8 set 2012

fantasmi .... L’ULTIMA CORSA ... racconto di Arduino Rossi


L’ULTIMA CORSA

Eravamo usciti dalla birreria cantando, felici e un po’ brilli: la nostra Polo Volkswagen era lì, con il motore ancora bollente e la notte era ancora molto lunga.
Faceva ancora caldo, anche se l’estate era al termine, ma noi non volevamo smettere di divertirci: ci piaceva correre con la nostra forte, potente Volkswagen per i viottoli di campagna, sui colli, tra stradine a malapena asfaltate.
Bevevamo nelle bettole e nelle birrerie, non proprio sino ad ubriacarci, ma sino a  essere molto allegri.
Era bello scherzare, farci dispetti come monelli, suonare i campanelli e scappare  lontano.
I vigili urbani ci fermavano qualche volta, ma eravamo sempre nei limiti della legge quando ci controllavano: non prendemmo mai una multa.
Andrea era il più matto tra noi: -Via! Li abbiamo evitati anche in questa occasione!-
Michele era l’anima saggia e prudente: -Non dobbiamo esagerare!-
Tutti insieme rispondevamo: -Basta! Non romperci con le tue storie!-
Michele ricominciava: -Dovremmo evitare certi eccessi.-
Andrea rideva: -Resta a casa con la mamma, fesso! Se vuoi uscire con noi devi accettare le nostre regole.-
La legge che conoscevamo era quella dei vent’anni: giocare, fare i pazzi, non fermarci mai, convinti che a noi tutto sarebbe andato per il meglio.
Sembrava che la fortuna ci avesse messo sotto la sua protezione: eravamo sempre più audaci e mettevamo a rischio sempre più le nostre vite.
Le ruote della Polo cigolavano sull’asfalto e stridevano nelle curve delle polverose viuzze di terra battuta, tra il silenzio rotto dall'abbaiare rabbioso dei cani e le imprecazioni di qualche contadino svegliato improvvisamente, che accorreva per vedere chi osasse rompere la pace della sua fattoria, ma non riusciva mai a leggere la targa: eravamo già lontani.
Più volte i baristi ci avevano scacciato in malo modo, per poter chiudere le serrande, più volte eravamo andati a pugni con gli ubriachi.
Avevamo anche il vizio di infastidire le puttane che facevano il loro mestiere ai bordi delle strade principali.
Ci maledivano e ci lanciavano mille imprecazioni: -Andate a rompere… alle vostre mogli, alle vostre sorelle!-
Qualche pappone ci inseguiva con la sua macchina, ma gli facevamo sempre mangiare la polvere.
Uno finì in una scarpata: ci arrestammo per soccorrerlo. Non si era fatto nulla, ma continuò ad urlare: -Schifosi! Piccoli idioti!…-
Lo lasciammo con la sua macchina cappottata a sbraitare, mentre noi ci scompisciavamo dalle risate.
Eravamo proprio una banda di buontemponi, buoni a nulla, studenti universitari fuori corso, sempre con una laurea a portata di mano, sempre rinviata per allungare la giovinezza chiassosa.
Di ragazze ne avevamo tante, forse troppe, di progetti pure, ma non ci decidevamo mai a metterli in pratica: uno voleva fare l’avvocato, l’altro il medico, l’altro l’architetto, l’ultimo l’ingegnere meccanico.
I nostri genitori avevano investito denaro e speranze sul nostro avvenire, ma non sapevano che a noi il presente ci interessava di più: forse quella sarebbe stata l’ultima estate di bagordi e non avremmo rinunciato a nulla, a nessuna esperienza .
Ci attendevano lunghi e monotoni anni come seri e tristi liberi professionisti: non sarebbe stato più possibile fare le sciocchezze dei vent’anni, le nostre reputazioni sarebbero state rovinate.
Decidemmo di fare una gara a cronometro: percorrere un circuito da noi prestabilito, il più veloce avrebbe vinto una serata con la ragazza più bella e ambita da noi tutti, Chiara.
Andrea si dimostrò un buon pilota, ma sbagliò la curva principale e uscì in un prato: perse troppo tempo e fu squalificato.
Urlò furioso: -Al Inferno quella curva! Mi perderò per sempre i baci di Chiara!-
Tutti fummo prudenti e fu proprio Michele, il saggio e occhialuto, il più tranquillo, che si dimostrò il più spericolato: ottenne il miglior tempo, percorrendo a una media di 80 Km l’ora le vie buie e deserte , tra grilli e lucciole.
Non sapemmo come fece, ma ci accorgemmo che questo miracolo fu frutto di una cotta terrificante che il buon Michele si era preso per Chiara: -Non avrei permesso a nessuno di uscire con Lei! Sarà solo mia!-
Andrea lo canzonò: -Sei il solito melodrammatico, amichetto mio.-
Michele non stette allo scherzo e forse perché aveva bevuto un po’ troppo, gli saltò addosso e lo coprì di ingiurie, calci e pugni.
Facemmo molta fatica a dividerli, anche perché Andrea, dopo il primo momento di sorpresa, si stava veramente infuriando, diventando molto pericoloso.
Se la cavarono con qualche occhio pesto e le mandibole doloranti, ma senza gravi conseguenze.
Per tutto il resto della sera non si parlarono e fummo costretti a tenerli distanti.
Decisi di guidare io, sentendomi il più assennato, pur avendo ingollato sei birre e un paio di grappini.
Tutto andava per il meglio in quel momento: i due litiganti si erano addormentati, io non badavo alla stanchezza e allo stordimento dei fumi dell’alcool.
Decisi di andare verso il lago e percorrere a tutta velocità la strada panoramica.
C’erano poche luci che si riflettevano sul nero dell’acqua.
Era bello proseguire e sentire il forte ruggito dei pistoni, le gomme fischiare nelle curve, il fresco del vento dai finestrini.
Mi parve un bel gioco, certo che quello sarebbe stato l’ultimo della mia giovinezza, quanto meno della nostra banda di giovani scapestrati, tutti uniti.
Pensavo alla discussione della tesi in Diritto, che avrei sostenuto il giorno dopo: avrei chiuso definitivamente con le notti brave e con le estati scapestrate.
Non avevo detto nulla ai miei amici: l’avei fatto quando ci saremmo lasciati, all’alba come al solito.
Non so cosa mi capitò, ma non vidi proprio l’ultima deviazione a sinistra: andai diritto e per un istante mi convinsi che la mia vita, le nostre vite sarebbero terminate in quella notte, nel lago.
Percepii il vuoto sotto l’auto, il girare delle ruote nell’aria e il tonfo in acqua.
Chiusi gli occhi in attesa dell’ultimo istante, ma un potente accidente di Andrea mi riportò nel mondo dei viventi: -Imbecille! Siamo terminati in una secca! Per tua fortuna qui ci sono solo pochi centimetri d’acqua. Chi mi paga adesso la macchina?-
La nostra fortuna, o un Santo in Paradiso ci aveva protetti ancora una volta: eravamo tutti salvi, anche se bagnati fragili e con qualche livido.
La resistente Volkswagen era un po’ malconcia, ma si sarebbe ripresa anche lei, da un buon carrozziere.
Fu l’ultima mia notte da studente goliardico: il giorno dopo ero già un Avvocato in prova, serio e ligio al dovere, senza più grilli nella testa.

Arduino Rossi

online Enterprise Star Trek Doodle- La serie classica


Enterprise vola ancora, nel mondo della fantasia di Google, ovvero un Doodle ci ricorda i 46 anni di una popolarissima e fortuna serie televisiva, Star Trek.
Lo spazio ci attende e forse non sarà così popolato di ogni tipo di essere fantastico, tanto simile a quelli dei nostri sogni e delle storie popolare, o epiche della terra.
Comunque il sogno dell'esplorazione dell'Universo, dentro e fuori dai canali spazio temporali, dei buchi neri, tra teorie della fisica come l'antimateria, non può che far sperare in un futuro.....radioso per l'umanità, oltre le stelle ovviamente.

storie di paura brevi ......LA TROMBA di Arduino Rossi









LA TROMBA


Suonare fu sempre la mia passione, ma soffiare nella tromba era qualcosa che mi dava la voglia di vivere, quella foga passionale alla quale nulla reggeva il confronto, nemmeno una bella donna.
Ovviamente in famiglia non mi sopportavano più, per questo avevo acquistato una baita in cima al colle del diavolo, tra boschi e rovi.
Lì suonavo quanto volevo: non c’erano parenti disperati che mi supplicavano di smettere.
Era diventato un esperto suonatore, non un vero mago, ma sicuramente un ottimo dilettante.
I miei amici mi indirizzarono verso alcuni locali notturni: mi esibivo durante il fine settimana e così mi pagavo gli studi.
Erano balere popolari, dove respiravo fumo di sigarette e odore di sudore, ma l’estate era dolce tra i pergolati e sotto il cielo stellato.
Cominciai a ritenermi sprecato per quelle orchestre e l’occasione mi fu data da un individuo tutto scuro: aveva l’abito e i capelli neri, gli occhi piccoli e maligni.
Mi fermò all’uscita della mia solita balera: -Giuseppe! Che ne dici di suonare per me!-
-Chi è Lei?-
-Sono solo un impresario e ti ho ascoltato stasera: sei un fenomeno?-
Non credevo alle lusinghe, ma mi facevano sempre piacere.
Gli risposi: -Dove dovrei suonare?-
-Con la mia banda, siamo girovaghi e ci muoviamo in lungo e in largo per il Paese.-
Non mi dispiaceva l’idea e a convincermi definitivamente furono il bel mucchio di soldi che mi dette per confermare il contratto.
Salutai i miei e incominciai a suonare per battesimi, matrimoni, sagre popolari.
Infine anche per funerali.
Mi pagavano bene, ma i tipi con cui io suonavo erano poco allegri: rispondevano alle mie domande con monosillabi, mugugni e alla peggio con magre parole.
Erano in tre oltre a me: erano alti dai visi duri e impenetrabili.
Non sorridevano mai, ma erano dei musicisti eccezionali.
Davide sapeva far piangere il violino, Michel faceva vibrare il flauto con decisione e ardore, Andri pizzicava le corde della chitarra.
La gente accorreva per ascoltare: sgomitavano, litigavano per i primi posti.
In autunno si lavorava poco e solo per i funerali, ma fu quello del nostro impresario che sancì la fine del gruppo: egli morì improvvisamente, una mattina piovosa fu trovato nella camera d’albergo dove solitamente abitava.
Si cercarono i parenti, ma non furono rintracciati: fu sepolto nel cimitero di campagna vicino.
Il prete benedì frettoloso il feretro: fu sepolto in terra sconsacrata, quella designata da sempre agli artisti girovaghi.
Noi quattro suonammo con tutto il vigore e la foga che avevamo.
Ci salutammo con una rapida stretta di mano e ci dicemmo addio.
Io tornai a casa: dovevo concludere gli ultimi esami all’università.
Ripresi i libri e scordai per un po’ di tempo la tromba.
Non ero più un ragazzo e dovevo rendermi totalmente indipendente dai miei.
Ero ormai quasi laureato quando, una sera udii bussare alla porta: ero solo, ma aprii senza pensarci.
Non c’era nessuno: credetti che fosse stato il vento.
Dopo un po’ riudii tre colpi forti: chiesi chi fosse e non ebbi risposta.
Spalancai la porta, arrabbiato: -Basta con questo stupido scherzo!-
Rimasi con la bocca aperta: era Lui, il mio impresario con i tre soci.
Mi disse: -Devi venire anche tu!-
Lo seguii senza esitare fino ad un antico camposanto abbandonato.
Lì ci mettemmo in cerchio e iniziammo a suonare il “ballo del morto”, una vecchia canzone popolare: incominciarono ad uscire dalle fosse.
Era un’adunata d’anime dannate che ballavano alla luna piena.
I morti esangui, dai volti con un vetusto dolore, si muovevano in una danza d’altri tempi.
All’alba tutti svanirono e rimanemmo solo noi quattro: ci fissammo angosciati.
Io tolsi dal portafogli il contratto firmato incautamente e lessi l’ultima clausola: -Mi impegno a suonare per la banda sino a quando il Signore della notte lo vorrà!-
Eravamo diventati i suonatori del diavolo e non lo avevamo capito.


Arduino Rossi

storie di paura corte......IL VECCHIO CON I CANI ...racconto di Arduino Rossi










IL VECCHIO CON I CANI


Si afferma che il vecchio Mosè fosse un pazzo: abitava la cima di una montagna, circondata dai pascoli, dalle capre, da poche galline e dai suoi cani.
Non era un cacciatore, non lo era più, ma i suoi due bracchi fedeli gli tenevano compagnia, lo scaldavano d’inverno.
Lui parlava a questi due animali: gli confidava tutto sul suo passato e del perché fosse un essere solitario.
Non amava la gente, che lo evitava un po’ timorosa, un po’ indifferente.
Si faceva tutto da solo, non scendeva mai in paese: si arrangiava con quello che aveva in baita per i vestiti e il pane.
Riutilizzava ogni cosa anche dieci volte: era abile in tutte le faccende.
Si sa che i giovani spesso non rispettano le abitudini di chi li ha preceduti.
Mosè parve a loro un personaggio buffo, da deridere senza timore né rispetto.
Iniziarono in quattro delle spedizioni dal vecchio misantropo per divertirsi un po’.
Mosè li minacciò, gli insultò, ma ottenne ancora più testardaggine da parte di quei bulli.
Gli scherzi divennero dispetti, vendette: sporcarono l’acqua dell’abbeveratoio del bestiame, tagliarono alberi da frutta.
Ormai la situazione era degenerata e Mosè scese in paese con il suo fucile, un pezzo d’antiquariato: urlò, maledì, minacciò, sparò in aria.
Fu tutto vano: i compaesani non si intimorirono, ma si divertirono.
I bulli organizzarono una spedizione “punitiva”, ma non trovarono Mosè da sculacciare: se la presero con i cani.
Prima li stordirono con i bastoni, poi li gettarono da un burrone.
Al rientro Mosè li chiamò, li cercò sulle montagne, poi li scorse in fonde al precipizio, ormai morti.
Il suo urlo di dolore giunse sino alle prime case del borgo.
Mosè mutò questa volta da vecchio idiota in brutale vendicatore: scese armato di forcone, fucile a tracolla e torcia.
Voleva appiccare fuoco alle abitazioni dei suoi nemici, ma non riuscì: fu bloccato in tempo dai gendarmi e trasferito nel carcere del comune vicino.
Lì rimase otto giorni, poi lo lasciarono libero: tornò alla sua casupola e si lasciò morire.
In tanti ebbero rimorso, ma di Mosè non si sarebbe più parlato se qualcuno non avesse visto il suo spettro lungo il sentiero, che conduceva alla casupola.
Era Lui con i suoi cani, indifferente come una statua, ondeggiante all’aria come un’immagine nella nebbia.
Più testimoni parlarono di Mosè e delle ombre dei suoi cani, che abbaiavano con suono cupo ai passanti.
I bulli si sentirono tirati in causa e decisero di chiarire cosa stava avvenendo: salirono alla casupola, mangiarono e bevvero, dormirono nel giaciglio del vecchio e ubriachi, si apprestarono a tornare a casa, in piena notte.
All’inizio del sentiero udirono un tonfo inaspettato, si voltarono e lo videro: era Lui, alto e scarno, con gli occhi bianchi, le mani lunghe, i capelli al vento.
I quattro tentarono di fuggire, ma furono preceduti dai cani.
Non erano più dei vecchi bracchi assonnati accanto al camino, ma belve nerborute, irsute, con i denti e gli artigli pronti ad aggredire.
Mosè li guardò e non disse nulla: i quattro tremavano dal terrore.
L’alba sciolse la visione con i primi raggi.
I bulli corsero come forsennati e si chiusero nelle loro case: non dissero nulla, ma non si mostrarono in paese per giorni.
Uno si ammalò e poco dopo, per colpa di una febbre maligna spirò.
Uno fu rinchiuso in manicomio: rideva come un ebete e non parlava più.
I due superstiti andarono dal prete, che cercò di calmarli, assicurando che i fantasmi non esistono.
Purtroppo uno s’impiccò e l’ultimo cadde in modo incomprensibile da un ponte, affogando.
Il prete, sconvolto da tutto ciò, salì alla baita di Mosè e a sera lo incontrò.
Gli disse: -Perché hai fatto questo?-
-Io non ho fatto nulla!-
-Quattro ragazzi sono morti….Sei contento?-
-Io non sono responsabile delle loro morti: quei quattro furono le vittime dei rimorsi.-
Mosè tornò sui suoi passi, seguito dai cani.
La baita fu invasa dalle ortiche, il tetto crollò e la boscaglia invase i prati attorno.
A sera l’ombra di un vecchio canuto, alto e pallido, circondato dai cani, appare accanto a quello che un tempo fu il camino: è una visione quasi piacevole, che poi svanisce nel buio della notte.

Arduino Rossi

storie di fantasmi .... IL CONVENTO di Arduino Rossi








IL CONVENTO

Si camminava stanchi lungo la strada che conduce al convento: una costruzione quadrata e severa in cima al colle.
Era una tranquilla passeggiata tra amici in quell’ottobre ancora tiepido.
Il bosco perdeva le sue foglie e si proseguiva su un tappeto morbido.
Eravamo in tre amici, un po’ incoscienti, scherzosi e pieni d’entusiasmo.
Si rideva e si scherzava su tutto, ma in particolare dei nostri amori acerbi, delle ragazze da noi desiderate e irraggiungibili.
Quella era una gita pomeridiana, avevamo con noi qualche panino e alcune bibite per restare al convento sino a tardi.
Volevamo vedere le stelle in quel luogo solitario, senza le luci della città: avevamo con noi un cannocchiale e la mappa celeste.
Si parlava tanto dei nostri progetti: Pietro voleva fare il medico, Alfredo il professore e io il biologo, ricercatore scientifico.
Eravamo tutti razionali, realisti e non superstiziosi: ci avevano parlato del monaco delle rovine del convento, ma noi eravamo certi che fossero pure idiozie.
Vedemmo il sole spegnersi dietro le colline e bruciare il cielo con il rosso infuocato dei suoi raggi,
che avvolgono le brune montagne.
Ci sedemmo in cerchio e accendemmo un fuoco.
Non so chi incominciò, forse Alfredo: - Se il monaco del diavolo esistesse realmente, cosa faremmo?-
Pietro sorrise: -Ascoltarmi! Io amo la scienza, la ragione e ciò che si può misurare, toccare, tastare.-
Io invece li volli spaventare un po’: -Lo conoscete tutti mio padre! E’ un uomo sensato, credibile eppure mi confidò che questo frate spettrale pure Lui l’ha visto.-
Alfredo era un po’ intimorito: -Quando?-
-Da giovane! Circa alla nostra età!-
Pietro sogghignò, ma non commentò.
La notte era scesa e il cielo splendeva sopra di noi e incominciammo a scrutare le stelle: cercammo soprattutto Giove e Venere, ma il rosso Marte era il più ambito.
Le rovine del convento parevano adagiate tra cielo e terra.
Tutto dormiva oltre le pietre pericolanti delle massicce mura: la chiesa dal tetto crollato, i chiostri avvolti dall’edera e dal biancospino.
Si udivano dei fruscii leggeri, quasi impercettibili.
Dissi con falso timore: -Ascoltate! Questo è lo spettro!-
Scoppiò una risata sincera, un po’ esagerata.
Pietro volle togliere ogni alone di mistero: -Sarà un cane randagio o una volpe.-
Quei rumori crebbero, ma non ci badammo più.
Era quasi mezzanotte e dovevamo rientrare, ma Alfredo propose una possibilità: - Che ne dite di visitare il convento!-
Pietro intervenne: -Tu sei pazzo! A quest’ora potrebbe essere pericoloso!-
Io dissi: -Perché no! Abbiamo le nostre torce elettriche: sarà molto interessante, sarà una vera avventura!-
Ci muovemmo con cautela per non inciampare tra le pietre cadute.
Si udivano ogni tanto dei fruscii e dei sibili, poi alcuni bagliori si notarono nei chiostri.
Pietro scoprì una scala che scendeva nella cripta, ma lo sconsigliai: -E’ tutto pericolante! Non arrischiamoci!
Alfredo sbuffò: -E’ troppo bello! Forse lì sotto c’è il nostro monaco che ci aspetta!-
Pietro rispose trattenendo a malapena l’euforia: -Affermano che prevede il futuro, vita e morte!-
La scala di pietra era malmessa, stretta e umida, c’era odore di muffa.
La cripta era ancora integra, con le colonne larghe e basse, i sepolcri di granito ben conservate.
Dissi: -Siete contenti! Non c’è nessuno!-
Alfredo commentò: -Chi volevi trovare?-
Pietro rimase muto, poi esclamò, più sorpreso che terrorizzato: -Eccolo! E’ Lui! Guardatelo!-
Dissi: -Che dici? Sei impazzito?-
Era proprio Lui, il monaco, con il suo cappuccio nero e il volto scuro, scheletrico, con gli occhi rossi come il fuoco.
Era presso l’altare di pietra, stava con le braccia alzate e lanciava suoni lancinanti, non umani.
Non ci allontanammo, ma restammo lì, a fissare quello che per le nostre menti moderne e imbevute di verità scientifiche, non doveva esistere.
Il frate del diavolo parlò: -I vostri destini sono segnati: Alfredo!… morirai con Pietro prima della fine dell’anno e tu sarai il mio testimone. Racconterai ciò che stai vedendo. Rimarrai paralizzato alle gambe e non sarai mai ciò che ambisci. Vivrai da povero storpio, sino alla vecchiaia.-
Alfredo e Pietro morirono in un incidente d’auto e io mi ruppi la spina dorsale.

Arduino Rossi

orrori da gustare ........ LA CAPPELLA DI FAMIGLIA ... di Arduino Rossi









LA CAPPELLA DI FAMIGLIA

Sbattei la porta, infuriato: non ero mai stato così umiliato in vita mia.
Andai dal capo ufficio e scrissi lì, sui due piedi, la lettera di dimissioni: non sarei rimasto un’ora in
più in quella ditta.
Fuori faceva freddo e non mi rimase che alzare il bavero della giacca: stava piovigginando.
Una volta fuori dovetti ripensare a quello che avevo fatto: mi ero appena dimesso da un lavoro, che svolgevo da trentanni.
Avevo ingoiato amarezze per tutti quegli anni, ma non dovevo certamente fare la sciocchezza di andarmene senza certezze.
Ero rimasto disoccupato a più di cinquant’anni e non avevo altro sostegno nella vita.
Rientrai a casa, poi incominciai a telefonare ad amici, parenti, conoscenti in cerca di un disperato lavoro.
Nessuno voleva aiutarmi: -Non mi serve nessuno! Mi dispiace, ma siamo al completo! Stiamo rischiando la chiusura e dobbiamo licenziare!-
Alla fine un vicino mi offrì il lavoro ripugnante di scavatore di fosse al cimitero: dovetti accettare per pagare l’affitto di casa.
Il primo giorno di lavoro stava nevicando, le mani e i piedi mi stavano congelando.
Mi dettero il piccone e la pala, m’indicarono dove scavare e rimasi solo.
Spalai terra fino alla bara, poi feci spazio attorno: avevo terminato il mio dovere.
Accesi la sigaretta, avevo ripreso a fumare e mi sedetti su una lapide.
Quello doveva essere un lavoretto per pochi giorni, invece divenne il mio posto fisso.
Ero ormai avvezzo a quel luogo triste: al dolere dei parenti, al divenire di vite di ricchi e di poveri.
C’era al centro del camposanto una cappella abbandonata, appartenente ad una famiglia patrizia, estintasi settantanni prima.
Quando pioveva mi rifugiavo lì, conoscevo tutti i nomi dei cari estinti collocati: c’era Geltrude, Arturo, Gabriele, Alessandra.
Le fotografie mostravano volti alteri di gente che era abituata a comandare, a pretendere.
Spesso restavo anche oltre le mie ore di lavoro lì, da solo a pensare, a rimuginare tutto il mio vissuto.
Avevo iniziato a bere e alzavo il gomito sempre più.
Quella giornata mi ubriacai e mi addormentai: un brivido di freddo alla schiena mi svegliò.
Era notte e certamente il cimitero era chiuso.
Mi alzai, cercando tastoni l’uscita, quando la mia mano toccò qualcosa che mi parve ripugnante: era un volto rinsecchito e umido che ansimava come una belva affamata.
Indietreggiai e impugnai il mio badile istintivamente per difendermi.
La fisionomia dell’essere s’intravedeva appena: era alta e sottile.
Camminava barcollando verso un loculo spalancato.
Con mio grande orrore lo vidi adagiarsi nella bara e richiudere la lapide.
Mancava poco all’alba e per mia fortuna il sole penetrò in quel luogo terrificante.
Andai a lavorare come nulla fosse, ma volli saperne di più: cercai in biblioteca notizie sulla nobile famiglia Arturi.
Erano stati ricchi, potenti, ma anche noti per le credenze esotiche, magiche, sataniche.
La loro estinzione avvenne in modo inspiegabile: morirono tutti d’anemia nell’arco di sei mesi.
I vecchi, i giovani e i bambini caddero ammalati: passarono a miglior vita senza lasciare eredi.
Tutte le loro ricchezze rimasero celate per sempre, in qualche luogo ormai sconosciuto.
Io cercai altre informazioni, poi dedussi che nella cappella degli Arturi ci fosse sepolto un non morto.
Quella notte mi ero salvato per qualche caso fortuito, forse perché i non morti spesso non vedono bene nel nostro mondo, ma seguono una guida vivente.
Volli saperne di più: scoprii che accanto al cimitero viveva un barbone dentro una baracca di stracci e cartone.
Andai da Lui, ero certo che sapesse qualcosa: l’avevo visto aggirarsi nel camposanto dopo il tramonto.
Rimasi nell’attesa e così potei costatare che a tarda sera scavalcava il muro di cinta ed entrava dagli  Arturi.
Bussò alla lapide del vecchio Arturi, soprannominato in vita: il diavolo.
Il non vivente uscì e vagabondò come fosse un cieco: sicuramente cercava delle vittime, il sangue di qualche passante isolato.
Io rimasi nascosto e quando il mostro tornò lo colpii in pieno sulla testa con il badile: quello mi si rivoltò contro con furia pazza, come una belva feroce.
Lo colpii più volte, ma non cadeva: dovetti indietreggiare e inciampai.
L’essere spalancò la bocca con soddisfazione famelica.
Stavo per soccombere, quando riuscii ad infilzargli la pala in pieno petto: gli squartai il cuore.
Il vampiro cadde al suolo, sparse il suo sangue tutt’attorno e rantolò.
I suoi resti svanirono in una fiammata luminosa come i fuochi fatui.
Avevo vinto e la guida sarebbe tornata ad essere un semplice idiota.
Sapevo che questi non morti erano avidi: infatti, trovai nella bara il tesoro degli Arturi.
Avevo con me oro e gioielli sufficienti per il resto dei miei giorni: chiusi con le sepolture e anche con il vino, per sempre.

Arduino Rossi

racconti di paura ... LA TORRE .... racconto di Arduino Rossi










LA TORRE

Camminavo spesso di notte lungo le viuzze che costeggiano i prati e i boschi, sui colli fuori città, là sulle colline.
Mi sentivo a mio agio al buio, nelle notti stellate o con la luna piena, con il caldo dell’estate, con il gelo di gennaio.
Amavo quel vagabondare nella campagna: scrutavo il cielo colmo d’astri o la luna piena, ma era bello anche quando minacciava il temporale con il vento forte del Nord, che spazzava ogni cosa e i lampi che illuminavano per pochi istanti.
Mi piaceva in particolare una valletta ombrosa e coperta da boschi, vigne e prati stepposi.
Seguivo un antico sentiero che costeggiava le rovine di vecchie mura, con i ruderi di torrette di guardia, polveriere, archi di porte e tante pietre squadrate e ammucchiate alla rinfusa.
Ogni tanto mi sedevo su un muretto, accanto ad una torre e lì rimanevo a fissare i pianeti con il mio potente binocolo.
Sentii abbaiare un cane alle mie spalle: mi voltai e mi spaventai.
Mi alzai prontamente: un grosso pastore tedesco mostrava i denti e mi si era posto a mezzo metro da lui.
Non lo avevo mai visto e mi arrabbiai contro i suoi padroni, che lo avevano lasciato libero di scorrazzare nella campagna.
La bestia non mi aggrediva: si limitava a tenere la distanza, sicuramente con l’intenzione di farmi allontanare.
Quella era terra libera, non aveva proprietari e sospettai qualcosa di losco da parte di qualcuno nelle vicinanze: contrabbandieri, furfanti e vagabondi con sporchi traffici.
Invece non c’era una sola persona nei dintorni e mi accorsi che il cane mi allontanava dalla porta della torre.
Non volli rischiare e me ne tornai a casa, promettendomi di controllare.
La mattina successiva non feci nulla e mi preoccupai di altro: svolsi i miei compiti e mi persi nell’oblio della frenesia diurna.
Non transitai per alcuni giorni nei pressi della torre, ma la curiosità mi spinse ancora lì: c’era il cane che abbaiava alle ombre e mi si avvicinò con fare molto minaccioso.
Avevo paura, ma non indietreggiai: ci fissammo per alcuni istanti, poi quello se ne andò, ponendosi all’entrata della torre.
Attesi l’alba e mi addormentai poco distante: il pastore tedesco non c’era più ed entrai oltre la porta della torre.
Era solo un ambiente angusto, senza tetto, con detriti e pietre pericolanti.
Cercai bene e non trovai nulla, ma prima di uscire sotto i piedi notai una botola: provai a sollevarla, ma inutilmente.
Mi promisi di tornare il giorno dopo con tutti gli attrezzi necessari: volevo capire cosa c’era sotto.
Trascorsi una giornata con fissa in testa quella mia curiosità.
La mattina dopo giunsi presto e con scalpello e martello, sollevai la botola: c’era una scala a chiocciola, che scendeva in un sotterraneo che puzzava di chiuso.
Avevo una torcia di stracci e cera, che illuminava un vasto sotterraneo totalmente vuoto: i miei passi rimbombavano nell'ampio spazio.
Ero testardo e continuai sino ad una galleria stretta e parzialmente immersa nell’acqua: proseguii con un po’ d’incoscienza e mi addentrai oltre porticati e stanze affrescate.
Era un luogo stupendo: c’era una città sotterranea, anzi più necropoli d’epoche diverse che si sovrapponevano.
Rischiai di perdermi: ero così stupito che non mi preoccupai di ricordarmi la strada già percorsa.
Ero tornato sui miei passi, ero vicino all’uscita, quando udii il cane abbaiare furioso: mi misi a correre sino alla scala.
Il pastore tedesco mi stava inseguendo, mi ringhiava contro con rabbia e lo percepivo ai calcagni.
Riuscii a chiudere prontamente la botola, appena in tempo.
Ripreso fiato, mi feci diverse domande: cosa faceva quell’animale lì sotto, chi lo usava come spauracchio.
Mi convinsi che c’erano dei tombaroli e quella belva nera servisse a tener lontani gli intrusi.
Volevo sapere di più, non sarebbe stato un gruppo di mascalzoni a tenermi fuori dalla scoperta archeologica più importante dell’anno: mi procurai una spranga di ferro e tornai dentro il sotterraneo.
Era tutto tranquillo, poi notai delle ombre sfuggenti in fondo ad una tomba etrusca.
Altre presenze silenziose apparvero e scomparvero verso il gran salone, forse la cripta di una chiesa paleocristiana.
Erano tutti là, ma in silenzio: pensai a qualche setta satanica o esoterica.
Invece erano immobili che fissavano un punto preciso: anch’io sbirciai e vidi una mastodontica figura rossa e luminescente, terrificante e ripugnante.
Pareva un rettile, un drago o un serpente gigantesco.
Il cane nero mi scovò e mi morse le caviglie: mi liberai di esso colpendolo con la spranga e cercai la fuga.
Tutti si voltarono verso me e la diabolica presenza urlò qualcosa contro di me, sicuramente per invitare i suoi fedeli a darmi la caccia.
Non attesi quella folla di forsennati: mi gettai in una fuga disperata verso l’uscita, ma la belva mi azzannò una gamba.
Mordeva con la forza di una pressa, la mia spranga mi servì a nulla, non cedeva.
Quei maledetti mi avevano in pugno: due incappucciati ordinarono al cane di desistere e mi trascinarono al centro della sala, dolorante e terrorizzato.
Mi collocarono su un altare di pietra, sporco di sangue rinsecchito.
Stavo per essere sacrificato a qualche divinità infernale?
Rinvenni ancora legato a quel giaciglio di pietra, mi doleva la gamba del morso, ma ero ancora vivo: ringrazia il Cielo.
Il cane era ancora lì e mi fissava immobile: gli parlai con calma per ammansirlo, mentre mi slegavo.
Gli dicevo parole buone e cortesi, cercando di mantenere il più possibile la calma: mi accorsi che pareva paralizzato, lo toccai e scoprii che era di pietra.
Cercai di uscire senza voler capire, quando mi accorsi che da una fessura sbucavano dei raggi di sole.
Sentii una mano sulla spalla e una voce: -Dove vuoi scappare?-
Mi voltai e vidi un incappucciato, uno di quelli della sera prima.
Mi divincolai e fuggii, ma non c’era più la scala per la botola: cercai una via d’uscita con sempre più ansia e disperazione, poi rinunciai e capii.
Quella era la seconda città, posta sotto la terra dei vivi: il luogo senza ritorno.


Arduino Rossi