31 ago 2012

narrativa . La Città ... racconto di Arduino Rossi

    LA CITTA'

Avevo finalmente ottenuto il cambiamento di sede dopo anni, troppi anni di attesa.
La Direzione Centrale si era ricordata di me, forse per caso, forse grazie a qualche raccomandazione.
Per anni l'Onorevole mi aveva promesso e ripromesso passaggi di carriera, riconoscimenti e l'agognato trasferimento, ma solo dopo trent'anni ero riuscito ad averlo.
Mi dettero il mio nuovo ufficio, bello, pulito, spazioso con le giovani segretarie provocanti.
Non mi ero sposato: nella mia vecchia dimora ero certo che, se avessi trovato una moglie del luogo non mi avrebbe seguito al mio paese, mentre quelle della mia terra non erano disposte a trasferirsi a Nord, tra le nebbie di una città di provincia, piovosa e anonima.
Che importa! Il tempo era trascorso, ma alla fine avevo ottenuto ciò che mi ero proposto.
Certamente la nuova città non era bella come avevo sognato in tutti quegli anni.
Qua tutti la chiamavano l'Urbe, senza dirmi esattamente dove fosse collocata, in che regione, nell'entroterra o sul mare.
C'era un castello a dominare i borghi, alto con le torri nere, sempre in ombra, le mura erano solide, di pietra granitica.
La gente la chiamava la fortezza: sostenevano che era meglio non finirci dentro, ne parlava a bassa voce, con terrore, poi se ne andava, sfuggendo a qualsiasi altro chiarimento.
Il mare non era distante, lo intravvedevo dalle strade più alte e ne sentivo la brezza, con il suo profumo di salsedine, ma era scuro, anche di giorno.
Il sole non osava brillare con tutta la forza che avrebbe dovuto avere, c'era sempre un po' di penombra.
Il mio nuovo posto di lavoro era dentro un grande edificio che
forse era stato, un tempo, il carcere: su tutte le finestre c'erano delle inferiate, l'intonaco era scrostato.
Il fumo delle candele, dei lumi antichi avevano scurito le pareti interne.
Scritte di disperati erano su ogni pietra ad altezza d'uomo, con storie di morte e di dolore.
Incontrai finalmente il Capo Ufficio, un ometto calvo, proveniente dalla mia regione, deducendo dalla pronuncia.
Mi disse: -Maledizione! Che vuole che le dica? Siamo tutti qui e da qui non ci muoveremo più! Il lavoro avrà tempo di conoscerlo, è sempre quello: registrare i nomi dei nuovi arrivati, è tutto!-
Io non ero stato religioso, ma quella era probabilmente la città meno attenta alla fede che avessi mai conosciuto: forse i comunisti avevano preso il potere e avevano abolito ogni simbolo, ogni traccia di sacro?
Non c'era una chiesa, ma neppure le vestigia di un tempio in decadenza, né una sinagoga, o un qualsiasi luogo di culto.
Chiedevo giustificazioni, con insistenza ai passanti ma era vano: -Ormai non serve più implorare Dio! Quello che potevamo fare non lo abbiamo fatto ed ora non rimane che rassegnarci!-
Certamente intendeva dire che eravamo sotto un regime autoritario, una maledetta dittatura feroce che impediva anche ai bigotti di pregare e di praticare i loro riti.
Comunque ciò non aveva una grande importanza per me.
Io ero un laico, ma la proprietà privata non la dovevano   toccare: avevo in banca i risparmi di una vita e non avrei permesso a nessuno di impossessarsi di quei pochi, o tanti, milioni, tanti per me, ma pochi per i sacrifici sostenuti.
Li tenevo stretti per la vecchiaia, non li avrei ceduti a nessuno, neppure ai miei parenti, a quelle sanguisughe maledette, sempre pronti a chiedere e nulla dare.
I nipoti sono una brutta categoria: non mi lasciavano spazio per vivere, neppure per i pochi abitudinari vizzi.
Mi pedinavano e appena sapevano che frequentavo qualche donna del mestiere andavano subito a svergognarmi in paese, temevano che scialacquassi la loro eredità.
Per me non era un disonore, ma si sa: io avevo un reputazione da impiegato pubblico da far valere: c'era il decoro per il mio ceto, per la mia posizione da impiegato pubblico.
La mia posizione, mi costringeva a una certa riservatezza nei comportamenti.
Ero stanco di tutto ciò che mi stava capitando, non si poteva vivere in quell'incertezza, fui sul punto di prendere un'iniziativa audace: andare direttamente dal Direttore Generale e pretendere spiegazioni.
Ero stato un impiegato ligio e non avevo meritato il trasferimento in quella località che nessuno voleva pronunciare con il suo nome.
L'ufficio era vuoto, le porte sbattevano e nemmeno le segretarie erano ai loro posti, era una negligenza grave: il vento faceva volare gli atti sui tavoli e i locali erano senza un minimo di vigilanza.
Presi una decisione: sarei salito al castello, infischiandomi dei consigli dei timorosi cittadini.
Alla peggio sarei tornato nella città di partenza, ormai la sentivo mia e non mi sarebbe dispiaciuto trascorrere la vecchiaia in quei posti un po' monotoni, grigi, ma zeppi di ricordi.
Sentivo che la gente avesse intuito la mia intenzione.
Mi urlarono: -Si fermi! Non faccia pazzie! Là non scherzare, ci sono punizioni che nemmeno Lei può immaginare!-
Ero troppo infuriato, avrei affrontato pure il Diavolo in persona.
Il Diavolo? Ecco il perché!
Forse si poteva spiegare tutto con quello che mi stava passando per la testa. Forse!...
No! Era pazzesco! L'idea che mi stava balenando era inaccettabile.
Comunque quello era il peggiore incubo della mia vita.
Mi sedetti su un muretto, che era un atto poco adatto alla mia condizione di contabile capo, ma ero troppo stanco per preoccuparmi ancora dell'etichetta.
Cercai qualche spiegazione ai miei dilemmi, per la prima volta mi accorsi che non mi rammentavo quando e con che mezzo fossi giunto lì: non era una lacuna della mia memoria, io ero sempre stato preciso.
Ero andato a letto presto per alzarmi riposato per il lavoro, poi non ricordavo più nulla, né ordini di trasferimento, né viaggi o altro.
Stavo sognando? Impossibile, tutto era reale, fisiche, tastabile.
Per la prima volta il dubbio divenne certezza: ero morto, deceduto nella notte e quella città era l'Oltretomba.