stelle e da qualche bagliore che usciva dalla finestra.
Il silenzio era pesante, qualche ombra si notava in fondo alla piazza.
Non seppi riconoscere il luogo, eppure la mia città la sapevo percorrere anche a occhi chiusi: quello era un posto sconosciuto, mai visto se non in un vecchio quadro.
Era impossibile, il borgo di san Giovanni era stato abbattuto nel seicento, quando decisero di allargare la cinta muraria: quel posto non doveva più esistere.
Dei cavalli nitrivano in una stalla vicina, c'erano delle torce ai quattro angoli della piazza e il fumo saliva lieve, mentre la mia vista si stava abituando a quella notte del passato.
Dove ero finito?
I libri di negromanzia parlavano di una seconda città dentro la prima, uguale nei secoli, dove vivevano i morti.
Era assurdo: le mie letture mi avevano offuscato la ragione, non riuscivo a ritrovare altra spiegazione, benché irrazionale.
Il fetore della morte saliva dai borghi sparsi nella campagna: era proprio come nel quadro che tenevo sopra la mia testa da quarant'anni, un paesaggio lugubre che descriveva la pestilenza del seicento.
Udii i carri dei monatti percorrere le vie, i corpi abbruttiti dal morbo, i brutti musi dei porta cadaveri, ceffi sfuggiti al patibolo per la necessità di braccia disposte a sotterrare i morti.
Le torce illuminavano visi terrorizzati o straziati dal dolore, dal terrore di una morte tanto prossima quanto sicura.
Sapevo che il pittore del quadro era stato uno stregone ed era morto sul rogo, ma non sarei mai immaginato che un giorno sarei terminato in un tranello simile: la trappola dei defunti.
Tornai sui miei passi, ma non riuscivo ad orientarmi in quelle tenebre, finalmente rintracciai il convento dei frati neri: vi entrai senza chiedere permesso.
Tutte le porte erano aperte e ogni angolo era zeppo di corpi di moribondi o di cadaveri.
Scesi nella cripta, tra frati oranti, indifferenti a me e al mio abbigliamento per loro insolito.
Trovai la sala del tesoro e decisi di lasciare il mio bottino al suo posto: fu facile individuare l'uscita e attendere la fine della notte tra le colonne della chiesa.
Fuori cercai di capire cosa mi era capitato: poteva essere stato un incubo, ma era reale e mi aveva lasciato l'odore tremendo di cadaveri.
Trovare una spiegazione non fu facile, ma decisi di non tornare a casa se non con il mio oro.
Mi procurai una grande borsa e un sacco per i preziosi, l'argento l'avrei preso un'altra volta.
Mi lessi la sbiadita mappa del borgo di San Giovanni, per non perdermi e scrissi queste memorie, se per caso non dovessi tornare.
So di rischiare di non riuscire più a trovare la via di uscita da quella città celata, ma non ho altre possibilità: quell'oro mi serve.
Si dice che quello sia un limbo o un inferno, dove il tempo sia sempre uguale, una notte perpetua ti avvolge e non ti rimane che stare accanto ai moribondi e ai cadaveri per l'eternità.
Vi racconterò ogni particolare quando sarò tornato.
-Altro non scovai sul Signor Parte, scomparso l'anno scorso.
Come bibliotecario che lo ha sostituito scartabellai tra i volumi
e rintracciai il foglio scritto da questo vecchio pedante di
altri tempi, grazie all'accuratezza che ho nel ricercare e riordinare i volumi.
Dovrei consegnare questo foglio alla polizia, ma temo che servirebbe ad avvallare la teoria della pazzia di Parte, invece io credo all'esistenza di questa città segreta e del tesoro nascosto.
Ho deciso di avventurarmi nei sotterranei della chiesa patronale e se non tornassi pregate per me.-

L'INFILTRATO .... racconto di Arduino Rossi


L'INFILTRATO

Eravamo giovani e pronti a tutto, ci eravamo arruolati "nell'Esercito di Liberazione Nazionale" per difendere le nostre idee e subito, dopo un lungo anno di addestramento, ci mandarono oltre le linee nemiche, con documenti falsi.
Eravamo la quinta colonna, pronta ad agire unita se il comando generale l'avesse ordinato, ma le cose non andarono così, la guerra non ci fu, ma solo lunghi snervanti anni di pace.
Rimanemmo ai nostro posti, sempre decisi a non arrenderci, tanto nessuno ci conosceva, tranne il comandante in capo e i suoi fidati amici, tutti morti in un incidente aereo.
Non ci rimase che mantenere la nostra seconda personalità, ci sposammo, avemmo figli e incominciammo a invecchiare: nessuno sapeva nulla di noi, esercito nascosto e arrugginito, senza più patria per combattere.
La tensione dei decenni precedenti era sciamata in collaborazione e la nostra causa si era sfaldata senza lasciare rimpianti che in noi, duri e sempre pronti a morire, a uccidere al semplice comando.
Quanti eravamo non lo sapevo, forse mille, forse diecimila: avevamo un'azione da compiere prima di tutto e poi continuare a creare disordine, sabotare le linee nemiche sino all'arrivo dei nostri o alla morte.
La mia esistenza era tranquilla, mia moglie era convinta che provenissi dall'entroterra e che avessi un nome comune a tutti gli originari della provincia di montagna: in realtà non avevo alcun legame con il passato di quel paese, che lo odiavo più di ogni altra cosa.
Tutto andava bene, era una domenica pomeriggio e mi dedicavo al giardinaggio come al solito.
I ragazzini giocavano, quando dalla vecchia radio, collegata in soffitta, partì un segnale acutissimo: mi precipitai per essere certo che quello era il messaggio.
Noi non avevamo più nemmeno un esercito e forse qualcuno, di là, si stava divertendo con qualcosa che nemmeno lui sapeva cosa potesse provocare.
Tentai di collegarmi con la base o con i miei commilitoni, fu vano, tutto era stato bloccato per impedire intercettazioni.
Mia moglie mi chiese che diavolo stavo combinando, non badai a lei né ai miei figli: scesi in cantina e ruppi con una mazza il muro sigillato trent'anni prima.
Estrassi le armi e l'esplosivo, controllando l'efficienza, poi misi tutto in una borsa e partii.
La mia meta era la vicina base militare, dovevo uccidere immediatamente il comandante, uscire vivo, se riuscivo, poi continuare ad agire sino alla mia morte, visto che nessun esercito di liberazione sarebbe giunto in mio soccorso.
Fu facile entrare in caserma, la vigilanza era scarsa, essendo un giorno di festa nazionale.
Arrivai nella palazzina, dove c'era il comandante con i suoi ufficiali, ruppi un vetro e fui dentro, nella sala di attesa, bussai, sentii: -Avanti!-
Non aspettai, erano presenti tutti i principali ufficiali della caserma e fu facile scaricare il mio fucile mitragliatore su tutti.
Fuggii via prima che gli uomini di guardia mi potessero raggiungere, poi ancora agile, scavalcai il muro di cinta, mentre qualcuno mi urlava: -Si fermi o sparo!-
Non riuscì a colpirmi, perché svicolai rapido.
Avevo condotto la mia prima azione: ero meritevole di medaglia, ma certamente nessuno mi avrebbe decorato o stimato come un eroe.
Me ne infischiai: il dovere stava sopra tutto.
Ora dovevo far saltare il ponte della ferrovia: mi impossessai di una macchina e fui vicino ai binari, mi arrampicai sui tralicci e collocai il plastico nei punti prestabiliti.
Mi calai con una corda e in pochi minuti il ponte era in fondo al vallone, nell'acqua del fiume.
Ero orgoglioso di me, del mio coraggio e dell'agilità che avevo mantenuto in tutti quegli anni.
Chissà quante azioni sarebbero andate a termine in quella giornata afosa di luglio?
I miei commilitoni stavano certamente martoriando quel maledetto Paese.
Era l'ora del ritrovo di chi, nella zona, era sopravvissuto: avremmo assaltato i convogli di passaggio.
Ero stato molto veloce, perché sul "Colle Bruciato" ero  solo, non importava: sarei rimasto ad attendere.
Le ore trascorsero e nessuno giunse: erano tutti morti?
Qualcuno aveva tradito?
Non potevo più rimanere allo scoperto, decisi di rischiare e tornare a casa per tentare un contatto via radio: mia moglie dormiva, sicuramente si era preoccupata, immaginando che fossi impazzito.
Riuscii a non svegliare i miei figli e lei, quella che consideravo la mia copertura e tortura: era assillante, monotona, sempre insoddisfatta.
La radio era al suo posto: i miei la consideravano un residuato bellico e non la toccavano, indifferenti.
Inviai i miei messaggi, tutto era tranquillo. 
Il segnale d'allarme era scomparso, poi mi venne un dubbio atroce, che presto fu confermato: mio figlio minore aveva manipolato l'apparecchio e lo aveva decodificato, quel maledetto era intelligente quanto me.
Aveva combinato un guaio terribile, facendo partire il messaggio di azione solo dal mio apparecchio.
Io avevo agito, sprecando armi ed esplosivo.
Che potevo fare ora, accesi la televisione ed ascoltai il telegiornale speciale della notte: -Un terrorista sconosciuto ha assassinato tre ufficiali nella base militare di G.. Subito dopo altri criminali hanno fatto crollare un ponte ferroviario della zona!-
Avevo agito da solo, ormai non mi rimaneva che tornare alla mia copertura, indifferente all'accaduto: se mi avessero arrestato mi sarei suicidato.
Invece nessuno venne alla mia porta a bussare.
Mia moglie mi rimproverò la mia fuga precipitosa.
Mi scusai con una bugia, ma lei si preoccupò del sole: -Quante volte ti ho detto di coprirti il capo quando lavori in giardino!
Ho letto sulla rivista "Noi Donne" che un signore ebbe...-
Iniziò a raccontarmi vicende assurde lette su quelle stupide riviste di pettegolezzi e baggianate.
Dissi sempre: -Sì! Cara!-
La baciai sulla guancia per calmarla, ma lei ormai proseguiva nella sua narrazione, che inglobava fantasie, avvenimenti di ogni tipo.
Non la sentivo più e mi immaginai cosa sarebbe successo se realmente il nostro esercito avesse invaso quel Paese di stolti: saremmo caduti in combattimento tutti o avremmo preso il potere.
Io sarei diventato un eroe e non lo schiavo di una sciocca pettegola, dei suoi figli petulanti e grassi, irriverenti verso il loro padre.
Ero un eroe senza nome, avrei preferito morire in battaglia: quell'esistenza squallida era peggiore di un campo di prigionia nemico.

narrativa . La Città ... racconto di Arduino Rossi

    LA CITTA'

Avevo finalmente ottenuto il cambiamento di sede dopo anni, troppi anni di attesa.
La Direzione Centrale si era ricordata di me, forse per caso, forse grazie a qualche raccomandazione.
Per anni l'Onorevole mi aveva promesso e ripromesso passaggi di carriera, riconoscimenti e l'agognato trasferimento, ma solo dopo trent'anni ero riuscito ad averlo.
Mi dettero il mio nuovo ufficio, bello, pulito, spazioso con le giovani segretarie provocanti.
Non mi ero sposato: nella mia vecchia dimora ero certo che, se avessi trovato una moglie del luogo non mi avrebbe seguito al mio paese, mentre quelle della mia terra non erano disposte a trasferirsi a Nord, tra le nebbie di una città di provincia, piovosa e anonima.
Che importa! Il tempo era trascorso, ma alla fine avevo ottenuto ciò che mi ero proposto.
Certamente la nuova città non era bella come avevo sognato in tutti quegli anni.
Qua tutti la chiamavano l'Urbe, senza dirmi esattamente dove fosse collocata, in che regione, nell'entroterra o sul mare.
C'era un castello a dominare i borghi, alto con le torri nere, sempre in ombra, le mura erano solide, di pietra granitica.
La gente la chiamava la fortezza: sostenevano che era meglio non finirci dentro, ne parlava a bassa voce, con terrore, poi se ne andava, sfuggendo a qualsiasi altro chiarimento.
Il mare non era distante, lo intravvedevo dalle strade più alte e ne sentivo la brezza, con il suo profumo di salsedine, ma era scuro, anche di giorno.
Il sole non osava brillare con tutta la forza che avrebbe dovuto avere, c'era sempre un po' di penombra.
Il mio nuovo posto di lavoro era dentro un grande edificio che
forse era stato, un tempo, il carcere: su tutte le finestre c'erano delle inferiate, l'intonaco era scrostato.
Il fumo delle candele, dei lumi antichi avevano scurito le pareti interne.
Scritte di disperati erano su ogni pietra ad altezza d'uomo, con storie di morte e di dolore.
Incontrai finalmente il Capo Ufficio, un ometto calvo, proveniente dalla mia regione, deducendo dalla pronuncia.
Mi disse: -Maledizione! Che vuole che le dica? Siamo tutti qui e da qui non ci muoveremo più! Il lavoro avrà tempo di conoscerlo, è sempre quello: registrare i nomi dei nuovi arrivati, è tutto!-
Io non ero stato religioso, ma quella era probabilmente la città meno attenta alla fede che avessi mai conosciuto: forse i comunisti avevano preso il potere e avevano abolito ogni simbolo, ogni traccia di sacro?
Non c'era una chiesa, ma neppure le vestigia di un tempio in decadenza, né una sinagoga, o un qualsiasi luogo di culto.
Chiedevo giustificazioni, con insistenza ai passanti ma era vano: -Ormai non serve più implorare Dio! Quello che potevamo fare non lo abbiamo fatto ed ora non rimane che rassegnarci!-
Certamente intendeva dire che eravamo sotto un regime autoritario, una maledetta dittatura feroce che impediva anche ai bigotti di pregare e di praticare i loro riti.
Comunque ciò non aveva una grande importanza per me.
Io ero un laico, ma la proprietà privata non la dovevano   toccare: avevo in banca i risparmi di una vita e non avrei permesso a nessuno di impossessarsi di quei pochi, o tanti, milioni, tanti per me, ma pochi per i sacrifici sostenuti.
Li tenevo stretti per la vecchiaia, non li avrei ceduti a nessuno, neppure ai miei parenti, a quelle sanguisughe maledette, sempre pronti a chiedere e nulla dare.
I nipoti sono una brutta categoria: non mi lasciavano spazio per vivere, neppure per i pochi abitudinari vizzi.
Mi pedinavano e appena sapevano che frequentavo qualche donna del mestiere andavano subito a svergognarmi in paese, temevano che scialacquassi la loro eredità.
Per me non era un disonore, ma si sa: io avevo un reputazione da impiegato pubblico da far valere: c'era il decoro per il mio ceto, per la mia posizione da impiegato pubblico.
La mia posizione, mi costringeva a una certa riservatezza nei comportamenti.
Ero stanco di tutto ciò che mi stava capitando, non si poteva vivere in quell'incertezza, fui sul punto di prendere un'iniziativa audace: andare direttamente dal Direttore Generale e pretendere spiegazioni.
Ero stato un impiegato ligio e non avevo meritato il trasferimento in quella località che nessuno voleva pronunciare con il suo nome.
L'ufficio era vuoto, le porte sbattevano e nemmeno le segretarie erano ai loro posti, era una negligenza grave: il vento faceva volare gli atti sui tavoli e i locali erano senza un minimo di vigilanza.
Presi una decisione: sarei salito al castello, infischiandomi dei consigli dei timorosi cittadini.
Alla peggio sarei tornato nella città di partenza, ormai la sentivo mia e non mi sarebbe dispiaciuto trascorrere la vecchiaia in quei posti un po' monotoni, grigi, ma zeppi di ricordi.
Sentivo che la gente avesse intuito la mia intenzione.
Mi urlarono: -Si fermi! Non faccia pazzie! Là non scherzare, ci sono punizioni che nemmeno Lei può immaginare!-
Ero troppo infuriato, avrei affrontato pure il Diavolo in persona.
Il Diavolo? Ecco il perché!
Forse si poteva spiegare tutto con quello che mi stava passando per la testa. Forse!...
No! Era pazzesco! L'idea che mi stava balenando era inaccettabile.
Comunque quello era il peggiore incubo della mia vita.
Mi sedetti su un muretto, che era un atto poco adatto alla mia condizione di contabile capo, ma ero troppo stanco per preoccuparmi ancora dell'etichetta.
Cercai qualche spiegazione ai miei dilemmi, per la prima volta mi accorsi che non mi rammentavo quando e con che mezzo fossi giunto lì: non era una lacuna della mia memoria, io ero sempre stato preciso.
Ero andato a letto presto per alzarmi riposato per il lavoro, poi non ricordavo più nulla, né ordini di trasferimento, né viaggi o altro.
Stavo sognando? Impossibile, tutto era reale, fisiche, tastabile.
Per la prima volta il dubbio divenne certezza: ero morto, deceduto nella notte e quella città era l'Oltretomba.

Racconto . Il Folle .... racconto di Arduino Rossi

 IL FOLLE

Era da tempo che udivo quella voce: mi risuonava nella testa con il suo parlottare continuo.
Avevo terrore: ero diventato pazzo?
Realmente Giovanni mi parlava?
Sentire la voce di un morto mi faceva star male: non dormivo più, non lavoravo.
Non mi interessavo all'esistenza: percepivo questo chiacchiericcio come se avessi nella testa sempre una radiolina accesa.
A dire il vero Giovanni o chi per lui, non parlava a me: sembrava che si rivolgesse a qualche misterioso interlocutore, ignorandomi con distacco, forse con disprezzo.
Mia moglie mi convinse che ero stanco: quello era solo un esaurimento nervoso.
Lei mi accompagnò da un medico, uno psichiatra: mi visitò, mi fece diverse domande.
Era indifferente alle mie rispose, sicuramente assurde per lui: -Chi è costui con cui le parla?-
-Giovanni! Il mio compare di stravizzi da giovane.-
Il dottore, enigmatico, avvolto nel suo camice bianco, restava tranquillo dietro il suo tavolo da lavoro: non ebbe reazioni alle mie spiegazioni irrazionali.
Giovanni, prima di morire, mi aveva promesso di darmi la prova dell'esistenza della vita dopo la morte.
Così fu di parola: mi "trasmetteva" i suoi pensieri da defunto.
Avevo perso la scommessa con lui e avrei dovuto pagare il mio debito.
Mia moglie non conobbe ragioni: mi fece internare in una clinica psichiatrica.
Potevo passeggiare ore nel vasto parco ben curato, con molti fiori, tanti uccelli canori sugli alberi secolari.
Era un paradiso, ma io vi stavo male: era stretto per me.
Desideravo la mia libertà per annunciare al mondo intero la mia novella.
Non esisteva la morte: la vita era un sogno, un incubo molte volte, ma poi ci si svegliava nell'altra vita.
Era un'antica rivelazione, ma questa volta io avevo la certezza assoluta, le prove.
Sentivo la voce di un morto, che mi faceva sapere in anticipo ciò che doveva accadere: sciagure, incidenti potevano essere evitate grazie a me.
Io conoscevo e dicevo.
Purtroppo potevo solo svelare la verità alle infermiere, che non mi ascoltavano.
Finalmente dovettero costatare l'evidenza: io prevedevo sventure e morti con assoluta precisione.
Il direttore mi fece chiamare e anche a lui più volte gli comunicai ciò che sarebbe avvenuto di grave in quei giorni: terremoti, guerre, incidenti, ero preciso in ogni dettaglio.
Non ero più considerato un pazzo, ma un pericolo.
La spiegazione data fu quella che fossi io a provocare ciò che annunciavo: il direttore psichiatrico mi fece trasferire nelle cantine della clinica, in attesa di prendere provvedimenti nei miei confronti.
In realtà i motivi erano diversi: temevano la mia chiaroveggenza.
Giovanni mi comunicò che presto l'avrei raggiunto: infatti aggiunsero del veleno alla mia minestra.
Io mangiai senza protestare e caddi a terra rantolando.
I soccorsi giunsero deliberatamente tardi, quando ero già dal mio amico fantasma.
Il giorno del funerale scoprii che mia moglie si era già consolata: era con il suo amante, che da tempo frequentava.
La gente non la biasimò: -Poverina! Il marito era da tempo malato, rinchiuso in manicomio!-
Il mio ricordo rimase, per loro sfortuna.
Avevo scritto dei memoriali, con tutti i particolari specificati: i numeri di conto in banca, tutti i falsi, le corruzioni del direttore della clinica, di mia moglie, del suo amante.
Per ultimo avevo rivelato come ero stato assassinato.
Un'infermiera trovò i miei scritti e lì spedì al magistrato inquirente.
Ora sono io che vado a far visita a Elena, mia moglie, al suo amante, al simpatico direttore psichiatrico di Villa Gioiosa.
Non sono molto contenti della mia presenza, ma non la svelano a nessuno.
Non vogliono essere trasferiti dal carcere al manicomio criminale, dove finiscono i carcerati con turbe psichiche.

Intercettazioni . Berlusconi è estraneo al complotto del giornale Panorama... di famiglia

Il Presidente dell Repubblica, Napolitano Giorgio, è furioso per la pubblicazione  sul settimanale Panorama, edito dalla famiglia di Berlusconi Silvio.
In quella telefonata, diffusa da Panorama, lui parlava delle inchieste di mafia e trattative con lo Stato, di politica e di opinioni politiche:  Napolitano ha urlato al completto infame e quindi tutti hanno pensato che il responsabile fosse lui, Silvio Berlusconi.
Il cavaliere però si è dissociato dalla pubblicazione e dice di essere estraneo, totalmente estraneo, ma la questione sta mettendo a rischio la stabilità del governo e della maggioranza.
Silvio è innocente o qualcuno della sua famiglia è più berlusconiano di lui?

una vita per i bambini . Maria Montessori compie 142 anni



Maria Montessori fu una donna dell'Ottocento, anche se  nacque il  31 agosto 1870, ma morì  il 6 maggio 1952, quindi visse parte della sua vita, la parte più importante, nel Novecento.
L'educazione e la famiglia di origine erano quelle tipiche dell'Ottocento, infatti lei seppe proporre un modello educativo in rispetto dell'infanzia, mettendo al centro il fanciullo come persona unica, con le sue energie e con la sua morale, la sua forte capacità di provare sentimenti, amore e affetti.
Lavorando sugli stimoli e sulla libertà il metodo montessori cercava e cerca di sviluppare l'intelligenza, ma soprattutto l'autodisciplina del bambino, per crescere un individuo autonomo.