LA TROMBA
Suonare fu sempre la mia passione, ma soffiare nella tromba era qualcosa che mi dava la voglia di vivere, quella foga passionale alla quale nulla reggeva il confronto, nemmeno una bella donna.
Ovviamente in famiglia non mi sopportavano più, per questo avevo acquistato una baita in cima al colle del diavolo, tra boschi e rovi.
Lì suonavo quanto volevo: non c’erano parenti disperati che mi supplicavano di smettere.
Era diventato un esperto suonatore, non un vero mago, ma sicuramente un ottimo dilettante.
I miei amici mi indirizzarono verso alcuni locali notturni: mi esibivo durante il fine settimana e così mi pagavo gli studi.
Erano balere popolari, dove respiravo fumo di sigarette e odore di sudore, ma l’estate era dolce tra i pergolati e sotto il cielo stellato.
Cominciai a ritenermi sprecato per quelle orchestre e l’occasione mi fu data da un individuo tutto scuro: aveva l’abito e i capelli neri, gli occhi piccoli e maligni.
Mi fermò all’uscita della mia solita balera: -Giuseppe! Che ne dici di suonare per me!-
-Chi è Lei?-
-Sono solo un impresario e ti ho ascoltato stasera: sei un fenomeno?-
Non credevo alle lusinghe, ma mi facevano sempre piacere.
Gli risposi: -Dove dovrei suonare?-
-Con la mia banda, siamo girovaghi e ci muoviamo in lungo e in largo per il Paese.-
Non mi dispiaceva l’idea e a convincermi definitivamente furono il bel mucchio di soldi che mi dette per confermare il contratto.
Salutai i miei e incominciai a suonare per battesimi, matrimoni, sagre popolari.
Infine anche per funerali.
Mi pagavano bene, ma i tipi con cui io suonavo erano poco allegri: rispondevano alle mie domande con monosillabi, mugugni e alla peggio con magre parole.
Erano in tre oltre a me: erano alti dai visi duri e impenetrabili.
Non sorridevano mai, ma erano dei musicisti eccezionali.
Davide sapeva far piangere il violino, Michel faceva vibrare il flauto con decisione e ardore, Andri pizzicava le corde della chitarra.
La gente accorreva per ascoltare: sgomitavano, litigavano per i primi posti.
In autunno si lavorava poco e solo per i funerali, ma fu quello del nostro impresario che sancì la fine del gruppo: egli morì improvvisamente, una mattina piovosa fu trovato nella camera d’albergo dove solitamente abitava.
Si cercarono i parenti, ma non furono rintracciati: fu sepolto nel cimitero di campagna vicino.
Il prete benedì frettoloso il feretro: fu sepolto in terra sconsacrata, quella designata da sempre agli artisti girovaghi.
Noi quattro suonammo con tutto il vigore e la foga che avevamo.
Ci salutammo con una rapida stretta di mano e ci dicemmo addio.
Io tornai a casa: dovevo concludere gli ultimi esami all’università.
Ripresi i libri e scordai per un po’ di tempo la tromba.
Non ero più un ragazzo e dovevo rendermi totalmente indipendente dai miei.
Ero ormai quasi laureato quando, una sera udii bussare alla porta: ero solo, ma aprii senza pensarci.
Non c’era nessuno: credetti che fosse stato il vento.
Dopo un po’ riudii tre colpi forti: chiesi chi fosse e non ebbi risposta.
Spalancai la porta, arrabbiato: -Basta con questo stupido scherzo!-
Rimasi con la bocca aperta: era Lui, il mio impresario con i tre soci.
Mi disse: -Devi venire anche tu!-
Lo seguii senza esitare fino ad un antico camposanto abbandonato.
Lì ci mettemmo in cerchio e iniziammo a suonare il “ballo del morto”, una vecchia canzone popolare: incominciarono ad uscire dalle fosse.
Era un’adunata d’anime dannate che ballavano alla luna piena.
I morti esangui, dai volti con un vetusto dolore, si muovevano in una danza d’altri tempi.
All’alba tutti svanirono e rimanemmo solo noi quattro: ci fissammo angosciati.
Io tolsi dal portafogli il contratto firmato incautamente e lessi l’ultima clausola: -Mi impegno a suonare per la banda sino a quando il Signore della notte lo vorrà!-
Eravamo diventati i suonatori del diavolo e non lo avevamo capito.
Arduino Rossi