IL PRINCIPE
Il fieno era fresco e profumava di primavera.
Dormire nella stalla con i cavalli mi era sempre piaciuto e da ragazzo passavo le notti estive nelle stalle.
Ero considerato un pazzo dalla mia famiglia, ricchi mercanti di bestiame e di terreni, gente pratica con le idee chiare e il senso del denaro nella testa, anzi nelle vene.
Spesso mi prendevo un cavallo, dei più bizzosi e selvaggi.
Cavalcavo sotto il cielo stellato in cerca di non so che, forse un po' di natura libera e violenta, senza alcun limite, tra blu, rosa e viola dei prati inselvatichiti delle radure tra le rocce delle colline brulle, tra la macchia della terra di nessuno.
Mi inoltravo sin dentro la selva del castello, così denominata perché la proprietà era ancora in mano ai vecchi principi di Norbo, gente fiacca e senza intelligenza.
Era una stirpe nobiliare ormai imbastardita e priva di animo umano: si diceva che fossero delle vere bestie nei modi, nell'atteggiamento, nel parlare.
Possedevano vaste terre che erano rimaste incolte per negligenza, per stoltezza, per la disonestà dei fattori.
L'ultimo dei Norbo aveva poco da campare e io ero deciso ad acquistare le sue proprietà, nonostante i miei fratelli mi sconsigliassero: -E' terra cattiva, che non darà mai frutto! E' arida o boschiva, ma non si riesce a strappar nulla da quelle zolle: il Diavolo ci ha messo di mezzo la zampa!-
I miei fratelli erano superstiziosi come donnicciole e nonostante la loro mentalità pratica non si alzavano mai al di sopra della credulità dei rustici.
Io invece non credevo ai detti, alle leggende, ai pregiudizi del popolino: ero l'unico della mia famiglia ad avere studiato.
Ero l'unico che se ne infischiava di affari, di compravendite, di cavalli e vacche: dicevano che fossi nato signore e per i miei compaesani questo non era un complimento.
Divenni così il proprietario di un castellaccio mezzo diroccato, di tante ortiche e di alberi curvi e secchi, o nodosi come quelle di un dannato sotto le bastonate del diavolo.
Avevo come rendita unicamente il magro pedaggio dei pastori, che transitavano e pascolavano in estate, mentre il taglio dei boschi mi rendeva così poco che li feci sospendere.
Comunque quel poco mi bastava e mi accontentavo di pane e formaggio, di un po' di legna per l'inverno e di quattro assi per sistemare qualche muro pericolante.
Facevo anche il muratore e trascorrevo il mio tempo a chiudere
crepe, a ricomporre parti crollate, a rinforzare pavimenti instabili.
Infondo quella era la mia reggia, grande quanto inutile, ma stupenda quanto rustica: mi sentivo il nuovo signore di Sassiduri, così l'avevano richiamato, ma in realtà era il feudo di San Lorenzo.
Presto mi feci passare come ultimo erede della stirpe del Norbo e i passanti incuriositi si chiedevano come era possibile che quella gente così corrotta e lasciva avesse potuto generare un uomo alto, robusto, deciso come me.
Infatti avevo la nobiltà dei feudatari di un tempo, quando essere
signore significava essere un guerriero ardito e senza tante remore.
La gente del posto sapeva chi fossi, ma stavano al gioco e presto si scordarono chi fossi realmente confondendomi con un nobile.
Tra le rovine della cappella ritrovai vecchie corazze e mi immedesimai nella parte di un cavaliere di venduta coraggioso, leale, pronto a difendere la sua terra e il suo Re.
Divenni così il Pazzo di Sassiduri e mi beffarono per questa mia mania: mi presentavo in corazze ai forestieri e pretendevo di essere ossequiato come un feudatario di altre epoche.
Invece folle non lo ero, sapevo ciò che facevo e ben presto i miei compaesani ebbero bisogno di me: il colera colpì le campagne basse e calde, una gran folla di profughi giunse sino a noi, ultimo paese delle terre alte, prima della frontiera, era un popolo di disperati che non sapeva cosa fare né dove andare.
Sarebbero stati respinti dalle guardie di confine e la mia gente invece li avrebbe affrontato a fucilate se avessero tentato di superare il ponte che conduceva al villaggio.
Ne sarebbe nato un feroce scontro con altri morti e feriti, oltre a quelli del morbo: come nobile e coraggioso signore decisi di offrire la mia modesta dimora ai fuggiaschi, evitando un inutile spargimento di sangue.
In quei giorni mi prodigai per soccorrere moribondi e malati, non disdegnando il contatto da Buon infermiere, ma rimanendo in salute sino alla fine della moria.
I superstiti se ne tornarono alle loro case ringraziandomi e benedicendomi: ero matto, ma sicuramente un buono e generoso.
Anche tra la mia gente ci fu chi riconobbe i miei meriti, ma nessuno volle ringraziarmi, anzi mi accusarono di essere stato dalla parte della gente della piana, da sempre loro rivali.
Non mi preoccupai delle loro opinioni e proseguii a fare il signore di quella fortezza senza soldati, senza importanza.
Gli anni passarono e i miei capelli divennero bianchi, la mia voce roca, i miei occhi stanchi: la morte non era ancora arrivata ad annunciarmi quale destino mi attendeva e io rimanevo lì, pronto ad ospitare qualche viandante, qualche vagabondo o pellegrino che fosse.
Non chiedevo dove andavano né dove venivano, ma solo per quale motivo si erano rifugiati in quel posto così arroccato e lontano dalle grandi strade di comunicazione del regno: -Siamo dei poveracci e non possiamo pagare i pedaggi del sovrano.
Siamo briganti! Siamo eremiti!-
Erano queste le solite risposte che ottenevo, ma una mi confuse e mi riempì di dubbi: -Sono tornato per vedere chi era rimasto così nobile da continuare la mia missione!-
Chi fosse costui non lo sapevo, forse era un vecchio mercenario, sicuramente un vecchio soldato con molte battaglie alle spalle: aveva l'aria marziale e molte cicatrici di arma bianca sul viso e sulle braccia.
Era forte e dai modi di chi era abituato a comandare e non ricevere mai rifiuti o disubbidienze ai suoi ordini.
Gli chiesi: -Chi sei?-
-Sono il fondatore, il costruttore del castello!-
Era più folle di me, il rudere era stato costruito secoli prima.
Invece quello proseguì: -Ai miei tempi nessuno si sarebbe permesso di alzare lo sguardo su me, quando alzavo la voce.
Questo conta molto! Sei un mio pari!-
Scomparve come era arrivato e al suo posto trovai una croce, scavai. Rinvenni i resti mortali di un signore in una grande armatura dorata: aveva in una mano scheletrica una pergamena con scritto chiaramente il mio nome: era la dichiarazione a nuovo Signore di Sassiduri, Principe di diritto, erede legittimo.