IL BUIO DELL'ALBA
Camminare era il mio
passatempo preferito: non avevo altro i quel borgo campagnolo, dove
mi ero ritirato per trascorrere la vecchiaia.
Non avevo più
interessi da tempo e dopo una giovinezza piena di avvenimenti, fatti
entusiasmanti, avevo messo la testa a posto.
Fui assunto come
impiegato ministeriale, grazie a un mio zio monsignore con appoggi a
corte.
Ero un fedele suddito
dell'Arciduca, Signore della mia regione, florida ed arretrata, dove
ogni innovazione era vista con sospetto.
A vent'anni avevo
partecipato a moti rivoluzionari, con la facilità e l'entusiasma
dell'età: ero finito anche sulle barricate e solo per un miracolo
non mi ero buscato qualche
palla in testa.
Molti miei compagni di
studi, con i miei ideali, morirono combattendo o furono feriti e
imprigionati nelle terribili segrete del palazzo reale.
I pochi che uscirono
per la grazia dell'Arciduca, dopo anni,
erano delle larve
umane: erano ammalati ai polmoni, con pochi anni davanti a sé.
Io invece feci
carriera e presto passai nella Polizia segreta: da giovane
rivoluzionario divenni spia e servitore del decadente sistema
giudiziario, economico, politico di quel piccolo ridente Stato.
Sapevo che eravamo
alla fine di un'epoca.
La storia è
inesorabile: ciò che ha resistito per secoli può crollare in un
solo giorno, quando un potere è così vecchio da non comprendere il
nuovo che incalza.
Feci il mio dovere
sino alla maturità avanzata: ero riuscito a far infiltrare un mio
uomo in ogni gruppo eversivo.
Più che voler
reprimere direttamente tutto e tutti, avrei dovuto far arrestare
metà della popolazione del Ducato, mi limitavo a prevenire rivolte,
complotti, attentati.
I miei metodi si
fondavano sulla delezione, sul tradimento degli amici grazie alle
minacce verso le famiglie.
Con la tortura e gli
arresti segreti, ero riuscito a reggere il potere dell'Arciduca oltre
ogni ottimistica previsione.
La famiglia regnante
era composta da corrotti, viziosi, degenerati nobili principi che non
si curavano dei fatti pubblici: erano interessati più ai
divertimenti di corte, a soddisfare i loro capricci.
I lavori sporchi erano
demandati ai ligi funzionari come me: la riscossione delle tasse e
il mantenimento dell'ordine pubblico era un affare che non doveva
interessare i nobili regnanti.
Sicuramente si
sarebbero liberati di noi appena il loro potere sarebbe stato in
pericolo, scaricando su noi tutte le colpe, tutte le responsabilità.
Chiesi e finalmente
ottenni la mia uscita dal servizio con una magra pensione, con un
discreto premio in denaro per i meriti conseguiti in tanti anni di
fedeltà.
Lasciai ai miei
subalterni il compito di dover patire le ire del popolo, quando
questo si sarebbe rivoltato.
Ero il proprietario di
una vasta tenuta, acquisita in modo illecito, con un esproprio a un
ribelle fuggito all'estero.
Possedevo pure oro,
gioielli e titoli che mi avrebbero permesso di cercare asilo in un
paese straniero quando, eventualmente, le cose si fossero messe male.
Avevo parecchi nemici:
in troppi mi avrebbero messo un laccio al collo per vendicare figli,
mariti, padri da me fatti sparire in modo subdolo.
Quanti morti avevo
sulla coscienza? Molti, tantissimi.
Diversi cospiratori
non avevano resistito alle torture, altri erano rimasti sepolti vivi
nelle segrete del palazzo del potere: una fortezza medioevale con
vasti e intricati sotterranei dove svanivano gli oppositori più
testardi, i caporioni più audaci.
La pace della campagna
mi dava un po' di sollievo e cercavo di aver un buon rapporto con i
villici: gente semplice e buona, ancora fedeli alla Chiesa e al
potere dello stanco Arciduca.
Si parlava di semine,
di fatti piccoli e grandi della comunità.
Io ero anche generoso
con gli orfani e le vedere, con i poveretti e il parroco.
Questo modo di
comportarmi mi aveva reso molto simpatico nel
borgo.
Fu grazie ai miei
contadini che seppi in tempo della sommossa sanguinosa, in corso da
giorni nella capitale: gli studenti erano tornati sulle barricate e
le guardie erano fuggite, come all'epoca della mia rivoluzione
fallita.
Da oltre confine si
muovevano le valide truppe del nostro potente vicino, che veniva in
soccorso di un potere così logoro da cadere a pezzi.
Invece di affrontare
le truppe nemiche questa volta i rivoltosi si erano ritirate sulle
colline.
Si erano riunite con
gli uomini del principe democratico, traditore della nobiltà, che
voleva diventare sovrano di tutti i ducati, di tutte le contee.
La battaglia decisiva
si sarebbe combattuta vicino al mio borgo.
Fui ancora io a
raccogliere informazioni fondamentali, che permisero alle truppe
imperiali di sconfiggere e di rimandare alla prossima occasione la
riscossa dei costituzionalisti.
Il potere restava
assoluto ancora per poco, forse pochissimo.
Per me era importante
morire suddito di un ducato antico e non vivere da cittadino di
qualche repubblica, costretto a subire una democrazia ipocrita e
ciarlona.
Tornai alle mie
passeggiate, lunghe e salutari, che iniziavano all'alba.
Il sole spuntava
appena oltre il confine dell'orizzonte e inondava le colline con i
colori dell'autunno.
La piccola pianura,
con al centro il borgo, era sovrastata dal campanile, dal castello ed
era tutta gialla per le ultime messi.
Ero quasi felice per
la vista di quel panorama la mattina che lo incontrai: era seduto su
una pietra miliare della strada principale.
Mi fissava e
sogghignava: era ancora giovane, sereno e colmo di quell'entusiasmo
che portò con sé sul patibolo, quando urlò il mio nome di
traditore e giurò che si sarebbe
vendicato anche da
morto.
Fu lui a parlare per
primo: -Come stai, Gianmarco? Spero bene!-
L'ultima volta lo
avevo visto penzolare dalla forca: il mio coraggio e il mio cinismo
furono messi a dura prova.
Mi ripresi, certo che
avessi agito per una giusta causa: -Che vuoi? Ti vedo finalmente, hai
mantenuto la promessa!-
-Ti fa piacere
incontrarmi, caro amico?-
-No! Anima dannata!-
Paolo si strinse nelle
spalle: -Dimenticavo! Tu sei un uomo giusto! Hai la coscienza linda!
Tutto il sangue che hai fatto versare non ti pesa sull'anima, perché
confessi ogni giorno questi orribili peccati!-
Quel maledetto sapeva
cosa dicessi al mio confessore, che mi ripeteva: -Meriti sicuramente
il Paradiso: hai agito solo a fin di bene, per la Chiesa e l'autorità
costituita, contro i nuovi empi ideali politici.-
Avrei dovuto liberarmi
dei miei beni, illecitamente ottenuti, dandoli a qualche ordine
religioso o alla parrocchia, così non avrei avuto più colpe da
scontare nell'altra vita.
Invece quello spirito
inquieto di Paolo voleva mettere a dura prova la mia fede, la mia
pace interiore a fatica ricomposta.
-Paolo! Sono pronto a
far cantare per te qualche Santa Messa!-
-Come sei generoso,
caro traditore! Non sai che questo non basta: i Giuda nell'Oltretomba
dovranno pagare con dolori infiniti.-
-Non è vero, menti!
Mi sono pentito amaramente delle mie colpe!-
Paolo iniziò a ridere
come solo lui sapeva fare: in passato le sue risate mi avevano
trascinato in momenti di schietta allegria, nelle bettole o nelle
case di tolleranza per studenti goliardici.
La sua presenza durava
pochi minuti prima dell'alba: l'ora più fosca secondo la tradizione
popolare, quando gli spiriti incontrano i vivi.
Io non volevo
dimostrarmi vigliacco, neppure davanti a uno spettro: mi presentavo
poco prima dell'aurora, quando la luce si diffonde tenue e grigia.
Lui appariva con i
primi raggi del sole, prendeva forma come un'ombra naturale: per me
era così ovvia la sua presenza che lo considerai un conoscente con
cui scambiare quattro chiacchiere.
Paolo non rinunciava
al suo disprezzo: -Giuda! Cosa ti ha detto il tuo amico prete? Una
Messa non basterà sicuramente! Per mettermi a tacere occorre altro!
Lo sai bene che sono testardo.-
-Anima in pena, che
vuoi ancora da me? Torna all'inferno!-
-Gianmarco, non essere
scortese! Non è nel tuo stile. Stai perdendo la pazienza?-
Mi punzecchiava, mi
tormentava.
Io non potevo
rinunciare a lui come non si possono evitare le nostre cattive
abitudini, che fanno tanto male alla salute del corpo e dell'anima.
Nel tempo ero
diventato un pio osservante delle più rigide tradizioni religiose:
in passato, se avessi saputo che mi sarei trasformato in un bigotto,
mi sarei schernito, scandalizzato.
Gli anni, la paura
della morte con tutte le vittime delle repressioni che tornavano
spesso nei miei pensieri avevano operato quella trasformazione
inaspettata.
Da cinico e
materialista, opportunista davanti al potere della Chiesa, ero
divenuto un accanito frequentatore di novene, di confraternite,
attento a ogni segno del Cielo.
Invece l'unica prova
datami dell'esistenza di qualcosa dopo la morte era quel macabro mio
amico, sempre pronto a deridermi, a farmi sentire a disagio, a
ricordarmi tutte le mie colpe.
Non mi rimase che
donare tutto ciò che avevo, illecitamente posseduto o legalmente
ereditato dalla mia famiglia, ai poveri.
In cambio ottenni una
cella, la più umile, nel locale convento dei frati: mi concessero
pure un pasto caldo e la promessa di un po' preci, dopo la mia morte.
Indossavo anch'io il
saio e a piedi nudi, da penitente, tutte le mattine, all'alba, mi
presentavo all'appuntamento da Paolo: -Hai visto che ora mi sono
spogliato di tutto!-
-Gianmarco, speri che
questo basti?-
-Se non basta, che
devo fare ancora?-
Paolo scomparve, ma il
suo sorriso mi rimase dentro: non era sarcastico come negli altri
incontri.
Non mi tolsi dalla
testa che forse il mio amico avesse ragione: non era sufficiente il
mio pentimento, dovevo fare qualcosa per rimediare al male fatto.
Andai a piedi sino
alla capitale e lì incominciai a denunciare tutte le mie colpe,
chiedendo ad alta voce il perdono dei parenti delle vittime e quello
di Dio.
La notizia che stessi
svelando i crimini del potere si diffuse e giunse anche a corte: i
miei ex-subalterni, che mi odiavano, pensarono bene di farmi
arrestare e di pormi sotto processo.
Fu un giudizio
sommario e rapido, oltre che a porte aperte: l'Arciduca aveva deciso
di liberarsi di me e di scaricare su me le più gravi responsabilità
dello Stato.
Fui condannato a
morte, nonostante la mia condizione di penitente e di reo confesso:
decisero di farmi impiccare al più presto per tapparmi la bocca una
volta per tutte.
Nella mia cella c'era
lui, Paolo, che ora era soddisfatto: -Forse sarebbe stato meglio per
te non tradire: morire con il tuo onore, impiccato a vent'anni. Non
preoccuparti per il dopo: hai terminato bene una vita sciagurata. E'
solo questo che conta per loro, quando sarai di là!-
-Ho paura, Paolo! Mi
accompagni?-
Mi prese sottobraccio
e non fu necessario che le guardie mi trascinassero sino al nodo
scorsoio: salii con un passo sicuro.
Mentre mi mettevano la
corda al collo cantavo una vecchia canzone rivoluzionaria: quella che
i giovani di quarant'anni prima avevano urlato, stonato sulle
barricate, quando stavano per essere falciati dai cannoni caricati a
mitraglia.
racconti di Arduino Rossi