L'INDESIDERATO
Morire
non era considerato un fatto particolarmente tragico nel mio rustico
villaggio: un borgo di dieci case e una chiesetta.
E'
un luogo ideale per gli amanti della solitudine e della natura
selvatica: la boscaglia ha invaso gli antichi pascoli e specie
scomparse da secoli hanno ricominciato a infestare la campagna.
La
vita qui è difficile e sono rimasti in pochi nei dintorni a
raccogliere castagne, nocciole, a vivere di latte e di formaggio di
capra, a intagliare il legno.
Quello
dell'artigianato artistico era una delle attività più rinomate e
più redditizie del paesino: le statuette, i mobili intagliati
venivano venduti in tutta Europa, ma erano solo pochi vecchi a
continuare il mestiere che aveva dato lustro al nostro sperduto
paesello.
Era
faticoso e occorreva passare la giovinezza chinati sul legno,
apprendendo con pazienza dai maestri intagliatori.
I
giovani preferivano un lavoro sicuro a valle, magari senza dignità,
né abilità artigianale: l'importante era guadagnare subito.
Fu
proprio il più vecchio tra gli intagliatori a portare rovina e
pessima fama al borghetto, riducendolo in uno spettrale rudere
abbandonato.
Era
abile nel lavoro, ma era anche un uomo di abitudini indecorose: era
un vizioso, aveva provato ogni esperienza negativa.
I
figli erano fuggiti da lui, dimenticandolo, la moglie era morta di
crepacuore, la madre lo aveva maledetto in punto di morte, il padre
non lo aveva mai conosciuto, ma si diceva che fosse il figlio di un
vagabondo senza timore di Dio.
Aveva
subito dimostrato una grande passione per l'artigiano artistico e
aveva ben presto superato il suo maestro in abilità.
Aveva
pure appreso tecniche di stregoneria, magia nera, negromanzia,
astrologia: era capace di fare dei malefici, delle pozioni, dei riti
diabolici.
Era
spesso al piccolo cimitero di notte e qualche volta fu scoperto
mentre stava scoperchiando qualche sepoltura.
Comunque
personaggi dediti a riti macabri nella valle ce ne furono sempre e la
gente aveva spesso chiesto i suoi servigi per comunicare con
l'Oltretomba, per conoscere il futuro, per curare malattie, per fare
il malocchio ai nemici.
Nefast
era quindi invecchiato in tranquillità, senza trovare avversari così
coraggiosi da poterlo affrontare: il parroco lo ignorava e entrambi
operavano nel loro settore, l'uno con le forze del Cielo, l'altro con
le potenze delle tenebre.
I
suoi lavori erano splendidi, un po' cupi come lui, ma di una bellezza
inquietante.
Sembrava
che fosse indifferente ai piaceri della vita, ma pare che avesse
accumulato un patrimonio enorme in oro, mai scovato dai numerosi
ricercatori.
Morì
una notte di luna piena in estate, quando il caldo della valle sale
sino al tormentato nostro cucuzzolo abitato e il vento perenne si
calma senza più sferzare il campaniletto.
Fu
composto e nessuno volle vegliarlo di notte: rimase solo nella
sua
casa posta sul punto più alto del villaggio.
La
notte fu disturbata da fulmini e da vento di bufera, ma la pioggia
non ci fu.
I
lampi coronavano la torretta dove Nefast aveva trascorso la maggior
parte del suo tempo al lavoro o studiando il corso delle stelle.
C'erano
parecchi scritti e mappe celesti che il vento strappava e disperdeva:
il lavoro di una vita era sparso nell'aria, sui campi.
Nefast
era alto e magro, nel suo abito nero appariva ancora più scarno: era
rigido come una delle sue statuette, quasi fosse la copia scolpita di
uno spettro.
Le
unghie erano lunghe e violacee, le mani erano un unico fascio di
nervi e nodi, che proseguivano sotto la giacca.
Il
collo era teso e la bocca nascondeva il rantolo della morte in una
smorfia ghignante.
Nella
camera c'erano due sedie malconce, il letto senza saccone come
giaciglio, una cassa di legno grezzo, usata sia come panca sia per
collocare i pochi stracci del vecchio.
Il
morto era stato posto su duri assi, quattro candelabri erano l'unico
ornamento funerario e spandevano una luce fioca: le fiammelle erano
disturbate da aliti di vento che spifferavano dalle fessure delle
pareti crepate.
L'odore
di morte aleggiava e i pochi presenti ritennero opportuno
allontanarsi
al più presto, sprangando dall'esterno la porta.
Il
prete lo volle con insistenza in chiesa per una solitaria funzione.
Il
corpo fu chiuso in una cassapanca, non avendo altro in casa che
potesse servire da bara, non avendo neppure trovato traccia di denaro
per pagare il funerale.
Gli
posero una rozza croce sul petto e il becchino lo serrò dentro,
fissando il coperchio con tantissimi chiodi: sapeva che con cadaveri
di quella risma fosse meglio assicurarsi che non potessero più
tornare tra i vivi.
Lo
posero nel piccolo camposanto, scavando sino a trovare la roccia, lo
coprirono premendogli sopra la terra e un'enorme pietra di granito.
Tutto
ciò fu vano, la notte successiva Nefast fu visto aggirarsi nei
pressi della sua casa: sembrava che cercasse qualcosa, ma nessuno
ebbe il coraggio di chiedergli che cosa volesse.
Allora
il becchino innalzò un'enorme croce sopra la tomba, il prete
benedisse e ribenedisse la sepoltura, ma il morto non voleva trovare
pace, né farla trovare ai suoi compaesani.
Era
stato cocciuto da vivo e anche da defunto non c'era sistema per farlo
restare nella sua fossa: appena tramontava il sole fuoriusciva dal
cimitero e non aveva la decenza di transitare nei viottoli, ma
preferiva la strada principale.
Borbottava
sempre: -Datemi ciò che è mio! Datemi la mia pentola!-
Tutti
sapevano di cosa si trattasse: era l'oro nascosto nella pentola che
lo faceva tornare al mondo.
Comunque
se noi avessimo scovato il frutto di quella vita malvagia l'avremmo
data al parroco per i bisogni dei poveri.
Il
suo tanfo era tremendo, appestava l'aria di carogna e la gente si
stancò ben presto di dover sopportare una simile presenza: se ne
fuggirono senza aver l'ardimento di affrontare lo spettro.
Solo
io, giovane e audace pastore, mi posi sul cammino del defunto e
attesi che si avvicinasse: -Che vuoi ancora da noi, Nefast?-
-Nulla!
Nulla di bene né di male!-
-Nefast,
lasciaci in pace!-
-Non
posso, mi spiace, non posso!-
Andò
per la sua strada e giunse alla sua casa a cercare il suo oro e così
avrebbe continuato sino alla fine dei tempi, se non avessimo preso
con coraggio le decisioni giuste.
Servivano
quattro giovani, ardimentosi e forti, disposti ad affrontare le forze
dell'inferno per salvare l'onore e la vita stessa del villaggio.
Già
diverse famiglie se ne erano andate e altre stavano per partire: se
non ci fossimo impegnati nel borgo sarebbe rimasto solo Nefast, le
ortiche, le civette.
Ci
trovammo in quattro, decisi a non indietreggiare davanti al pericolo:
disseppellimmo il cadavere di Nefast e attendemmo che il sole
calasse, proprio quando il dannato doveva alzarsi e andare a fare la
sua solita passeggiata tra noi, poveri montanari.
Lo
sollevammo sulle spalle e ci dirigemmo verso la valle delle rupi: era
un luogo dove il suono delle campane non giungeva mai.
Gli
uccelli rapaci vi facevano il nido, i serpenti trovavano anfratti
sicuri.
Era
tutta una zona di salti, dirupi, frane e arbusti spinosi.
Gli
ultimi lupi vi trovavano ancora scampo, le anime perse si sentivano a
loro agio, l'aquila vi faceva il nido.
I
lampi e i tuoni ben presto ci tormentarono e con essi le voci della
notte: ci minacciavano, ci imploravano di arrestarci, di desistere
dalla nostra impresa, che si sarebbero vendicati contro di noi.
Non
dovemmo cedere a quelle tentazioni, avremmo perso le nostre vite.
Il
cammino fu difficoltoso, il cadavere talvolta dava degli scossoni e
lanciava urla strazianti di dolore.
Giunti
in cima al precipizio più alto della valle posammo la salma al suolo
e la facemmo rotolare giù: l'urlo fu tremendo, Nefast si rianimò e
cercò di attaccarsi agli arbusti, alle rocce.
Ci
maledisse mentre stava rimbalzando di balza in balza e quella caduta
ci parve eterna.
Il
fuoco dell'inferno già ghermiva il morto: si divincolava con tanta
disperazione, che mai più vidi, nemmeno in guerra.
Il
fumo di carne bruciata giunse a noi e ci disgustò, poi la fiammata
finale, al termine del burrone, ci abbagliò e ci confuse per qualche
istante.
Avevamo
vinto e il paese era libero, ma ormai il destino del nostro villaggio
era segnato: non si riprese più e anche l'ultimo vecchio lo lasciò
al soffio della tramontana, alle volpi, alle erbacce e ai ricordi dei
defunti.
racconto di Arduino Rossi