IL
PORTONE DEL DIAVOLO
L'anziano
contadino, caricando la sua pipa, cominciò: -Ricordo il giorno
dell'arrivo degli zingari: erano di un clan giunto da pochi anni dal
levante, dalle terre degli infedeli.
Avevano
volti color terra bruciata, gli occhi foschi e maligni.
Gli
uomini andavano di casa in casa e vendevano i loro cavalli indomiti,
o aggiustavano i piccoli attrezzi dei contadini per pochi soldi.
Le
donne mercanteggiavano nei cortili dei cascinali le loro stravaganti
stoffe e i loro talismani, che furono utilissimi contro il malocchio
e ogni genere di malanno.
I
loro ragazzini, mezzi nudi e scalmanati, si intrufolavano nelle
abitazioni, o si disperdevano nei campi e rubavano tutto ciò che
trovavano. Erano più dannosi di una nube di cavallette: non serviva
catturarne uno, perché tutti uniti accorrevano in suo soccorso.
I
girovaghi di questo gruppo erano più sfrontati degli altri loro
simili e si comportavano come avessero il Maligno dalla loro parte:
praticavano le loro abominevoli usanze moresche, non entravano mai
nelle nostre chiese e disprezzavano la vera fede.
I
colori dei carrozzoni e le decorazioni delle vesti delle donne erano
cupi, deprimenti, mentre questo popolo nomade li preferisce
fantasiosi e vivaci.
Gli
zingari si sono abituati a non infastidire i Signori e non osano
avvicinarsi ai palazzi e alle regge, ma questi gaglioffi si erano
accampati nei pressi della villa Celadina, accanto alla strada che da
Seriate conduce a Bergamo.
La
famiglia che l'abitava era conosciuta per la sua nefandezza e per la
sua prepotenza.
Di
notte avvenivano festini: si udivano urla di dolore e risate feroci,
mentre dei servi nerboruti vegliavano all'esterno, con le armi bene
in vista.
Se
la luna era piena, i cipressi attorno al muro di cinta, agitati dal
vento, parevano anime in pena.
I
viandanti notturni affrettavano il passo timorosi, davanti a quel
tetro edificio di nuda pietra e dalle grosse inferriate alle
finestre.
Tre
nomadi pezzenti chiedevano la carità: uno era vecchio, dalla schiena
curva e dal viso da topo; l'altro era un giovane dal fisico possente,
orgoglioso, dal sorriso sardonico; la terza era una ragazza sinuosa
dalla pelle d'avorio, il volto malizioso e le movenze provocanti.
Per
i contadini questi falsi accattoni erano alleati del Diavolo: morte e
disgrazie erano capitate a chi li aveva bistrattati.
Tutti
soddisfacevano le loro esose richieste di denaro: al loro passaggio
le donne richiamavano i figli, chiudevano le porte e gli scuri.
I
tre giunsero alla villa Celadina e dissero al servo di guardia:
-Avvisa i tuoi padroni che dovranno darci un'abbondante elemosina, se
non vogliono la nostra maledizione!-
L'uomo
corse nella sala, dove la famiglia era riunita per la cena, e riferì
il ricatto.
La
cattiva fama dei nomadi era giunta anche a loro e tutti rimasero
silenziosi.
Il
figlio maggiore, conosciuto per la sua temerarietà e la sua
crudeltà, scoppiò in una risata: -Chi crederebbe che mio padre e i
miei valorosi fratelli fossero così superstiziosi? Se questi
miserabili sono servi del Diavolo, noi pure siamo amici di Satana!-
I
tre entrarono nel salone silenzioso e la loro grinta spense
l'allegria dei Signori.
Il
figlio maggiore spavaldo si rivolse agli ospiti: -Benvenuti miei
nobili amici, la mia casa sarà la vostra! Oh! Signori! Guardate la
delicatezza dei loro pizzi e l'eleganza dei loro abiti!-
I
tre rimasero impassibili alle burle e, cessate le risate dei
presenti, ripeterono minacciosi la loro richiesta.
Il
vecchio Signore, padre di quella famiglia e con la coscienza lorda di
malefatte, si alzò furioso e ordinò a tutti i servi di legare gli
intrusi.
Fu
una lotta forsennata perché i tre resistettero disperatamente.
Furono
sopraffatti, legati alle colonne del salone in attesa di essere
frustati.
Il
figlio maggiore aveva notato la rara bellezza della ragazza,
guardandola con cupidigia, e la slegò: -Tu sei un fiore troppo
delicato per essere sferzato!-
A
quello sguardo ella rispose conficcando le sue forti unghie nelle
guance dell'impertinente, con rabbia selvaggia.
A
fatica i servi la strapparono dal giovane, che si allontanò
maledicendola e ordinò una vendetta spietata.
Più
i tre disgraziati urlavano sotto le frustate e più gli spettatori si
sentivano vendicati.
Il
vecchio Signore poi li rilasciò, compiaciuto di aver dato un esempio
efficace a tutti i nomadi, che si aggiravano nei dintorni.
I
tre si reggevano ancora bene sulle gambe e il loro viso esprimeva un
odio feroce: furono sospinti dai servi con pugni e con calci fuori
dalla villa.
Non
si allontanarono subito, ma il più vecchio tolse di tasca un pezzo
di carbone e tracciò alcuni segni incomprensibili su un pilastro del
portone d'entrata: pronunciò in una lingua forestiera alcune frasi.
Dopo
questa disavventura l'intera carovana se ne andò per non tornare mai
più.
Fu
una liberazione per noi contadini: la partenza venne salutata dal
parroco col suono delle campane a festa e con una Messa di
ringraziamento.
I
servi della villa erano molto preoccupati e tentarono di cancellare
la scritta.
Nessuno
capì che cosa significassero quegli strani segni, ordinati in
eleganti caratteri tondi: un astrologo credette di riconoscere
l'alfabeto degli antichi negromanti d'oriente, ma non seppe
decifrarlo.
Intanto
ogni tentativo di cancellarli fu inutile e più nessuno li osservò.
Alcuni
mesi dopo, durante un temporale violento, si udì un orrendo verso,
né umano, né animale, provenire dal portone.
Accorsero
i servi: un fumo giallastro dall'odore acre di zolfo offuscò la loro
vista.
Videro
la terribile presenza del Maligno: bestia immonda, dalla vaga
fisionomia umana, con la potente muscolatura, che tendeva la pelle
nera.
Si
arrestarono al grugnito aggressivo del Demonio, che pose con
violenza
la sua mano unghiata sopra i segni cabalisti degli zingari.
Dal
giorno di quella visione tutti i responsabili e i testimoni della
fustigazione subirono tremende punizioni, o morirono in pochi anni.
Ancora
oggi l'impronta della mano del Diavolo rimane a provare la
verità
di questa storia, che non è una leggenda.
racconto di Arduino Rossi