12 set 2012

storie maledette .. LA CACCIA DEL MORTO












LA CACCIA DEL MORTO

I cacciatori sono sempre stati i primi ad alzarsi alla domenica e quando la selvaggina era abbondante, ai tempi dei fucili ad avancarica, la passione era molta.
Non sempre tutti rispettavano la legge, l'onestà, la morale: capitava che qualcuno invadesse i campi, uccidesse animali domestici, provocasse danni alle persone, senza poi risarcire le vittime.
Le maledizioni contro questa categoria di appassionati, che sparavano ai guardia caccia, non erano sufficienti e anche dai pulpiti i parroci invitavano alla pace, al rispetto delle proprietà e delle persone.
Alder era uno spaccone di quelli che non ponevano limite alle loro affermazioni né alle loro azioni: i guardia caccia di tutta la valle lo ricercavano, ma non riuscivano mai a prenderlo sul fatto.
Alder era un bracconiere scaltro, agile e fortunato, ma fu scorto dal vecchio Andrea celare un cerbiatto sotto la vegetazione, per appropriarsene con tutta calma di notte.
L'aveva catturato con una trappola nella stagione di ripopolamento della fauna.
Il guardia caccia si avvicinò al manigoldo con cautela e alle spalle gli ordinò di abbassare l'arma.
Alder obbedì e alzò le mani: -Hai vinto, Andrea! Ora sarai soddisfatto e potrai condurmi in prigione!-
-Era ora che ti trovassi con le mani sulla preda e questa volta due anni di carcere non te li leveranno più!-
-Non essere sciocco, Andrea! Io uscirò di prigione e mi vendicherò!-
Andrea non era tipo da farsi intimorire: si accostò per legargli i polsi, togliergli il fucile e condurlo, facendolo camminare davanti a sé, sino alla caserma della forza pubblica.
Commise l'errore di non perquisire il bracconiere: si voltò di scatto, dopo essersi fermato per una finta distorsione alla caviglia, e ficcò il coltello nel petto del vecchio.
Andrea cadde a terra e dopo una breve agonia morì: fu sepolto nel bosco, ben celato per non permettere di ritrovarlo.
Le ricerche del guardia caccia furono inutili: Alder era stato troppo abile e il bosco non avrebbe mai restituito la salma del povero uomo onesto.
L'assassino non si pentì mai del suo delitto, proseguì nella sua esistenza errabonda, senza famiglia, senza affetti e morì di morte naturale, ormai anziano, solo come era vissuto.
Presto i valligiani si scordarono di lui: era uno dei tanti che erano campati ai margini della legalità, senza però essere dei fuorilegge, ricercati per crimini di particolare gravità.
Erano trascorsi anni quando di notte, in autunno, quando le foglie cadono e i cacciatori inseguono le loro prede, fu avvistato una bara che scivolava lungo i sentieri, preceduta e inseguita da cani feroci, irsuti, famelici, quasi lupi.
Il chiasso che provocava quel corteo era tale da svegliare gli abitanti delle cascine isolate e delle case ai margini dei villaggi.
Per decenni quella presenza fu notata e diversi terrorizzati testimoni dissero che quel funerale proseguiva sino all'alba, poi svaniva alle prime luci del sole.
Era necessario liberare la valle da quella presenza malefica: si diceva che avrebbe portato sfortuna, era il segno di dolore, delitti e sangue che avrebbero infestato i luoghi visitati dagli spettri.
Qualcuno avrebbe dovuto porsi di fronte al corteo macabro e fermarlo, chiedendo al morto nella cassa di alzarsi e dire ciò che voleva dai vivi.
Trovare un uomo simile, capace di affrontare gli spiriti dell'inferno, era quasi impossibile: non doveva essere uno che faceva un atto simile per denaro, né per scommessa, sarebbe morto di paura.
Doveva agire per generosità.
Solo un uomo era capace di far ciò, ma era troppo vecchio e ormai più vicino all'altro mondo che a questo: una delegazione di
notabili salì da lui cercando di farlo intervenire.
Egli era un vecchio cacciatore di spettri, aveva liberato di presenze malefiche le cascine, i cimiteri, i palazzi, i castelletti diroccati.
Alla vista di tanti signori importanti il vecchio si tolse il cappello e chiese cosa potava fare per loro.
Conosciuta la loro richiesta si schernì, dicendo: -Sono troppo avanti negli anni, sicuramente dei giovani sono più abili e più coraggiosi di me!-
-Tu sei il più esperto! Sai affrontare ogni tipo di spettro!-
Il cacciatore di fantasmi si mise a pensare e commentò: -Certamente qui c'è un orrendo crimine commesso da qualcuno! Un'anima morta vorrà porre riparo a qualche suo sbaglio in vita!-
Accettò e attese che la caccia del morto iniziasse: di giorno si udiva l'abbaiare dei cani e le fucilate dei cacciatori vivi, di notte, quando già la neve stava imbiancando le cime, si udiva il latrare macabro della caccia del morto.
Non c'era una logica apparente nel percorso della bara notturna: una volta era sui monti, giungeva sino alle vette, poi calava nel fondo valle e sfiorava i paesi senza mai entrarvi.
Ormai la montagna aveva lo stesso colore della barba e dei capelli del cacciatore di spiriti: la neve la copriva già, ma egli non si scansava dalla sua posizione.
L'attesa del vecchio dette frutto: una notte il corteo funesto incappò proprio sul sentiero dove il paziente vecchio vegliava, i cani infernali gli ringhiarono contro, ma inutilmente.
La bara si dovette arrestare e le belve si misero tutte in cerchio, ululando e minacciando, come lupi attorno alla loro preda.
Il cadavere era stato collocato in un letto di fiamme che non lo consumavano e lo illuminavano con una luce purpurea vivacissima.
Il rosso del fuoco brillava e risaltava sul nero del feretro.
I capelli corvini del cadavere erano lunghi e gli occhi erano violacei, tenebrosi.
Il dolore patito dal reprobo era incommensurabile, ma non c'era una sola smorfia di patimento sul suo volto da colpevole.
La mattina successiva il vecchio fu trovato piangente e confuso, ripeteva in continuazione: -Bisogna seppellirlo, al più presto, povera anima, povero galantuomo!-
Non narrò mai ciò che il dannato gli aveva rivelato né il suo nome, ma indicò unicamente il luogo dove era stato sotterrato il guardia caccia, che fu riconosciuto e restituito ai figli e ai nipoti, per una degna sepoltura.
Solo io scovai la prova che lo spettro della bara fosse Alder, fratello maggiore del cacciatore di fantasmi.
Tra diversi incartamenti di un santuario rinvenni una pergamena, dove si chiedeva perdono per l'assassino, condonandolo dal supplizio tremendo della bara in fiamme: il cacciatore morto avrebbe dovuto percorrere per l'eternità i viottoli che in vita aveva battuto, inseguendo la selvaggina.
ROSSO
Il paese di Santa Brigida, mollemente adagiato in una soleggiata apertura della valle Brembana, era da considerarsi fortunato: abbondava di acqua e di grassi pascoli, dove sostava il bestiame disceso dagli alpeggi.
Ad eccezione di Rosso gli abitanti erano tutte persone laboriose: la pecora nera da sempre sfaticata, che campava di rapina e di bracconaggio.
Egli vagabondava di vallata in vallata: deciso e inaspettato aggrediva le sue vittime poi, come un animale selvatico, si rifugiava nei boschi, bivaccando in qualche anfratto naturale.
Trascorreva l'inverno al paese e si nascondeva quando le guardie
lo ceravano; egli detestava quelle quattro case rustiche e ripeteva tra sé a denti stretti: -Paese di donnicciole e di buoi!-
I suoi compaesani, spesso vittime della sua brutalità, lo evitavano e i suoi arrivi erano preannunciati: -E' tornato Rosso! Che Dio ci salvi!-
Passava i periodi di riposo della sua attività, gendarmi permettendo, all'osteria di Santa Brigida.
Una domenica di settembre, a dispetto di tutti quelli che gli volevano male, beveva e imprecava: -Brutti idioti e buoni a nulla! Siete sempre qui a chiacchierare come servette!-
I compari di Rosso tacevano quando egli beveva troppo: -Ehi! Portatemi un altro mezzo litro di vino!-
Subito l'oste lo servì dicendogli: -Rosso! Oggi sei più in forma del solito!-
Egli si alzò provocando i presenti: -Io parto per la caccia! Non c'è foschia, voi andate pure alla Festa della Madonna!-
Attraversò il sagrato e guardò sogghignante la folla di fedeli: egli si eccitava trasgredendo le leggi di Dio e le tradizioni paesane.
Quel giorno Santa Brigida onorava solennemente la Madonna Addolorata: fu proprio durante quelle funzioni religiose che Rosso, da ragazzo, intraprese la sua carriera di farabutto.
Sua madre tentò invano di farlo ravvedere, ma le maniere buone non servivano e i modi severi lo rendevano più rabbioso: l'anima di Rosso era predisposta al male come la gazza al furto.
La vita in mezzo ai boschi gli aveva sviluppato un'agilità da bruto: la montagna deserta era il suo regno ed egli penetrava come un cinghiale, violento e silenzioso, la intricata boscaglia spinosa.
Quel giorno erano tutti riuniti in paese e solo Rosso girovagava nella macchia: iniziò la battuta timoroso, fermandosi e cambiando
spesso direzione.
Il sole accarezzava i prati: licheni e fiori erano ravvivati dalla luce trasparente del pomeriggio avanzato.
Egli si inserì cauto tra le betulle, vicino alla pozza dove si abbeveravano i camosci: Rosso ritenne che la giornata fosse buona per catturare il capo del branco.
Muovendosi supino sbucò al limite del bosco e si adagiò lentamente dietro i cespugli.
All'inferno Satana esaminava il libro dei peccatori più incalliti e osservò che Rosso da tempo meritava la dannazione: -Portatelo
qui immediatamente! Corpo e anima!-
Tre demoni salirono, volando con le nere ali di pipistrello, sulla Terra.
Rosso scrutava i pascoli sino alle rocce e dentro le gole, rifugio per gli animali selvatici, completamente liberate dalle neve.
Avanzava carponi nella direzione di alcuni fruscii, protetto dagli arbusti, impugnando il fucile già carico.
Tre grossi camosci maschi dalle corna nodose gli apparvero come una visione.
Rosso non aveva mai visto animali così maestosi e pensò: -Quei poveri fessi, che sono rimasti alla funzione, non sanno cosa perdono!-
I camosci pascolavano placidi, in apparenza incuranti del cacciatore che si era incautamente esposto.
Emozionato Rosso controllò se l'arma fosse a punto e con un dito
bagnò la cima della canna.
Egli si lisciò con le unghie la rossiccia barba ispida, pose un ginocchio a terra e mirò a pochi metri, ma gli animali non si spaventarono.
Il più grosso dei tre, da lui tenuto attentamente sotto tiro, mutò: tutti e tre si ingigantirono e le loro ombre avvolsero Rosso in una notte precoce.
Egli udì un'intimazione: -Rosso! Non sparare!-
Ma egli sparò e l'eco del colpo risuonò per tutta la vallata; le tenebre lo ghermivano, sbalordito egli portò le mani agli occhi.
Stava per soccombere quando le campane a festa annunciarono l'inizio della processione.
I demoni sbandarono confusi e fuggirono: -A presto Rosso! Te la sei cavata, per ora!-
Egli non capì il pericolo scampato: prima guardò attorno stordito, poi si sfogò sul vecchio fucile e lo gettò con rabbia contro una roccia.
-Hai sempre funzionato e mi scoppi in faccia ora, con tre prede così ben pasciute!-
All'osteria raccontò la sua disavventura e tutti ascoltarono stupiti: i presenti intuirono che qualcosa di misterioso incombeva su Rosso.
Il vino lo rincuorò e il giorno successivo, prima dell'alba, Rosso andò nei luoghi più ricchi di selvaggina.
Camminò tutta la giornata, bramoso di rivincita e alla sera scovò un giovane capriolo, tenero e lontano dalla madre.
Rosso gli sparò in fronte, mentre l'animale lo fissava titubando e ancora incerto sulle zampe.
Egli si caricò il capriolo sulle spalle e scese lungo un ripido sentiero, l'ora era tarda e non avrebbe incontrato nessuno, si sedette vicino ad una cappelletta dedicata a San Rocco e degnò di uno sguardo il ritratto del Santo, rustico e rudimentale.
Scacciò il ricordo nostalgico di quando pregava con la madre il Santo e si caricò il capriolo sulle spalle.
Subito dopo incespicò in un maialetto rosso fuoco che gli ammirava davanti e lo ostacolava, mostrando i denti aguzzi.
Quel misterioso animale lo preoccupò ed egli lo colpì con un calcio: -Torna all'inferno, stupido mostro!-
Il maialetto scomparve in una fiammata e una nube di fumo irritante avvolse Rosso.
Egli tossì e si coprì la bocca e il naso con le mani; alle sue spalle la roccia cedette trascinandolo nella frana.
Egli rovinò per vari metri, i sassi gli volarono attorno: i tre demoni avevano causato la frana per portarselo con loro, ma la pelliccia di Rosso aveva resistito.
Si levò stordito e graffiato, riprese la sua strada.
Non abbandonò il capriolo, suo scudo nella caduta: non comprese che il Cielo l'aveva salvato, ma per l'ultima volta.
Un vecchio saliva alla sua baita, vide la cascina di Rosso aperta e osò sbirciare dentro.
Per primo notò il capriolo appeso per le zampe ad una trave, con le carni rosee spogliate dal pelo.
A terra, sotto l'animale, giaceva Rosso.
Il vecchio corse al paese per dare, con tutta la foga di cui era capace, la notizia della fine del bruto: -Rosso è morto! Ora siamo liberi!-
Veloce l'annuncio del vecchio si diffuse e la gente si adunò curiosa.
Rosso aveva agito con troppa malvagità e da morto intimoriva ancora: un gruppo di giovani, quasi sospingendosi l'uno con l'altro, si impegnò a salire lassù per primi.
Essi ricomposero pietosamente la salma e la deposero sul pagliericcio.
Quel volto di cera non intimidiva più nessuno, però essi sospettarono che il Diavolo, non soddisfatto dell'anima, avrebbe rapito pure il corpo.
I giovani più coraggiosi decisero di impedire il sacrilegio e di difendere l'onore del paese contro il potere dell'inferno. Verso sera la porta e gli scuri della baita furono sbattuti dal vento, l'aria si era raffreddata e minacciava burrasca.
Essi chiusero la porta e le finestre, si sedettero accanto al fuoco, giocando a morra, alzando la voce per nascondere la paura.
Il temporale, inatteso a fine settembre, scoppiò con violenza; la cascina fu investita da folate di vento e da una pioggia scrosciante.
I giovani avvertendo il pericolo, smisero di giocare.
La luce dei lampi filtrava attraverso le fessure delle imposte e illuminava la macabra espressione del volto di Rosso che non era stata notata in precedenza, i giovani la interpretarono per un funesto presagio.
La poca mobilia venne accatastata contro la porta e altre assi furono inchiodate per assicurare i battenti traballanti.
Un violento colpo di vento spalancò la finestra vicino a Rosso e spense tutti i lumi.
La confusione impedì ai più audaci di intervenire immediatamente.
Fra urla di terrore ed esclamazioni di rabbia impotente qualcuno riaccese un lume; tutti si strinsero attorno ad esso.
Richiusero la finestra, ma il corpo di Rosso era scomparso.
Alla mattina i compaesani decisero di trasportare la bara nella terra sconsacrata.
Un tronco sostituiva il corpo e tutti i paesani erano riuniti, ma la soddisfazione di non rivedere più il famigerato Rosso fu turbata dall'improvviso incendio dei boschi a valle, i più fitti del paese, che furono totalmente distrutti.
I vecchi dissero: -Rosso si è vendicato per l'ultima volta!-


racconto di Arduino Rossi

in italia fantasmi .... L'INDESIDERATO






L'INDESIDERATO

Morire non era considerato un fatto particolarmente tragico nel mio rustico villaggio: un borgo di dieci case e una chiesetta.
E' un luogo ideale per gli amanti della solitudine e della natura selvatica: la boscaglia ha invaso gli antichi pascoli e specie scomparse da secoli hanno ricominciato a infestare la campagna.
La vita qui è difficile e sono rimasti in pochi nei dintorni a raccogliere castagne, nocciole, a vivere di latte e di formaggio di capra, a intagliare il legno.
Quello dell'artigianato artistico era una delle attività più rinomate e più redditizie del paesino: le statuette, i mobili intagliati venivano venduti in tutta Europa, ma erano solo pochi vecchi a continuare il mestiere che aveva dato lustro al nostro sperduto paesello.
Era faticoso e occorreva passare la giovinezza chinati sul legno, apprendendo con pazienza dai maestri intagliatori.
I giovani preferivano un lavoro sicuro a valle, magari senza dignità, né abilità artigianale: l'importante era guadagnare subito.
Fu proprio il più vecchio tra gli intagliatori a portare rovina e pessima fama al borghetto, riducendolo in uno spettrale rudere abbandonato.
Era abile nel lavoro, ma era anche un uomo di abitudini indecorose: era un vizioso, aveva provato ogni esperienza negativa.
I figli erano fuggiti da lui, dimenticandolo, la moglie era morta di crepacuore, la madre lo aveva maledetto in punto di morte, il padre non lo aveva mai conosciuto, ma si diceva che fosse il figlio di un vagabondo senza timore di Dio.
Aveva subito dimostrato una grande passione per l'artigiano artistico e aveva ben presto superato il suo maestro in abilità.
Aveva pure appreso tecniche di stregoneria, magia nera, negromanzia, astrologia: era capace di fare dei malefici, delle pozioni, dei riti diabolici.
Era spesso al piccolo cimitero di notte e qualche volta fu scoperto mentre stava scoperchiando qualche sepoltura.
Comunque personaggi dediti a riti macabri nella valle ce ne furono sempre e la gente aveva spesso chiesto i suoi servigi per comunicare con l'Oltretomba, per conoscere il futuro, per curare malattie, per fare il malocchio ai nemici.
Nefast era quindi invecchiato in tranquillità, senza trovare avversari così coraggiosi da poterlo affrontare: il parroco lo ignorava e entrambi operavano nel loro settore, l'uno con le forze del Cielo, l'altro con le potenze delle tenebre.
I suoi lavori erano splendidi, un po' cupi come lui, ma di una bellezza inquietante.
Sembrava che fosse indifferente ai piaceri della vita, ma pare che avesse accumulato un patrimonio enorme in oro, mai scovato dai numerosi ricercatori.
Morì una notte di luna piena in estate, quando il caldo della valle sale sino al tormentato nostro cucuzzolo abitato e il vento perenne si calma senza più sferzare il campaniletto.
Fu composto e nessuno volle vegliarlo di notte: rimase solo nella
sua casa posta sul punto più alto del villaggio.
La notte fu disturbata da fulmini e da vento di bufera, ma la pioggia non ci fu.
I lampi coronavano la torretta dove Nefast aveva trascorso la maggior parte del suo tempo al lavoro o studiando il corso delle stelle.
C'erano parecchi scritti e mappe celesti che il vento strappava e disperdeva: il lavoro di una vita era sparso nell'aria, sui campi.
Nefast era alto e magro, nel suo abito nero appariva ancora più scarno: era rigido come una delle sue statuette, quasi fosse la copia scolpita di uno spettro.
Le unghie erano lunghe e violacee, le mani erano un unico fascio di nervi e nodi, che proseguivano sotto la giacca.
Il collo era teso e la bocca nascondeva il rantolo della morte in una smorfia ghignante.
Nella camera c'erano due sedie malconce, il letto senza saccone come giaciglio, una cassa di legno grezzo, usata sia come panca sia per collocare i pochi stracci del vecchio.
Il morto era stato posto su duri assi, quattro candelabri erano l'unico ornamento funerario e spandevano una luce fioca: le fiammelle erano disturbate da aliti di vento che spifferavano dalle fessure delle pareti crepate.
L'odore di morte aleggiava e i pochi presenti ritennero opportuno
allontanarsi al più presto, sprangando dall'esterno la porta.
Il prete lo volle con insistenza in chiesa per una solitaria funzione.
Il corpo fu chiuso in una cassapanca, non avendo altro in casa che potesse servire da bara, non avendo neppure trovato traccia di denaro per pagare il funerale.
Gli posero una rozza croce sul petto e il becchino lo serrò dentro, fissando il coperchio con tantissimi chiodi: sapeva che con cadaveri di quella risma fosse meglio assicurarsi che non potessero più tornare tra i vivi.
Lo posero nel piccolo camposanto, scavando sino a trovare la roccia, lo coprirono premendogli sopra la terra e un'enorme pietra di granito.
Tutto ciò fu vano, la notte successiva Nefast fu visto aggirarsi nei pressi della sua casa: sembrava che cercasse qualcosa, ma nessuno ebbe il coraggio di chiedergli che cosa volesse.
Allora il becchino innalzò un'enorme croce sopra la tomba, il prete benedisse e ribenedisse la sepoltura, ma il morto non voleva trovare pace, né farla trovare ai suoi compaesani.
Era stato cocciuto da vivo e anche da defunto non c'era sistema per farlo restare nella sua fossa: appena tramontava il sole fuoriusciva dal cimitero e non aveva la decenza di transitare nei viottoli, ma preferiva la strada principale.
Borbottava sempre: -Datemi ciò che è mio! Datemi la mia pentola!-
Tutti sapevano di cosa si trattasse: era l'oro nascosto nella pentola che lo faceva tornare al mondo.
Comunque se noi avessimo scovato il frutto di quella vita malvagia l'avremmo data al parroco per i bisogni dei poveri.
Il suo tanfo era tremendo, appestava l'aria di carogna e la gente si stancò ben presto di dover sopportare una simile presenza: se ne fuggirono senza aver l'ardimento di affrontare lo spettro.
Solo io, giovane e audace pastore, mi posi sul cammino del defunto e attesi che si avvicinasse: -Che vuoi ancora da noi, Nefast?-
-Nulla! Nulla di bene né di male!-
-Nefast, lasciaci in pace!-
-Non posso, mi spiace, non posso!-
Andò per la sua strada e giunse alla sua casa a cercare il suo oro e così avrebbe continuato sino alla fine dei tempi, se non avessimo preso con coraggio le decisioni giuste.
Servivano quattro giovani, ardimentosi e forti, disposti ad affrontare le forze dell'inferno per salvare l'onore e la vita stessa del villaggio.
Già diverse famiglie se ne erano andate e altre stavano per partire: se non ci fossimo impegnati nel borgo sarebbe rimasto solo Nefast, le ortiche, le civette.
Ci trovammo in quattro, decisi a non indietreggiare davanti al pericolo: disseppellimmo il cadavere di Nefast e attendemmo che il sole calasse, proprio quando il dannato doveva alzarsi e andare a fare la sua solita passeggiata tra noi, poveri montanari.
Lo sollevammo sulle spalle e ci dirigemmo verso la valle delle rupi: era un luogo dove il suono delle campane non giungeva mai.
Gli uccelli rapaci vi facevano il nido, i serpenti trovavano anfratti sicuri.
Era tutta una zona di salti, dirupi, frane e arbusti spinosi.
Gli ultimi lupi vi trovavano ancora scampo, le anime perse si sentivano a loro agio, l'aquila vi faceva il nido.
I lampi e i tuoni ben presto ci tormentarono e con essi le voci della notte: ci minacciavano, ci imploravano di arrestarci, di desistere dalla nostra impresa, che si sarebbero vendicati contro di noi.
Non dovemmo cedere a quelle tentazioni, avremmo perso le nostre vite.
Il cammino fu difficoltoso, il cadavere talvolta dava degli scossoni e lanciava urla strazianti di dolore.
Giunti in cima al precipizio più alto della valle posammo la salma al suolo e la facemmo rotolare giù: l'urlo fu tremendo, Nefast si rianimò e cercò di attaccarsi agli arbusti, alle rocce.
Ci maledisse mentre stava rimbalzando di balza in balza e quella caduta ci parve eterna.
Il fuoco dell'inferno già ghermiva il morto: si divincolava con tanta disperazione, che mai più vidi, nemmeno in guerra.
Il fumo di carne bruciata giunse a noi e ci disgustò, poi la fiammata finale, al termine del burrone, ci abbagliò e ci confuse per qualche istante.
Avevamo vinto e il paese era libero, ma ormai il destino del nostro villaggio era segnato: non si riprese più e anche l'ultimo vecchio lo lasciò al soffio della tramontana, alle volpi, alle erbacce e ai ricordi dei defunti.


racconto di Arduino Rossi

nero racconto ...... IL PORTONE DEL DIAVOLO












IL PORTONE DEL DIAVOLO

L'anziano contadino, caricando la sua pipa, cominciò: -Ricordo il giorno dell'arrivo degli zingari: erano di un clan giunto da pochi anni dal levante, dalle terre degli infedeli.
Avevano volti color terra bruciata, gli occhi foschi e maligni.
Gli uomini andavano di casa in casa e vendevano i loro cavalli indomiti, o aggiustavano i piccoli attrezzi dei contadini per pochi soldi.
Le donne mercanteggiavano nei cortili dei cascinali le loro stravaganti stoffe e i loro talismani, che furono utilissimi contro il malocchio e ogni genere di malanno.
I loro ragazzini, mezzi nudi e scalmanati, si intrufolavano nelle abitazioni, o si disperdevano nei campi e rubavano tutto ciò che trovavano. Erano più dannosi di una nube di cavallette: non serviva catturarne uno, perché tutti uniti accorrevano in suo soccorso.
I girovaghi di questo gruppo erano più sfrontati degli altri loro simili e si comportavano come avessero il Maligno dalla loro parte: praticavano le loro abominevoli usanze moresche, non entravano mai nelle nostre chiese e disprezzavano la vera fede.
I colori dei carrozzoni e le decorazioni delle vesti delle donne erano cupi, deprimenti, mentre questo popolo nomade li preferisce fantasiosi e vivaci.
Gli zingari si sono abituati a non infastidire i Signori e non osano avvicinarsi ai palazzi e alle regge, ma questi gaglioffi si erano accampati nei pressi della villa Celadina, accanto alla strada che da Seriate conduce a Bergamo.
La famiglia che l'abitava era conosciuta per la sua nefandezza e per la sua prepotenza.
Di notte avvenivano festini: si udivano urla di dolore e risate feroci, mentre dei servi nerboruti vegliavano all'esterno, con le armi bene in vista.
Se la luna era piena, i cipressi attorno al muro di cinta, agitati dal vento, parevano anime in pena.
I viandanti notturni affrettavano il passo timorosi, davanti a quel tetro edificio di nuda pietra e dalle grosse inferriate alle finestre.
Tre nomadi pezzenti chiedevano la carità: uno era vecchio, dalla schiena curva e dal viso da topo; l'altro era un giovane dal fisico possente, orgoglioso, dal sorriso sardonico; la terza era una ragazza sinuosa dalla pelle d'avorio, il volto malizioso e le movenze provocanti.
Per i contadini questi falsi accattoni erano alleati del Diavolo: morte e disgrazie erano capitate a chi li aveva bistrattati.
Tutti soddisfacevano le loro esose richieste di denaro: al loro passaggio le donne richiamavano i figli, chiudevano le porte e gli scuri.
I tre giunsero alla villa Celadina e dissero al servo di guardia: -Avvisa i tuoi padroni che dovranno darci un'abbondante elemosina, se non vogliono la nostra maledizione!-
L'uomo corse nella sala, dove la famiglia era riunita per la cena, e riferì il ricatto.
La cattiva fama dei nomadi era giunta anche a loro e tutti rimasero silenziosi.
Il figlio maggiore, conosciuto per la sua temerarietà e la sua crudeltà, scoppiò in una risata: -Chi crederebbe che mio padre e i miei valorosi fratelli fossero così superstiziosi? Se questi miserabili sono servi del Diavolo, noi pure siamo amici di Satana!-

I tre entrarono nel salone silenzioso e la loro grinta spense l'allegria dei Signori.
Il figlio maggiore spavaldo si rivolse agli ospiti: -Benvenuti miei nobili amici, la mia casa sarà la vostra! Oh! Signori! Guardate la delicatezza dei loro pizzi e l'eleganza dei loro abiti!-
I tre rimasero impassibili alle burle e, cessate le risate dei presenti, ripeterono minacciosi la loro richiesta.
Il vecchio Signore, padre di quella famiglia e con la coscienza lorda di malefatte, si alzò furioso e ordinò a tutti i servi di legare gli intrusi.
Fu una lotta forsennata perché i tre resistettero disperatamente.
Furono sopraffatti, legati alle colonne del salone in attesa di essere frustati.
Il figlio maggiore aveva notato la rara bellezza della ragazza, guardandola con cupidigia, e la slegò: -Tu sei un fiore troppo delicato per essere sferzato!-
A quello sguardo ella rispose conficcando le sue forti unghie nelle guance dell'impertinente, con rabbia selvaggia.
A fatica i servi la strapparono dal giovane, che si allontanò maledicendola e ordinò una vendetta spietata.
Più i tre disgraziati urlavano sotto le frustate e più gli spettatori si sentivano vendicati.
Il vecchio Signore poi li rilasciò, compiaciuto di aver dato un esempio efficace a tutti i nomadi, che si aggiravano nei dintorni.
I tre si reggevano ancora bene sulle gambe e il loro viso esprimeva un odio feroce: furono sospinti dai servi con pugni e con calci fuori dalla villa.
Non si allontanarono subito, ma il più vecchio tolse di tasca un pezzo di carbone e tracciò alcuni segni incomprensibili su un pilastro del portone d'entrata: pronunciò in una lingua forestiera alcune frasi.
Dopo questa disavventura l'intera carovana se ne andò per non tornare mai più.
Fu una liberazione per noi contadini: la partenza venne salutata dal parroco col suono delle campane a festa e con una Messa di ringraziamento.
I servi della villa erano molto preoccupati e tentarono di cancellare la scritta.
Nessuno capì che cosa significassero quegli strani segni, ordinati in eleganti caratteri tondi: un astrologo credette di riconoscere l'alfabeto degli antichi negromanti d'oriente, ma non seppe decifrarlo.
Intanto ogni tentativo di cancellarli fu inutile e più nessuno li osservò.
Alcuni mesi dopo, durante un temporale violento, si udì un orrendo verso, né umano, né animale, provenire dal portone.
Accorsero i servi: un fumo giallastro dall'odore acre di zolfo offuscò la loro vista.
Videro la terribile presenza del Maligno: bestia immonda, dalla vaga fisionomia umana, con la potente muscolatura, che tendeva la pelle nera.
Si arrestarono al grugnito aggressivo del Demonio, che pose con
violenza la sua mano unghiata sopra i segni cabalisti degli zingari.
Dal giorno di quella visione tutti i responsabili e i testimoni della fustigazione subirono tremende punizioni, o morirono in pochi anni.
Ancora oggi l'impronta della mano del Diavolo rimane a provare la
verità di questa storia, che non è una leggenda.


racconto di Arduino Rossi

di paura storie .....I MINATORI DEL PARISAL











I MINATORI DEL PARISAL

Stavo mirando lo splendido panorama del lago artificiale di Altamora, quando un mandriano mi si avvicinò e mi distolse dalla
contemplazione: -Appare bello e tranquillo, ma non si lasci ingannare! In realtà è più malinconico di una tomba!-
Io rimasi allibito, perché mi parve impossibile che quella limpida acqua azzurra potesse celare qualche tragedia.
L'uomo mi sembrava molto vecchio, forse per i suoi abiti logori da montanaro di altri tempi e per la pelle del suo volto, raggrinzita dal sole e dalle intemperie.
I suoi modi erano schietti e cordiali; gli ispirai fiducia ed egli mi raccontò la triste vicenda dei minatori del Parisàl: -La diga ha poche decine di anni e l'acqua ha coperto una casa situata in questa valletta.
Era in granito, ben costruita dai minatori che l'avevano abitata.
Intere generazioni avevano scavato nelle viscere rocciose, seguendo i filoni del minerale di ferro, nelle gallerie profonde e intricate, così che gran parte di questi stretti cunicoli erano stati abbandonati, perché pericolosi.
Il lavoro di quei minatori era duro e difficile: i padri conducevano con loro i figli per addestrarli al mestiere fin da fanciulli.
Era povera gente, orgogliosa e rispettata.
Alla fine di un'estate di molti anni fa, venti uomini stavano concludendo la stagione mineraria, pregustando il ritorno al loro paese.
Quell'anno era stato fruttuoso: una nuova vena mineraria, ricca, era stata scoperta.
Era però in una zona umida e instabile della montagna, il più vecchio ed esperto dei minatori scongiurò i compagni a non avventurarsi, perché prevedeva con sorprendente anticipo il cattivo esito dello scavo.
La facilità con cui si lavorava e l'abbondanza di ferro nelle rocce convinse i più avidi a non ascoltare il vecchio cieco e i più prudenti non seppero imporsi.
C'era molta acqua in quella nuova galleria: due apprendisti la raccoglievano ininterrottamente con grandi secchi e la gettavano in un vecchio pozzo scuro.
Ogni tanto giocherellavano, spruzzandosi addosso l'acqua e rincorrendosi come due gatti nella notte.
Le infiltrazioni d'acqua facevano marcire i rari puntelli di legno, collocati provvisoriamente per dedicare più tempo all'estrazione.
Dopo i temporali si formavano dei veri torrenti sotterranei, che incrinavano i deboli sostegni e provocavano piccoli crolli.
Il vecchio cieco ascoltava i lamenti impercettibili del monte e un giorno intuì la catastrofe.
Scese nella miniera, dove si muoveva meglio di qualsiasi altro, per salvare i suoi compagni imprudenti: non aveva ancora finito di parlare che una frana di sassi e di fango bloccò tutte le uscite.
Gli uomini si guardarono terrorizzati: l'impeto di un fiume sotterraneo aveva fatto crollare delle gallerie e aperto voragini.
Essi trovarono scampo nel cunicolo più alto, dove l'acqua non poteva arrivare a attesero che quel finimondo cessasse.
Ammucchiarono gli attrezzi superstiti, che sarebbero stati utili per aprirsi la strada della salvezza e si posero uno accanto all'altro, più per sentirsi uniti che per proteggersi dal freddo e dall'umidità.
Il vecchio cieco impose il silenzio e la calma; ordinò che una sola lampada fosse lasciata accesa, per risparmiare l'olio.
Le ore trascorsero e nulla avvenne; l'aria si era appesantita e si respirava a fatica.
Nella fioca luce tremolante si distingueva appena tra loro: c'era chi tremava per il freddo e per la paura, chi pregava per farsi coraggio.
Più nessuno bestemmiava e l'angoscia calava su di loro e segnava i volti.
Anche l'olio dell'ultima lampada si consumò: nel silenzio si udiva solo il singhiozzo dei due ragazzi.
Fuori il frastuono dei crolli aveva richiamato mandriani e cavatori delle cave vicine, ma la speranza di aiutare gli sventurati svanirono presto.
Più nessuno si fidò a riaprire la miniera e quei poveri resti non furono mai estratti.
I morti non hanno pace se non si dà loro una sepoltura cristiana: questi avevano sperato sino all'ultimo ed erano morti maledicendo la negligenza dei soccorritori.
La loro solida casa fu utilizzata come ricovero dei pastori, nella stagione estiva, e come roccolo dei cacciatori, in autunno.
Tutti si sarebbero scordati della vecchia miniera e delle sue vittime, se voci e pianti non si fossero uditi: colpi di piccone e richieste di aiuto sembravano uscire dalla profondità della montagna.
Un pittore girovago, che dipingeva Santi e Madonne sulle facciate
delle cascine, salì alla miniera.
Nessuno lo aveva chiamato, ma spinto da pietà cristiana rappresentò una grande crocifissione e il martirio di alcuni rustici Santi, sulle quattro pareti della casa.
Usò tetri colori per rendere il macabro ricordo di quel luogo: a guardare quegli affreschi si provava il terrore della morte.
Da ragazzo io mi rifugiavo in quella casa durante le notti di tempesta.
Ricordo che lasciavo accesa la lampada a petrolio sino all'alba,
perché le immagini alle pareti mi sembravano dei fantasmi, pronti
ad aggredire.
Nelle notti più scure tenui singhiozzi e improvvisi colpi giungevano dal sottosuolo: io allora pregavo per vincere il terrore!-

Il mandriano terminò il racconto, andandosene come nulla fosse capitato.
Rimasi stupito per quel comportamenti strano, poi tornai ad a mirare quel bel lago placido, limpido, con il cielo riflesso e al pensiero di quei poveretti, sepolti sotto quella massa d'acqua e di rocce, provai tanta pena.

racconto di Arduino Rossi

Fiaba popolare .... GIOVANNINO SENZA PAURA









GIOVANNINO SENZA PAURA

Gli amici li dicevano: -Giovannino perché non vai, con tua madre, in valle a lavorare?-
Egli rispondeva: -Mia madre morirebbe se dovesse abbandonare la sua baita, per brutta e solitaria che sia.
Li viveva mio padre e nei pascoli attorno portava il suo bestiame; io continuerò a far lo stesso e dopo di me i miei figli!-
Giovannino non era un perditempo e quasi mai entrava nell'osteria, ma gli amici lo volevano ugualmente con loro.
Gli pagavano da bere per sentirlo parlare: -L'altro ieri ero al pascolo e il temporale mi spaventò le mucche, due mi scapparono verso i dirupi sopra il bosco. Corsi a riprenderle, ma l'erba tra le rocce era scivolosa. Solo Dio sa come riuscii a salvarle!-
Diversi testimoni confermavano la sua indifferenza al pericolo: con invidia e un po' di ironia era stato ribattezzato "Senza Paura".
Le brache di lana, la marsina sino alla vita e il cappello dalle ampie falde erano i simboli della sua indipendenza, oltre che tipici dei pastori.
In un inverno tiepido, poco prima di Natale, Giovannino scese eccezionalmente in paese.
Egli voleva scambiare quattro chiacchiere e passeggiare tranquillamente tra i banchi del mercato: gli intensi odori delle focacce lo stuzzicavano e la merce colorata lo rallegrava.
Quel giorno, spostandosi senza meta tra la folla, arrivò al sagrato della chiesa, vide un gruppo di suoi coetanei e di ragazzini che ascoltavano un vecchio: -E' questo il periodo dell'anno più pericoloso! Questi esseri infernali si riuniscono nelle vallate più desolate.-
I più giovani si strinsero ai fratelli maggiori.
Giovannino si intromise: -E chi ha visto questi spettri?-
Il vecchio cieco non badò a lui e non si interruppe: -Le impronte di piccoli piedi nudi, accanto a orme caprine: sono la traccia del loro passaggio.-
Giovannino replicò:-Io vivo in montagna da quando sono nato e non ho mai visto qualcosa di simile!-
Il vecchio tacque: sembrava che guardasse oltre il visibile, il sole gli illuminava la fronte e gli occhi bianchi.
Il buon Alessio intervenne: -Giovannino non cambi mai! Non credi
in nulla e non rispetti gli anziani!-
Luigi si inserì con decisione nel battibecco: -Giovannino hai ragione! Io credo che siano fandonie!-
A loro si unirono i frequentatori delle osterie e discussero, dopo una buona bottiglia di vino, con convinzione e con foga.
Il diverbio si protrasse per oltre mezz'ora: i coraggiosi si appellavano al buon senso e i prudenti si richiamavano alla tradizione.
Giovannino li zittì: -Quanto fiato sprecato! Io salirò al vallone delle streghe e alla mezzanotte del 31 dicembre, accenderò un fuoco come prova.-
Poi li lasciò, sicuro di averli stupiti.
La notte prestabilita era limpida e, per i riflessi della neve, una luce uniforme e tenue avvolgeva le montagne.
Le ore si susseguirono senza avvenimenti: il vento muoveva i larici solitari, scure ombre tra il chiarore della neve.
Il blu terso del cielo, uniformemente sereno, lo rassicurava: ogni timore era insensato in quella notte tranquilla.
Attese la mezzanotte, annunciata dai sommessi rintocchi dell'orologio della torre.
Si concesse un'altra ora, per rassicurarsi la vittoria sulla scommessa, e imboccò la via del ritorno.
La neve era morbida e Giovannino si sentiva sicuro di sé: scivolava lungo i canaloni innevati.
Aumentò la velocità e perse il controllo, si capovolse finendo tra i rovi.
Pulviscolo di neve gli cadde sul volto e tra i capelli, annebbiandogli la vista.
Giovannino disse: -Quei fifoni hanno paura a mettere fuori il naso dopo il tramonto. Non sanno quanto sia bella la notte!-
Risate simili a striduli metallici lo fecero voltare verso un gruppo di alberi neri.
La neve fu invasa da un fascio luminoso, diventando sanguigna e azzurrina.
Giovannino sbalordì e, confuso, vide tre fanciulle sorridenti avvicinarsi.
Esse lo attorniarono, gli rubarono il cappello e lo gettarono in alto; Giovannino tentava di riprenderlo, ma gli sfuggiva appena lo sfiorava.
Cloe, la più bella, si mise a suonare lo zufolo di Giovannino: l'aspro suono era divenuto languido.
Giovannino chiese, più curioso che intimorito: -Chi siete e cosa volete?-
Le fanciulle risposero insieme: -Indovina chi siamo? Indovina da dove veniamo?...-
Danzavano armoniose e le vesti luccicanti, come tessute da mille fiammelle, seguivano i loro movimenti leggeri.
Esse cantilenarono: -Chiedi a Lei cosa vogliamo da te?-
-Perché da me? No, devi chiederlo a Cloe, io non ne so nulla...-
Lo accompagnarono al suo casolare ed egli rideva con loro.
Vicino alla baita di Giovannino, Cloe gli restituì lo zufolo: -Ritorna l'anno prossimo! Vedrai che ci divertiremo ancora!-
Svanirono, lasciando una scia di tenue chiarore.
Alcuni giorni dopo la madre notò preoccupata il mutamento del figlio: -Giovannino da quella notte non sei più lo stesso. Che cosa avvenne?-
Egli non rispondeva e si chiudeva nella sua malinconia, ma, insistendo, la povera donna lo convinse a confidarsi.
Ella si spaventò: -Devi scordarti quegli esseri, la loro bellezza è maledetta!-
La tristezza di Giovannino si trasformò in malattia e la madre non ebbe altra alternativa: -Ritorna da Cloe, butta ai suoi piedi il tuo cappello, come usiamo noi montanari per chiedere in matrimonio una sposa, e corri a casa. Ella sarà costretta a restituirti il cappello o rimarrà compromessa.-
Puntuale Giovannino salì al vallone delle streghe e accese il fuoco; trascorsa la mezzanotte le tre fanciulle riapparvero, più impertinenti e ammalianti che mai.
Egli getto il suo cappello ai piedi della ragazza e le disse: -Riconsegnamelo, se riesci!-
Poi spiccò una corsa velocissima e fu subito in vantaggio.
Cloe raccolse tranquilla il cappello e lo inseguì, ridacchiando: -Giovannino! Non credere di sfuggirmi!-
Egli si muoveva nervoso, con il fiato grosso: saltava di roccia in roccia, o si calava lungo i tratti più ripidi per abbreviare il percorso.
Cloe lo seguiva ad alcuni metri di distanza, leggera come fosse portata dal vento.
Giunti al casolare Giovannino vi entrò e Cloe si arrestò sulla porta, un poco timoroso.
Egli si girò e afferrò il bordo del cappello, ma Cloe non cedette: -Non entro in casa! Il cappello te lo restituisco fuori, o sarò costretta a rimanere con te.-
La madre giunse in soccorso del figlio e tentò inutilmente di sospingerla alle spalle, ma poi Giovannino supplicò Cloe: -Io ti desidero! Non potrei vivere senza di te!-
Cloe sorrise beffarda.
La speranza crebbe in Giovannino mentre ella gli poneva le sue condizioni: -Io sono disposta a rimanere con te, sino a quando tu avrai per me il rispetto e l'amore che merito!-
Allora il giovane le baciò le mani e il viso: -Mai! Mai ti farò del male! Come potrei?-
Ella abbandonò il cappello ed entrò in casa.
La madre non credeva che Cloe si adattasse ad una vita da pastorella: -Giovannino, lei non ha mai lavorato! E' sempre stata libera nei boschi.-
Cloe e Giovannino invece vissero sereni per tanti anni ed ebbero parecchi figli, belli e furbetti.
Il tempo si era dimenticato di Cloe, che conservava il suo aspetto.
Ella giocava con i figli che assomigliavano a lei, allegri e un poco enigmatici.
Invecchiando, al contrario, il carattere di Giovannino si inaspriva, come quello degli uomini soli.
Cloe non rispettava più il marito, diventando sempre più ironica
e sprezzante.
La pazienza di Giovannino stava per cedere: -Dove sei stata oggi?
La casa è un caos!-
Ella canticchiava con i figli.
Giovannino si infuriò: -Vuoi ascoltarmi! E' da parecchio che mi eviti.-
Cloe ribatté: -Che cosa possiamo dirci?-
Ella gli sorrise e fece per uscire, ma Giovannino l'afferrò a un braccio: -Fermati! Dobbiamo chiarire molte cose!-
Egli le batté il dorso della mano, ma piano per non farle male.
Cloe lo guardò con aria maligna: -Perché l'hai fatto? Hai rovinato tutto!-
Ella sparì con i suoi figli.
Giovannino impietrì, incredulo del fatto.
Uscì dal casolare sconvolto e pianse: -Cloe, dove sei? Ti scongiuro, perdonami! Cloe, non puoi abbandonarmi!-
Per parecchi giorni brancolò nei boschi e sui prati, dormendo all'aria aperta.
Il suo aspetto si era inselvatichito e i pastori lo temevano, i più pietosi gli gettavano un pezzo di pane.
Egli sperava ancora: -E' sicuramente la mia punizione. Ritornerà da me e sarà come la prima volta!-
L'ultimo giorno dell'anno risalì al vallone delle streghe e attese la mezzanotte.
Il vento lo tormentava, con fatica egli manteneva acceso il fuoco.
I versi degli animali notturni scandivano il trascorrere delle ore sino all'alba.
Con il nuovo giorno perse ogni speranza: -Sono un dannato sulla Terra! L'inferno non sarà peggiore!-
Fu visto precipitare in un burrone, in fondo al quale scorreva un torrente impetuoso: l'acqua lo travolse e lo trascinò.
Alcuni uomini pietosi cercarono la sua salma in ogni anfratto e tra le rocce, ma tutto fu inutile.
Giovannino non ebbe mai una sepoltura cristiana.

racconto di Arduino Rossi