LA TORRE
Camminavo spesso di notte lungo le viuzze che costeggiano i prati e i boschi, sui colli fuori città, là sulle colline.
Mi sentivo a mio agio al buio, nelle notti stellate o con la luna piena, con il caldo dell’estate, con il gelo di gennaio.
Amavo quel vagabondare nella campagna: scrutavo il cielo colmo d’astri o la luna piena, ma era bello anche quando minacciava il temporale con il vento forte del Nord, che spazzava ogni cosa e i lampi che illuminavano per pochi istanti.
Mi piaceva in particolare una valletta ombrosa e coperta da boschi, vigne e prati stepposi.
Seguivo un antico sentiero che costeggiava le rovine di vecchie mura, con i ruderi di torrette di guardia, polveriere, archi di porte e tante pietre squadrate e ammucchiate alla rinfusa.
Ogni tanto mi sedevo su un muretto, accanto ad una torre e lì rimanevo a fissare i pianeti con il mio potente binocolo.
Sentii abbaiare un cane alle mie spalle: mi voltai e mi spaventai.
Mi alzai prontamente: un grosso pastore tedesco mostrava i denti e mi si era posto a mezzo metro da lui.
Non lo avevo mai visto e mi arrabbiai contro i suoi padroni, che lo avevano lasciato libero di scorrazzare nella campagna.
La bestia non mi aggrediva: si limitava a tenere la distanza, sicuramente con l’intenzione di farmi allontanare.
Quella era terra libera, non aveva proprietari e sospettai qualcosa di losco da parte di qualcuno nelle vicinanze: contrabbandieri, furfanti e vagabondi con sporchi traffici.
Invece non c’era una sola persona nei dintorni e mi accorsi che il cane mi allontanava dalla porta della torre.
Non volli rischiare e me ne tornai a casa, promettendomi di controllare.
La mattina successiva non feci nulla e mi preoccupai di altro: svolsi i miei compiti e mi persi nell’oblio della frenesia diurna.
Non transitai per alcuni giorni nei pressi della torre, ma la curiosità mi spinse ancora lì: c’era il cane che abbaiava alle ombre e mi si avvicinò con fare molto minaccioso.
Avevo paura, ma non indietreggiai: ci fissammo per alcuni istanti, poi quello se ne andò, ponendosi all’entrata della torre.
Attesi l’alba e mi addormentai poco distante: il pastore tedesco non c’era più ed entrai oltre la porta della torre.
Era solo un ambiente angusto, senza tetto, con detriti e pietre pericolanti.
Cercai bene e non trovai nulla, ma prima di uscire sotto i piedi notai una botola: provai a sollevarla, ma inutilmente.
Mi promisi di tornare il giorno dopo con tutti gli attrezzi necessari: volevo capire cosa c’era sotto.
Trascorsi una giornata con fissa in testa quella mia curiosità.
La mattina dopo giunsi presto e con scalpello e martello, sollevai la botola: c’era una scala a chiocciola, che scendeva in un sotterraneo che puzzava di chiuso.
Avevo una torcia di stracci e cera, che illuminava un vasto sotterraneo totalmente vuoto: i miei passi rimbombavano nell'ampio spazio.
Ero testardo e continuai sino ad una galleria stretta e parzialmente immersa nell’acqua: proseguii con un po’ d’incoscienza e mi addentrai oltre porticati e stanze affrescate.
Era un luogo stupendo: c’era una città sotterranea, anzi più necropoli d’epoche diverse che si sovrapponevano.
Rischiai di perdermi: ero così stupito che non mi preoccupai di ricordarmi la strada già percorsa.
Ero tornato sui miei passi, ero vicino all’uscita, quando udii il cane abbaiare furioso: mi misi a correre sino alla scala.
Il pastore tedesco mi stava inseguendo, mi ringhiava contro con rabbia e lo percepivo ai calcagni.
Riuscii a chiudere prontamente la botola, appena in tempo.
Ripreso fiato, mi feci diverse domande: cosa faceva quell’animale lì sotto, chi lo usava come spauracchio.
Mi convinsi che c’erano dei tombaroli e quella belva nera servisse a tener lontani gli intrusi.
Volevo sapere di più, non sarebbe stato un gruppo di mascalzoni a tenermi fuori dalla scoperta archeologica più importante dell’anno: mi procurai una spranga di ferro e tornai dentro il sotterraneo.
Era tutto tranquillo, poi notai delle ombre sfuggenti in fondo ad una tomba etrusca.
Altre presenze silenziose apparvero e scomparvero verso il gran salone, forse la cripta di una chiesa paleocristiana.
Erano tutti là, ma in silenzio: pensai a qualche setta satanica o esoterica.
Invece erano immobili che fissavano un punto preciso: anch’io sbirciai e vidi una mastodontica figura rossa e luminescente, terrificante e ripugnante.
Pareva un rettile, un drago o un serpente gigantesco.
Il cane nero mi scovò e mi morse le caviglie: mi liberai di esso colpendolo con la spranga e cercai la fuga.
Tutti si voltarono verso me e la diabolica presenza urlò qualcosa contro di me, sicuramente per invitare i suoi fedeli a darmi la caccia.
Non attesi quella folla di forsennati: mi gettai in una fuga disperata verso l’uscita, ma la belva mi azzannò una gamba.
Mordeva con la forza di una pressa, la mia spranga mi servì a nulla, non cedeva.
Quei maledetti mi avevano in pugno: due incappucciati ordinarono al cane di desistere e mi trascinarono al centro della sala, dolorante e terrorizzato.
Mi collocarono su un altare di pietra, sporco di sangue rinsecchito.
Stavo per essere sacrificato a qualche divinità infernale?
Rinvenni ancora legato a quel giaciglio di pietra, mi doleva la gamba del morso, ma ero ancora vivo: ringrazia il Cielo.
Il cane era ancora lì e mi fissava immobile: gli parlai con calma per ammansirlo, mentre mi slegavo.
Gli dicevo parole buone e cortesi, cercando di mantenere il più possibile la calma: mi accorsi che pareva paralizzato, lo toccai e scoprii che era di pietra.
Cercai di uscire senza voler capire, quando mi accorsi che da una fessura sbucavano dei raggi di sole.
Sentii una mano sulla spalla e una voce: -Dove vuoi scappare?-
Mi voltai e vidi un incappucciato, uno di quelli della sera prima.
Mi divincolai e fuggii, ma non c’era più la scala per la botola: cercai una via d’uscita con sempre più ansia e disperazione, poi rinunciai e capii.
Quella era la seconda città, posta sotto la terra dei vivi: il luogo senza ritorno.
Arduino Rossi