10 set 2012

narrativa ... IL BUIO DELL'ALBA









IL BUIO DELL'ALBA

Camminare era il mio passatempo preferito: non avevo altro i quel borgo campagnolo, dove mi ero ritirato per trascorrere la vecchiaia.
Non avevo più interessi da tempo e dopo una giovinezza piena di avvenimenti, fatti entusiasmanti, avevo messo la testa a posto.
Fui assunto come impiegato ministeriale, grazie a un mio zio monsignore con appoggi a corte.
Ero un fedele suddito dell'Arciduca, Signore della mia regione, florida ed arretrata, dove ogni innovazione era vista con sospetto.
A vent'anni avevo partecipato a moti rivoluzionari, con la facilità e l'entusiasma dell'età: ero finito anche sulle barricate e solo per un miracolo non mi ero buscato qualche
palla in testa.
Molti miei compagni di studi, con i miei ideali, morirono combattendo o furono feriti e imprigionati nelle terribili segrete del palazzo reale.
I pochi che uscirono per la grazia dell'Arciduca, dopo anni,
erano delle larve umane: erano ammalati ai polmoni, con pochi anni davanti a sé.
Io invece feci carriera e presto passai nella Polizia segreta: da giovane rivoluzionario divenni spia e servitore del decadente sistema giudiziario, economico, politico di quel piccolo ridente Stato.
Sapevo che eravamo alla fine di un'epoca.
La storia è inesorabile: ciò che ha resistito per secoli può crollare in un solo giorno, quando un potere è così vecchio da non comprendere il nuovo che incalza.
Feci il mio dovere sino alla maturità avanzata: ero riuscito a far infiltrare un mio uomo in ogni gruppo eversivo.
Più che voler reprimere direttamente tutto e tutti, avrei dovuto far arrestare metà della popolazione del Ducato, mi limitavo a prevenire rivolte, complotti, attentati.
I miei metodi si fondavano sulla delezione, sul tradimento degli amici grazie alle minacce verso le famiglie.
Con la tortura e gli arresti segreti, ero riuscito a reggere il potere dell'Arciduca oltre ogni ottimistica previsione.
La famiglia regnante era composta da corrotti, viziosi, degenerati nobili principi che non si curavano dei fatti pubblici: erano interessati più ai divertimenti di corte, a soddisfare i loro capricci.
I lavori sporchi erano demandati ai ligi funzionari come me: la riscossione delle tasse e il mantenimento dell'ordine pubblico era un affare che non doveva interessare i nobili regnanti.
Sicuramente si sarebbero liberati di noi appena il loro potere sarebbe stato in pericolo, scaricando su noi tutte le colpe, tutte le responsabilità.
Chiesi e finalmente ottenni la mia uscita dal servizio con una magra pensione, con un discreto premio in denaro per i meriti conseguiti in tanti anni di fedeltà.
Lasciai ai miei subalterni il compito di dover patire le ire del popolo, quando questo si sarebbe rivoltato.
Ero il proprietario di una vasta tenuta, acquisita in modo illecito, con un esproprio a un ribelle fuggito all'estero.
Possedevo pure oro, gioielli e titoli che mi avrebbero permesso di cercare asilo in un paese straniero quando, eventualmente, le cose si fossero messe male.
Avevo parecchi nemici: in troppi mi avrebbero messo un laccio al collo per vendicare figli, mariti, padri da me fatti sparire in modo subdolo.
Quanti morti avevo sulla coscienza? Molti, tantissimi.
Diversi cospiratori non avevano resistito alle torture, altri erano rimasti sepolti vivi nelle segrete del palazzo del potere: una fortezza medioevale con vasti e intricati sotterranei dove svanivano gli oppositori più testardi, i caporioni più audaci.
La pace della campagna mi dava un po' di sollievo e cercavo di aver un buon rapporto con i villici: gente semplice e buona, ancora fedeli alla Chiesa e al potere dello stanco Arciduca.
Si parlava di semine, di fatti piccoli e grandi della comunità.
Io ero anche generoso con gli orfani e le vedere, con i poveretti e il parroco.
Questo modo di comportarmi mi aveva reso molto simpatico nel
borgo.
Fu grazie ai miei contadini che seppi in tempo della sommossa sanguinosa, in corso da giorni nella capitale: gli studenti erano tornati sulle barricate e le guardie erano fuggite, come all'epoca della mia rivoluzione fallita.
Da oltre confine si muovevano le valide truppe del nostro potente vicino, che veniva in soccorso di un potere così logoro da cadere a pezzi.
Invece di affrontare le truppe nemiche questa volta i rivoltosi si erano ritirate sulle colline.
Si erano riunite con gli uomini del principe democratico, traditore della nobiltà, che voleva diventare sovrano di tutti i ducati, di tutte le contee.
La battaglia decisiva si sarebbe combattuta vicino al mio borgo.
Fui ancora io a raccogliere informazioni fondamentali, che permisero alle truppe imperiali di sconfiggere e di rimandare alla prossima occasione la riscossa dei costituzionalisti.
Il potere restava assoluto ancora per poco, forse pochissimo.
Per me era importante morire suddito di un ducato antico e non vivere da cittadino di qualche repubblica, costretto a subire una democrazia ipocrita e ciarlona.
Tornai alle mie passeggiate, lunghe e salutari, che iniziavano all'alba.
Il sole spuntava appena oltre il confine dell'orizzonte e inondava le colline con i colori dell'autunno.
La piccola pianura, con al centro il borgo, era sovrastata dal campanile, dal castello ed era tutta gialla per le ultime messi.
Ero quasi felice per la vista di quel panorama la mattina che lo incontrai: era seduto su una pietra miliare della strada principale.
Mi fissava e sogghignava: era ancora giovane, sereno e colmo di quell'entusiasmo che portò con sé sul patibolo, quando urlò il mio nome di traditore e giurò che si sarebbe
vendicato anche da morto.
Fu lui a parlare per primo: -Come stai, Gianmarco? Spero bene!-
L'ultima volta lo avevo visto penzolare dalla forca: il mio coraggio e il mio cinismo furono messi a dura prova.
Mi ripresi, certo che avessi agito per una giusta causa: -Che vuoi? Ti vedo finalmente, hai mantenuto la promessa!-
-Ti fa piacere incontrarmi, caro amico?-
-No! Anima dannata!-
Paolo si strinse nelle spalle: -Dimenticavo! Tu sei un uomo giusto! Hai la coscienza linda! Tutto il sangue che hai fatto versare non ti pesa sull'anima, perché confessi ogni giorno questi orribili peccati!-
Quel maledetto sapeva cosa dicessi al mio confessore, che mi ripeteva: -Meriti sicuramente il Paradiso: hai agito solo a fin di bene, per la Chiesa e l'autorità costituita, contro i nuovi empi ideali politici.-
Avrei dovuto liberarmi dei miei beni, illecitamente ottenuti, dandoli a qualche ordine religioso o alla parrocchia, così non avrei avuto più colpe da scontare nell'altra vita.
Invece quello spirito inquieto di Paolo voleva mettere a dura prova la mia fede, la mia pace interiore a fatica ricomposta.
-Paolo! Sono pronto a far cantare per te qualche Santa Messa!-
-Come sei generoso, caro traditore! Non sai che questo non basta: i Giuda nell'Oltretomba dovranno pagare con dolori infiniti.-
-Non è vero, menti! Mi sono pentito amaramente delle mie colpe!-
Paolo iniziò a ridere come solo lui sapeva fare: in passato le sue risate mi avevano trascinato in momenti di schietta allegria, nelle bettole o nelle case di tolleranza per studenti goliardici.
La sua presenza durava pochi minuti prima dell'alba: l'ora più fosca secondo la tradizione popolare, quando gli spiriti incontrano i vivi.
Io non volevo dimostrarmi vigliacco, neppure davanti a uno spettro: mi presentavo poco prima dell'aurora, quando la luce si diffonde tenue e grigia.
Lui appariva con i primi raggi del sole, prendeva forma come un'ombra naturale: per me era così ovvia la sua presenza che lo considerai un conoscente con cui scambiare quattro chiacchiere.
Paolo non rinunciava al suo disprezzo: -Giuda! Cosa ti ha detto il tuo amico prete? Una Messa non basterà sicuramente! Per mettermi a tacere occorre altro! Lo sai bene che sono testardo.-
-Anima in pena, che vuoi ancora da me? Torna all'inferno!-
-Gianmarco, non essere scortese! Non è nel tuo stile. Stai perdendo la pazienza?-
Mi punzecchiava, mi tormentava.
Io non potevo rinunciare a lui come non si possono evitare le nostre cattive abitudini, che fanno tanto male alla salute del corpo e dell'anima.
Nel tempo ero diventato un pio osservante delle più rigide tradizioni religiose: in passato, se avessi saputo che mi sarei trasformato in un bigotto, mi sarei schernito, scandalizzato.
Gli anni, la paura della morte con tutte le vittime delle repressioni che tornavano spesso nei miei pensieri avevano operato quella trasformazione inaspettata.
Da cinico e materialista, opportunista davanti al potere della Chiesa, ero divenuto un accanito frequentatore di novene, di confraternite, attento a ogni segno del Cielo.
Invece l'unica prova datami dell'esistenza di qualcosa dopo la morte era quel macabro mio amico, sempre pronto a deridermi, a farmi sentire a disagio, a ricordarmi tutte le mie colpe.
Non mi rimase che donare tutto ciò che avevo, illecitamente posseduto o legalmente ereditato dalla mia famiglia, ai poveri.
In cambio ottenni una cella, la più umile, nel locale convento dei frati: mi concessero pure un pasto caldo e la promessa di un po' preci, dopo la mia morte.
Indossavo anch'io il saio e a piedi nudi, da penitente, tutte le mattine, all'alba, mi presentavo all'appuntamento da Paolo: -Hai visto che ora mi sono spogliato di tutto!-
-Gianmarco, speri che questo basti?-
-Se non basta, che devo fare ancora?-
Paolo scomparve, ma il suo sorriso mi rimase dentro: non era sarcastico come negli altri incontri.
Non mi tolsi dalla testa che forse il mio amico avesse ragione: non era sufficiente il mio pentimento, dovevo fare qualcosa per rimediare al male fatto.
Andai a piedi sino alla capitale e lì incominciai a denunciare tutte le mie colpe, chiedendo ad alta voce il perdono dei parenti delle vittime e quello di Dio.
La notizia che stessi svelando i crimini del potere si diffuse e giunse anche a corte: i miei ex-subalterni, che mi odiavano, pensarono bene di farmi arrestare e di pormi sotto processo.
Fu un giudizio sommario e rapido, oltre che a porte aperte: l'Arciduca aveva deciso di liberarsi di me e di scaricare su me le più gravi responsabilità dello Stato.
Fui condannato a morte, nonostante la mia condizione di penitente e di reo confesso: decisero di farmi impiccare al più presto per tapparmi la bocca una volta per tutte.
Nella mia cella c'era lui, Paolo, che ora era soddisfatto: -Forse sarebbe stato meglio per te non tradire: morire con il tuo onore, impiccato a vent'anni. Non preoccuparti per il dopo: hai terminato bene una vita sciagurata. E' solo questo che conta per loro, quando sarai di là!-
-Ho paura, Paolo! Mi accompagni?-
Mi prese sottobraccio e non fu necessario che le guardie mi trascinassero sino al nodo scorsoio: salii con un passo sicuro.
Mentre mi mettevano la corda al collo cantavo una vecchia canzone rivoluzionaria: quella che i giovani di quarant'anni prima avevano urlato, stonato sulle barricate, quando stavano per essere falciati dai cannoni caricati a mitraglia.

racconti di Arduino Rossi