12 set 2012

in italia fantasmi .... L'INDESIDERATO






L'INDESIDERATO

Morire non era considerato un fatto particolarmente tragico nel mio rustico villaggio: un borgo di dieci case e una chiesetta.
E' un luogo ideale per gli amanti della solitudine e della natura selvatica: la boscaglia ha invaso gli antichi pascoli e specie scomparse da secoli hanno ricominciato a infestare la campagna.
La vita qui è difficile e sono rimasti in pochi nei dintorni a raccogliere castagne, nocciole, a vivere di latte e di formaggio di capra, a intagliare il legno.
Quello dell'artigianato artistico era una delle attività più rinomate e più redditizie del paesino: le statuette, i mobili intagliati venivano venduti in tutta Europa, ma erano solo pochi vecchi a continuare il mestiere che aveva dato lustro al nostro sperduto paesello.
Era faticoso e occorreva passare la giovinezza chinati sul legno, apprendendo con pazienza dai maestri intagliatori.
I giovani preferivano un lavoro sicuro a valle, magari senza dignità, né abilità artigianale: l'importante era guadagnare subito.
Fu proprio il più vecchio tra gli intagliatori a portare rovina e pessima fama al borghetto, riducendolo in uno spettrale rudere abbandonato.
Era abile nel lavoro, ma era anche un uomo di abitudini indecorose: era un vizioso, aveva provato ogni esperienza negativa.
I figli erano fuggiti da lui, dimenticandolo, la moglie era morta di crepacuore, la madre lo aveva maledetto in punto di morte, il padre non lo aveva mai conosciuto, ma si diceva che fosse il figlio di un vagabondo senza timore di Dio.
Aveva subito dimostrato una grande passione per l'artigiano artistico e aveva ben presto superato il suo maestro in abilità.
Aveva pure appreso tecniche di stregoneria, magia nera, negromanzia, astrologia: era capace di fare dei malefici, delle pozioni, dei riti diabolici.
Era spesso al piccolo cimitero di notte e qualche volta fu scoperto mentre stava scoperchiando qualche sepoltura.
Comunque personaggi dediti a riti macabri nella valle ce ne furono sempre e la gente aveva spesso chiesto i suoi servigi per comunicare con l'Oltretomba, per conoscere il futuro, per curare malattie, per fare il malocchio ai nemici.
Nefast era quindi invecchiato in tranquillità, senza trovare avversari così coraggiosi da poterlo affrontare: il parroco lo ignorava e entrambi operavano nel loro settore, l'uno con le forze del Cielo, l'altro con le potenze delle tenebre.
I suoi lavori erano splendidi, un po' cupi come lui, ma di una bellezza inquietante.
Sembrava che fosse indifferente ai piaceri della vita, ma pare che avesse accumulato un patrimonio enorme in oro, mai scovato dai numerosi ricercatori.
Morì una notte di luna piena in estate, quando il caldo della valle sale sino al tormentato nostro cucuzzolo abitato e il vento perenne si calma senza più sferzare il campaniletto.
Fu composto e nessuno volle vegliarlo di notte: rimase solo nella
sua casa posta sul punto più alto del villaggio.
La notte fu disturbata da fulmini e da vento di bufera, ma la pioggia non ci fu.
I lampi coronavano la torretta dove Nefast aveva trascorso la maggior parte del suo tempo al lavoro o studiando il corso delle stelle.
C'erano parecchi scritti e mappe celesti che il vento strappava e disperdeva: il lavoro di una vita era sparso nell'aria, sui campi.
Nefast era alto e magro, nel suo abito nero appariva ancora più scarno: era rigido come una delle sue statuette, quasi fosse la copia scolpita di uno spettro.
Le unghie erano lunghe e violacee, le mani erano un unico fascio di nervi e nodi, che proseguivano sotto la giacca.
Il collo era teso e la bocca nascondeva il rantolo della morte in una smorfia ghignante.
Nella camera c'erano due sedie malconce, il letto senza saccone come giaciglio, una cassa di legno grezzo, usata sia come panca sia per collocare i pochi stracci del vecchio.
Il morto era stato posto su duri assi, quattro candelabri erano l'unico ornamento funerario e spandevano una luce fioca: le fiammelle erano disturbate da aliti di vento che spifferavano dalle fessure delle pareti crepate.
L'odore di morte aleggiava e i pochi presenti ritennero opportuno
allontanarsi al più presto, sprangando dall'esterno la porta.
Il prete lo volle con insistenza in chiesa per una solitaria funzione.
Il corpo fu chiuso in una cassapanca, non avendo altro in casa che potesse servire da bara, non avendo neppure trovato traccia di denaro per pagare il funerale.
Gli posero una rozza croce sul petto e il becchino lo serrò dentro, fissando il coperchio con tantissimi chiodi: sapeva che con cadaveri di quella risma fosse meglio assicurarsi che non potessero più tornare tra i vivi.
Lo posero nel piccolo camposanto, scavando sino a trovare la roccia, lo coprirono premendogli sopra la terra e un'enorme pietra di granito.
Tutto ciò fu vano, la notte successiva Nefast fu visto aggirarsi nei pressi della sua casa: sembrava che cercasse qualcosa, ma nessuno ebbe il coraggio di chiedergli che cosa volesse.
Allora il becchino innalzò un'enorme croce sopra la tomba, il prete benedisse e ribenedisse la sepoltura, ma il morto non voleva trovare pace, né farla trovare ai suoi compaesani.
Era stato cocciuto da vivo e anche da defunto non c'era sistema per farlo restare nella sua fossa: appena tramontava il sole fuoriusciva dal cimitero e non aveva la decenza di transitare nei viottoli, ma preferiva la strada principale.
Borbottava sempre: -Datemi ciò che è mio! Datemi la mia pentola!-
Tutti sapevano di cosa si trattasse: era l'oro nascosto nella pentola che lo faceva tornare al mondo.
Comunque se noi avessimo scovato il frutto di quella vita malvagia l'avremmo data al parroco per i bisogni dei poveri.
Il suo tanfo era tremendo, appestava l'aria di carogna e la gente si stancò ben presto di dover sopportare una simile presenza: se ne fuggirono senza aver l'ardimento di affrontare lo spettro.
Solo io, giovane e audace pastore, mi posi sul cammino del defunto e attesi che si avvicinasse: -Che vuoi ancora da noi, Nefast?-
-Nulla! Nulla di bene né di male!-
-Nefast, lasciaci in pace!-
-Non posso, mi spiace, non posso!-
Andò per la sua strada e giunse alla sua casa a cercare il suo oro e così avrebbe continuato sino alla fine dei tempi, se non avessimo preso con coraggio le decisioni giuste.
Servivano quattro giovani, ardimentosi e forti, disposti ad affrontare le forze dell'inferno per salvare l'onore e la vita stessa del villaggio.
Già diverse famiglie se ne erano andate e altre stavano per partire: se non ci fossimo impegnati nel borgo sarebbe rimasto solo Nefast, le ortiche, le civette.
Ci trovammo in quattro, decisi a non indietreggiare davanti al pericolo: disseppellimmo il cadavere di Nefast e attendemmo che il sole calasse, proprio quando il dannato doveva alzarsi e andare a fare la sua solita passeggiata tra noi, poveri montanari.
Lo sollevammo sulle spalle e ci dirigemmo verso la valle delle rupi: era un luogo dove il suono delle campane non giungeva mai.
Gli uccelli rapaci vi facevano il nido, i serpenti trovavano anfratti sicuri.
Era tutta una zona di salti, dirupi, frane e arbusti spinosi.
Gli ultimi lupi vi trovavano ancora scampo, le anime perse si sentivano a loro agio, l'aquila vi faceva il nido.
I lampi e i tuoni ben presto ci tormentarono e con essi le voci della notte: ci minacciavano, ci imploravano di arrestarci, di desistere dalla nostra impresa, che si sarebbero vendicati contro di noi.
Non dovemmo cedere a quelle tentazioni, avremmo perso le nostre vite.
Il cammino fu difficoltoso, il cadavere talvolta dava degli scossoni e lanciava urla strazianti di dolore.
Giunti in cima al precipizio più alto della valle posammo la salma al suolo e la facemmo rotolare giù: l'urlo fu tremendo, Nefast si rianimò e cercò di attaccarsi agli arbusti, alle rocce.
Ci maledisse mentre stava rimbalzando di balza in balza e quella caduta ci parve eterna.
Il fuoco dell'inferno già ghermiva il morto: si divincolava con tanta disperazione, che mai più vidi, nemmeno in guerra.
Il fumo di carne bruciata giunse a noi e ci disgustò, poi la fiammata finale, al termine del burrone, ci abbagliò e ci confuse per qualche istante.
Avevamo vinto e il paese era libero, ma ormai il destino del nostro villaggio era segnato: non si riprese più e anche l'ultimo vecchio lo lasciò al soffio della tramontana, alle volpi, alle erbacce e ai ricordi dei defunti.


racconto di Arduino Rossi