10 set 2012

fantasy racconto ... IL TESORO DEI RE








IL TESORO DEI RE

C'erano rocce aguzze e un profumo di erba selvatica.
Il vento tagliava il cielo con nubi veloci, l'aria pesava su di me e il mio cuore era stanco: avevo gettato anni in cerca di oro, pietre preziose.
Avevo scavato centinaia di tombe, avevo dissacrato antichi templi.
Nei sogni vedevo gli spiriti dei morti che mi maledicevano: avevo disturbato i loro sonni.
A nulla valsero anni di ricerca: il tesoro dei Sovrani del Regno dei Leoni era introvabile.
Per secoli generazioni si erano susseguite negli stenti, di fame per rintracciare la caverna delle sepolture regali: mai nessuno era riuscito a scavarle.
Ormai quello dello "sciacallo" era l'unico lavoro che sapeva fare: mi guadagnavo da vivere con il poco rame e il bronzo che svendeva, assieme al poco vasellame intatto, ai mercanti dei borghi al limite del deserto.
Non avevo avuto una donna, neppure una serva, come usavano i pastori di questi monti: non avevo figli, ma solo bastardi che crescevano nelle strade, rubando per non morire di fame.
Quella fossa era più profonda delle altre e non aveva un sarcofago al suo interno, neppure frantumato da noi tombaroli.
Era strano e pensai che ci fosse un doppio fondo, ma la roccia pareva piena.
Continua a battere, ma la mia picca lanciava solo rumori striduli e scintille.
La lampada a olio lasciava la solita penombra sottile, ma io non avevo bisogno di luce perché stavo diventando cieco.
Era impossibile, mai mi era capitato di trovare una tomba vuota.
Il mio intuito mi suggerì di forzare una fessura e un masso si spostò: fu facile infilarmi nel cunicolo che si era spalancato, ero ormai solo pelle e ossa.
Avanzai nel buio per alcuni minuti, poi sbucai in una grande sala.
Il cuore mi batteva forte: la ricerca di una vita si stava realizzando.
Il mio lume era troppo tenue, ma io ero certo e percepivo con sicurezza ciò che non vedevo: lì c'era l'eredità di sovrani, guerrieri, maghi, stregoni.
Erano stati tiranni feroci, negromanti spiritati.
Le gambe mi tremavano: non credevo alle fandonie narratemi da
ragazzo, ma avevo la sensazione di un pericolo ineluttabile.
I sarcofagi erano enormi, grandi quanto come mausolei collocati
in una grotta naturale, trasformata in tempio.
Una fioca luce avvolgeva tutto, scendeva da un pozzo aperto sulla cima del monte.
Era strano: quello che per secoli generazioni di miei simili avevano cercato era proprio a mia disposizione e per di più di facile raggiungimento.
Qualcosa non quadrava: sulla montagna del Sasso mi ero inerpicato parecchie volte, ma senza esito felice e prima di me molti altri.
Mi chiedevo come non mi fossi accorto di un'apertura così larga, quando avevo esplorato le pendici del monte, palmo a palmo.
Le ombre si allungavano e la notte mi stava ghermendo: ebbi ancora più paura, qualcosa che non provavo da anni.
Avrei dormito lì, o mi rimaneva che tentare la scalata del pozzo: era pazzesco, ma non ebbi alternative.
La mia prima via di entrata si era trasformata in una trappola: il masso era tornato al suo posto e non sapeva come smuoverlo.
La scarsa luce mi rendeva tutto difficile, ma ormai stavo appeso a delle colonne scolpite nella roccia: ero quasi giunto al primo cornicione.
In cima scorsi delle persone muoversi, forse mi avrebbero salvato e non sarebbe stato necessario condividere la mia scoperta.
Al grido di aiuto non risposero, ma prontamente mi lanciarono una corda e mi issarono fuori.
Ero salvo, ma quelli erano proprio dei brutti figuri: mi fissarono con cattiveria, accigliati.
Temetti che fossero gli abitanti dell'ultimo villaggio, prima del deserto, gente selvatica, dura, crudele.
Cercai una giustificazione alla mia presenza nel pozzo, perché per loro ero un sacrilegio penetrare nelle sepolture dei loro antenati: -Stavo cercando dell'acqua e sono caduto dentro. Per caso non ne avete un po'? Ve ne sarei grato!-
Quelli mi guardarono in viso senza dire nulla: uno mi dette una rozza borraccia di stoffa incatramata.
Bevvi con avidità per far credere che stessi morendo di sete.
Ringraziai e restituii la borraccia, quando sentii il rumore di una lama estratta alle mie spalle: intravvidi il luccichio, ma non riuscii a evitare il colpo.
Fui ferito a un braccio.
Ero abituato a risse e a scontri violenti quanto brutali.
Il mio bastone nascondeva un punto affilato: colpii in pieno petto il mio aggressore, che lanciò un urlo rauco da sordomuto.
Mi erano già sopra con i loro coltellacci, quando un ruggito li fece arrestare: si inchinarono davanti alla belva e fuggirono.
Non potevano affrontare il leone, perché considerata sacra, protetta dal loro dio, mostruosa chimera con le fattezze di un sciacallo.
Ero salvo e il felino si accontentò di sbranare il moribondo: era stata attratta dal sangue versato.
Le stelle stavano sopra di me, in un cielo tanto terso da apparire nudo.
La ferita mi faceva male: la strinsi con uno straccio, poi discesi dalla montagna, convinto di poter entrare ancora nel pozzo.
Scivolai, poi precipitai da una parete: caddi al suolo.
Mi ruppi qualche costola, ma mi salvai miracolosamente.
Gli uccellacci dei cadaveri mi stavano volando attorno, eppure mi sentivo in forze.
La notte non voleva terminare: il sole doveva essere già lì.
Finalmente una grande luce mi abbagliò, ma non era il sole, proveniva dalla bocca del pozzo.
Cosa stesse avvenendo lo sapevano solo gli dei: io non ero superstizioso e rimasi a guardare.
C'erano ombre lunghe che danzavano, voci cavernose di una lingua mielosa si innalzavano con i bagliori della vetta.
Forse quella era la notte del ritorno dei defunti, come mi narrò mio padre: una notte ogni cento i defunti rivivono, cantano, urlano i loro dolori perpetui.
Era meglio allontanarsi per non finire preda dei loro festini sanguinari.
Nessuno si era vantato di essere passato impunemente tra questi banchetti infernali senza aver dato il proprio sangue a questi mostri.
Una grande sete mi ardeva dentro, desideravo qualcosa di rosso, di vivo.
Il sangue mi attirava e ne sentivo pure il profumo.
C'era qualcuno che transitava di lì.
Mi avvicinai come un gatto selvatico e lo assalii alle spalle: si divincolò, ma in vano.
La mia forza era diventata sorprendente.
Il disgraziato urlò: -Un mostro, un diavolo del sangue!-
Capii per la prima volta chi ero diventato: ero un demone della montagna, un cadavere succhia sangue.
Il poveretto soccombette e tutti gli altri vampiri discesero dal monte per approfittare della mia preda.
Erano scarni, scolpiti come le nervature del legno.
Gli occhi erano assatanati, le mani avevano degli artigli lunghi e sottili.
Solo quando si moriva si scopriva il tesoro dei Re Leoni e il mio destino eterno sarebbe stato quello di accovacciarmi vicino ai villaggi, in attesa di una vittima per notte.


racconto di Arduino

maledette storie .... IL MAESTRO




IL MAESTRO

Da tempo il vecchio non incontrava nessuno: restava sulla montagna in completa solitudine.
Non era stato un essere socievole: era permaloso, ombroso, schivo.
Non aveva rancori né interessi, non era né amato, né odiato.
Non avevo bisogno di nulla: avevo la capacità di sistemare, adottare, ridottare i vecchi attrezzi, gli abiti, le scarpe, gli zoccoli.
Ciò che non riaggiustava lo sostituiva con quello che riusciva a trovare in natura.
Era un selvaggio, nel senso positivo e negativo del termine: ormai i suoi stracci erano cuciti con un tessuto naturale, che solo lui conosceva.
Era un ottimo fabbro e sapeva rimodellare qualsiasi ferro vecchio.
Si nutriva di quel poco che gli dava l'orto, del latte e del formaggio di capra, dalle uova di un minuscolo pollaio e dei frutti del Bosco: radici, lamponi, more, castagne.
Era talmente magro da assomigliare a uno scheletro, ma la sua forza, nonostante tutto era ancora notevole.
Non aveva bisogno di nessuno, ma era considerato non pericoloso: benché a molti facesse paura, per l'aspetto e per i modi selvatici, non si conoscevano fatti che potessero giustificare l'innato timore dei valligiani.
Era la maledetta superstizione della gente rustica che convinceva tutti di evitarlo, specialmente nelle notti di luna piena.
Lo credevano un licantropo, o più precisamente un uomo lupo: un essere bestiale più feroce delle belve della boscaglia.
Naturalmente io non credevo a tutto ciò, ero certo che il vecchio
fosse solo un misantropo, un emarginato, forse un demente, ma non un mostro sovrannaturale, una creatura del Maligno.
Ero il maestro della scuola ed era giusto che dimostrassi ai ragazzi, ma anche agli adulti, quanto fossero inammissibili certe
paure.
Presi la decisione di andare dal vecchio e di incontrarlo per parlargli, da anni non aveva rapporti umani.
Era proprio conciato male: era sporco, puzzava di selvatico.
Era avvolto da pelli di animali, scuoiate rozzamente e stracci cuciti assieme.
Il primo contatto fu pauroso: egli mi fissò con occhi furiosi.
Temetti un'aggressione invece fece un verso simile a un grugnito e ricominciò a zappare.
Tutto sommato sapevo ben lavorare: la casupola era di solida pietra tagliata e gli attrezzi per i campi erano ottimamente fotografati.
Dopo il primo sguardo il vecchio non mi prese più in considerazione: non esistevo più per lui.
Cercai di parlargli senza provocare la sua rabbia, nota nella valle: -Signore! Mi scusi....parlo con lei!-
Non mi rispondeva e allora mi sedetti vicino a lui, mentre tesseva con un telaio di legno un ruvido telo di sacco.
Questa volta parlò: -Che cerchi?-
-Nulla, voglio sapere da lei...-
-Sì! Sono una bestia, un lupo.-
Lo disse con la naturalezza, come se ciò fosse ovvio, un fatto che tutti potevano conoscere.
La mia opera educatrice si stava scontrando con la rustica e primitiva cultura di quell'individuo, vittima di pregiudizi antichissimi.
Il fondo ero un bambino, i modi, la capacità critica, e lo trattai come tale: -Lei non deve credere a queste fandonie! Non si deve far influenzare da idee assurde, irreali. Lei è un uomo e la luna non può trasformarla in ciò che non è: un lupo! Il diavolo e altri personaggi metafisici sono solo un retaggio del passato. Oggi siamo illuminati dalla scienza che tutto spiega e tutto capisce!-
Il vecchio sogghignò: -Vuol proprio restare qua sino a sera? Io le consiglio di tornare al più presto a casa!-
Invece volevo restare con lui tutta la notte.
Avevo il mio piano: gli avrei somministrato un calmante alla sua
insaputa e lo avrei assistito nelle sue crisi nervose, o presunte tali.
La licantropia è una malattia nervosa, una forma di isterismo.
Avrei dimostrato ai valligiani quanto fossero sciocchi, ma ....purtroppo.-

-Il corpo del maestro Giuseppe Conti è stato rinvenuto nel fondo
valle.
Aveva sul collo i segni di morsi di una belva feroce, forse un lupo o un grosso cane inselvatichito.
Sono in corso battute in tutta la zona, alla ricerca dell'animale, per abbatterlo, ma le tracce si perdono nei pressi della baita del vecchio Bartolomeo.
A stenti siamo riusciti a evitare il linciaggio del vecchio, accusato dalla folla di essere un licantropo, un lupo mannaro.
Questa superstizione è ancora creduta tra i montanari.
Dopo aver ricomposto il corpo nel nostro comando di polizia è stato sepolto nel cimitero con una semplice benedizione.
Il parroco non voleva scontrarsi con i compaesani: le vittime dei
lupi mannari non possono entrare in chiesa.


racconto di Arduino Rossi



fantastico racconto ...IL SOFFIO








IL SOFFIO

La città era sotto di me: era una grande torta grigia, poco appetitosa, con i suoi fumi, i suoi odori che salivano sino alla mia torre.
Dovevo vegliare sul futuro di questa capitale a rischio di invasione: dopo quasi mille anni di dominio, di un regno vasto quanto un continente, era rimasta questa metropoli gigantesca con i suoi sobborghi.
Le province vicine e lontane pagavano i tributi poche volte e con somme sempre più irrisorie.
I barbari avanzavano e ci sottraevano vaste regioni ogni anno.
L'Imperatore era sempre sui confini, ma le truppe erano scarse e demotivate: tutte le volte che una tribù di nomadi, infiltratasi nell'Impero, era scacciata subito un'altra penetrava e si stabiliva sui territori poco vigilati.
La capitale era sempre più un'enorme testa su un corpo minuto.
I nostri nobili e il clero, pur vedendo il pericolo, non sapevano rinunciare ai privilegi: per colpa loro il nostro mondo rischiava di essere spazzato via per sempre.
Le processioni pompose si susseguivano nelle strade: si cercava l'aiuto del Cielo, ma i vizi e gli intrighi proseguivano.
Nessuno si pentiva per i propri errori e orrori: Dio ci aveva abbandonati.
Eravamo stati i figli prediletti del Padre Celeste, i portatori della fede autentica, pura e retta: diventammo i servi dell'eresia, della lussuria, della cupidigia, del delitto.
Dalla mia torre osservavo le stelle e leggevo il futuro: la mia Patria avrebbe perso la sua fede, la sua lingua, i suoi costumi.
Sarebbe divenuta una terra d'Oriente, con minareti e soprusi, violenze e distruzioni, ma alla fine da Nord sarebbero calati i conquistatori e avrebbero riportato l'Ortodossia, con il fuoco e l'acciaio.
Le urla dei muezzin si sarebbero smorzate e avrebbero squillato ancora le campane, ma moltissimo sangue si sarebbe versato per questo.
Presto sarebbe stato il momento del martirio per noi monaci.
Io sapevo già che sarei stato sgozzato come un capretto da un feroce soldato del Sultano.
Questo non mi importava.
Quella notte non lessi le stelle, ma mi godetti le luci soffuse della mia città, che tanto amavo, con i suoi campanili, con le sue cupole della reggia e delle cattedrali.
La brezza del mare scacciava gli odori e la nebbia del porto.
I velieri stranieri, sempre pronti a salpare, ci promettevano una salvezza impossibile: erano come angeli incatenati.
Ero stanco di quella vita: la torre era da troppo tempo la mia prigione.
Le mie prediche erano ascoltate mal volentieri: a corte si era fatto di tutto per farmi tacere.
Avevo proposto di vendere tutti i tesori e comprare armi, arruolare mercenari stranieri, attaccare il nemico e non attenderlo.
Invece erano convinti che le possenti mura avrebbero resistito all'assalto delle milizie islamiche.
Erano degli stolti!
I loro preziosi sarebbero finiti in mano al nemico.
Loro sarebbero stati uccisi e le loro moglie, i loro figli sarebbero stati venduti come schiavi.
Io di peccati ne avevo parecchi: per questo mi ero fatto monaco, per chiedere a Dio il perdono.
Uccisi mio padre e mia madre per diventare il nuovo Signore del mio territorio: non volevo attendere altro tempo.
Gli avvelenai e nessuno, tranne Dio e la mia coscienza, conobbe il mio terribile crimine.
Restai il despota del mio feudo per alcuni anni, poi loro, papà e mamma, mi apparvero.
Erano silenziosi, negli abiti sfarzosi del giorno del loro funerale.
Cercai di scacciare le visioni con sortilegi, con scongiuri, con benedizioni.
Compresi che non avrei avuto pace tutta la vita: distribuii i miei beni e mi chiusi in un convento.
Loro erano sempre vicino a me, immobili, con quello sguardo accusatorio che mi tormentava.
Non valsero digiuni, veglie di preghiera: il mio peccato era troppo grande.
Così decisi di conoscere il futuro.
Non c'è pena peggiore per un essere vivente: tutto termina in rovina o nella morte, è solo questione di tempo.
Divenni il profeta di sventura della mia Patria, colui che sa come evitare le sciagure, ma non può far nulla per la stoltezza dei suoi compatrioti.
Mi godevo la musica suonata da qualche musicista ambulante, il canto degli avvinazzati, l'aroma di un mondo in putrefazione.
Il peso delle mie colpe e quello degli errori dei miei simili era insopportabile, mi straziavano l'anima.
La morte per me era il più grande dono di Dio, ma non volevo perdermi in un suicidio: dovevo accettare sino in fondo la mia pena.
Scesi nelle vie e predicai la fine dell'Impero: i potenti non mi avevano ascoltato, lo avrebbero fatto i poveri, il popolo minuto.
Non potei dire molto: venni catturato dalle guardie e trascinato in prigione.
Non persero tempo in chiacchiere: mi chiusero in una cella umida, mi tennero a pane e acqua.
Lì avrei potuto testimoniare la fine dell'Impero ai topi e agli scarafaggi.
Ero molto resistente e sopravvissi a torture, a frustate, a stenti.
Finalmente la porta si spalancò: mi apparve un saraceno scuro e sporco come un lupo famelico.
Rimasi immobile attendendo la mia fine, ma quello mi rise in faccia e mi liberò.
La città bruciava e i saccheggiatori, gli assassini, i giannizzeri uccidevano, violentavano, catturavano chiunque si trovasse davanti a loro.
Non fecero caso a me, sembrava che non mi vedessero, poi mi accorsi che per loro non esistevo.
I miei genitori, da sempre vicino, sorrisero: - Sei tra noi! Sei come noi: un testimone della verità!-
Ero morto da molto tempo dentro di me.
Nella mia torre ero rimasto l'ombra di me stesso.
Nella cella, nel sonno, un turco prigioniero mi aveva tagliato la gola, togliendomi il peso del mio corpo.
Non mi accorsi di nulla sino alla conquista ottomana della città.
Ora proseguo la mia missione di spirito relegato sulla terra: soffio la verità nelle orecchie della gente, ma raramente sono ascoltato.

Racconto di Arduino Rossi

storie di paura ....I FLUTTI










I FLUTTI

Il mare è sempre stupendo, ma quando è agitato lo è ancora di più: io mi piazzavo in cima al mio scoglio e lì lasciavo che gli spruzzi delle onde mi bagnassero.
I cavalloni talvolta mi coprivano e a stento mi trattenevo su quella roccia aguzze.
Rischiavo la vita, ma non era importante: solo lì scordavo i miei dolori, le mie angosce.
Sentivo il vento stridere, i versi acuti degli uccelli lontani, dispersi nella tempesta.
La potenza della natura mi faceva sentire minuscolo, un elemento insignificante.
Forse mi sarei gettato volentieri in quel mare verde, spumeggiante, tenebroso.
Non c'era più nulla che mi potesse trattenere su questa terra, ma un residuo di sentimento religioso mi preoccupava: temevo la dannazione eterna dei suicidi.
Non avevo una grande fede, ma un residuo timore di Dio restava.
Rischiavo la vita, ma non osavo stroncarla volontariamente.
La stanchezza, la fame mi spingevano alla mia casupola: una villetta malconcia, comprata con la liquidazione del mio lavoro.
Io lasciavo che lo sporco aumentasse ogni giorno, sino a diventare uno strato fitto: allora lo spazzavo con quattro colpi di scopa in giardino.
Mangiavo sempre peggio: pane, frutta e verdure.
Tutti cibi da consumarsi rapidamente.
Ero un barbone insoddisfatto della vita: avevo trascorso la mia esistenza da operaio, da impiegatino, da commerciante e in fine da misero pensionato evitando i rapporti umani, in particolare con le donne.
La mia diffidenza era dovuta alla poca stima che avevo avuto nei
loro confronti: non comprendevo la loro vanità, il loro narcisismo.
Le vedevo impegnate alla caccia di idioti, di farabutti e incapaci damerini.
Amavano gli spavaldi, i faciloni, i presuntuosi, ma non chi si dimostrava valido.
Odiavo Dio e me stesso per il tormento che avevo dentro: per non essere riuscito nei miei intenti.
Spesi il meglio dei miei anni, delle mie energie per diventare uno scrittore.
Non avevo amato la gloria, l'onore, la fama, ma avevo creduto di
avere qualcosa da dire.
Scrisse decine di migliaia di pagine, fitte: elaborai poesie, saggistica, ma in particolare romanzi e racconti.
Mi consumai gli occhi per le pagine di narrativa dell'orrore, di fantascienza, ironici, realistici, magici.
Avevo concluso anche romanzi, ma ero più portato verso i racconti.
Dopo aver ambito al massimo: diventare soggettista.
Per mia sfortuna ottenni la stima di un pezzo grosso del mondo cinematografico: mi spronò a tentare l'impossibile.
Io gli credetti proprio quando stavo rinunciando alla mia passione: ripresi a scrivere e inviare il mio materiale.
Trascorsi la giovinezza, la vita sperando, incapace di rinunciare a quella che fu il mio unico grande vizio, il piacere di scrivere.
Continuai tra alti e bassi, tra promesse mai mantenute: alla fine i capelli divennero tutti bianchi, gli occhi erano stanchi, la mano era tremolante.
La speranza divenne sempre più fioca: perdetti anche il rispetto di me stesso, il decoro, la decenza.
Non cedetti all'evidenza, proseguivo nella mia ossessionante attività da scrittore, ma ormai ero un'abitudine senza scopo.
Non ritenevo importante ciò che descrivevo: non ne potevo più fare a meno.
La mia dipendenza svanì e non toccai più i tasti della macchina da scrivere: rimanevamo i volumi dei miei lavori, fermi, inutilizzati.
Ammettere di avere sbagliato mi costava tantissimo: ero terminato in un vicolo cieco.
I miei racconti erano ottimi, tanti critici lo avevano affermato, ma mi mancava la "spinta" giusta per arrivare: il mio orgoglio le rifiutò tutte.
Dovevo far tutto con le mie mani, senza raccomandazioni.
Restava ore e ore sullo scoglio aguzzo per dimenticare: non bevevo alcoolici, non fumavo, non mi drogavo.
Attendevo l'onda gigantesca che mi avrebbe portato con sé, trasformandomi in materia inanimata.
Sarei tornato alla madre natura, nei suoi vortici primordiali.
Non bestemmiavo più il cielo: non lo provavo più.
Il mutismo di Dio mi aveva raffreddato, facendomi perdere la fede.
Quella sera ero più depresso del solito: neppure il fragore delle onde sul bagnasciuga bastava a distrarmi.
Lei era là, bella come una Madonna, ammagliante come una strega.
Mi sorrideva con malignità e mi invitava a lei.
Sarei affogato se l'avessi raggiunta, così me ne tornai a casa.
Il giorno dopo la rividi: era sempre più seducente.
Le vesti erano sempre più trasparenti, le mosse erano audaci, lente, sempre pensate per farsi notare e far vedere.
Io da tempo non conoscevo la passione erotica, ma quella era bella, troppo bella.
Si avvicinava sempre più, ogni giorno che passava perdeva una
parte del suo abito: rimase nuda davanti a me, con i capelli lunghi e corvini sciolti, agitati.
Aveva un fascino carnale, prorompente, due occhi verdi e un sorriso sarcastico.
La sua voce era sottile, femminile, sussurrata con un soffio della bocca carnosa.
Le detti la mano e cadetti tra i flutti furiosi: quella era la mia gloria, il nulla, la morte.

-Il cadavere dello scrittore Angelo Ruben è stato rinvenuto sulla spiaggia assolata di un popolare stabilimento balneare.
Si teme che si sia suicidato.
Il destino volle che proprio in questi giorni fosse diffuso il suo libro edito, dopo il grande successo del film tratto dallo stesso romanzo.
Tutto questo il povero Ruben non lo poté assaporare: da tempo lo si cercava. Nessuno conosceva il suo ultimo recapito, la fama e la gloria gli furono sempre estranea.-

Racconto di Arduino Rossi

Fantasmi - IL VENTO








IL VENTO

Gli alberi erano scossi da quel soffio potente che in autunno calava dalle selve.
Le foglie erano spazzate e gli alberi denudati dal rosso, dall'ocra, dai colori tristi.
Si sapeva che dalle vetta innevata soffiava la tramontana, dove riposavano i morti, secondo i sacerdoti della nostra religione arcaica.
Loro non avevano più fame, né freddo e rimanevano a contemplare il cielo cristallino, le stelle e la notte gelida, illuminata dalla luna che si rifletteva sulle nevi perenni.
Noi portavamo i nostri defunti nelle grotte ai piedi del monte, lì aprivamo i sepolcri e calavamo i corpi dei nostri cari nelle voragini.
Sotto scorreva l'acqua perpetua e tutto era travolto, solo lo spirito saliva ai monti puri.
Nessuno aveva osato infrangere il mistero dei monti dei defunti:
nessuno aveva avuto il coraggio di rischiare la maledizione degli dei.
Io invece ero troppo curioso e incredulo: i morti erano per me partiti lontano e non c'era luogo dove potessero essere contenuti.
Così partii in quell'autunno gelido e andai contro il vento delle cime fino a oltrepassare le selve, salii lungo gli immensi prati fioriti, rossi, gialli, oltre gli arbusti spinosi e profumati.
Raggiunsi le rocce sterili, avvolte dal muschio e dalle macchie vegetali, simili a disegni di bambini.
Infine calpestai la neve ghiacciata che precede le cime.
Non vidi nessuno: gli spiriti non c'erano, nessun dio aveva fermato i demoni guardiani, che avevano per tanto tempo popolato i miei incubi non c'erano.
C'era solo il vento, forte e gelido, l'aria limpida e un immenso paesaggio dove si individuavano le capanne dei villaggi, i templi
di pietra sulle alture e sui passi, alti e sostenuti da molte colonne.
Oltre la nostra valle c'erano i nemici che ci minacciavano con le loro incursioni: bruciavano, uccidevano, rapivano fanciulli per renderli schiavi.
Io avevo proposto di attaccarli attraversando i monti innevati, ma i vecchi temevano l'ira delle divinità per un simile sacrilegio.
Sarei tornato e avrei infranto le pietre sacre, avrei raccolto i giovani e assieme saremmo calati sui nemici, annientandoli.
Avevo fame, avevo gli arti congelati, la febbre mi stava bruciando dentro, ma ero troppo felice: avevo sconfitto il tabù del vento e sarei diventato il nuovo capo.
Avrei fatto scacciare i sacerdoti, potente casta che defraudava la mia gente, avrei innalzato una nuova divinità, quella della bora soffiante, perché gli spiriti sicuramente erano sospinti dall'aria in tutto il mondo.
Non c'era luogo che potesse contenere le anime dei morti: loro aleggiavano sopra le nostre teste.
Io li sognavo e spesso mi avevano detto dove incontrarmi con loro: la selva era il luogo preferito da loro, proprio vicino alle grotte della sepoltura.
Scesi tra la mia gente, ma non fui creduto: i sacerdoti mi scacciarono fino alla selva e lì dovetti restare.
Così vissi di caccia, con le bacche selvatiche le radici a poco alla volta mi abituai al vento, alle processioni funebri che assistevo nascosto tra gli alberi.
I defunti ben presto si abituarono alla mia presenza da vivo e con loro rimanevo a chiacchierare nelle notti di luna piena.
Si parlava delle tribù, del mio isolamento, da sacrilego maledetto, del soffio che portava con sé le nubi o conduceva la tempesta oltre l'orizzonte.
Restando con loro potei vedere il passato e il futuro chiaramente: la mia tribù sarebbe stata sconfitta e tutti sarebbero divenuti servi.
Il nome della mia stirpe sarebbe svanito nel tempo e le nostre donne avrebbero partorito solo schiavi o i figli dei loro padroni.
Anche i nostri conquistatori sarebbero stati sconfitti, avrebbero subito la stessa sorte.
I vincitori sarebbero diventati schiavi e altre etnie avrebbero imposto il loro linguaggio, i loro idoli, per poi tutti cadere nella polvere.
Solo il vento avrebbe soffiato e avrebbe sparso il dolore dei defunti, i loro ricordi, i loro rimpianti, ma nessuno li avrebbe ascoltati, sino a quando anche la brezza si sarebbe stancata: tutto si sarebbe arrestato e un immenso silenzio sarebbe regnato.
Solo i pensieri dei defunti avrebbe continuato a esistere nelle spazio immenso, oltre il tempo, per un'eternità dolorosa quanto inutile.
Io possedevo la sapienza, o credevo di conoscere ogni cosa, e volli illuminare con la verità i miei stolti fratelli di sangue.
Mi presentai alla tribù e mi confusero con un fantasma: provocai
il terrore, ma quando si accorsero che ero in carne e ossa, non mi risparmiarono.
Ero il sacrilego, colui che aveva violato la terra degli spettri.
Ero un maledetto dannato: non riuscii a parlare, mi colpirono con asce, con bastoni, con pietre e mi mandarono nel vento con la mia verità, con la mia cura per i loro dolori perpetui, ma ormai era tutto vano, la tempesta con le sue voci sussurrati non è mai compresa.

racconto di Arduino Rossi 

racconto ... IL CASO DEL DOTTOR SANTI












IL CASO DEL DOTTOR SANTI

Forse non lo sapete, ma io non avevo mai creduto a certe faccende. Sì! Alle stupidaggini che le vecchine si raccontano alla sera, a bassa voce, alle paure dei bambini e degli analfabeti. La lotta tra il bene e il male per me non era tra diavoli e angeli, tra Santi e dannati.
Non esisteva per me un mondo sovrannaturale, né le presenze, le visioni di esseri diabolici o celestiali. Tutto ciò era pazzesco, contro la scienza moderna e le sue leggi. La lotta contro le superstizioni per me era una questione di vita o di morte, anzi era lo scopo stesso della mia esistenza. La morte e il dolore non avevano senso: dovevano essere debellate, o almeno allontanate e contenute il più possibile.
Ero il farmacista del paese e il mio tempo libero, chiuso il negozio, lo trascorrevo per perfezionare le mie conoscenze, per proseguire la mia ricerca scientifica sulle principali malattie. I miei studi erano pubblicati sulle maggiori riviste del Paese e su alcune internazionali: non avevo guadagni economici, ma solo soddisfazioni e stima tra i miei colleghi.
Invece i miei compaesani non sapevano e non volevano sapere nulla di ciò: per loro restavo sempre il pazzo, l'esaltato, il farmacista che si chiudeva in bottega tra alambicchi, odori di acidi, tra i fumi delle reazioni chimiche. Lottavo contro i loro pregiudizi e per questo avevo fatto stampare a mie spese un libretto divulgativo, con i rudimenti basilari delle conoscenze scientifiche: lo distribuii tra gli studenti delle elementari, che ne fecero scempio, tra i pochi alfabetizzati, che si divertirono alle mie spalle. I vecchi preconcetti erano duri a morire in quella razza coriacea, un po' tarata da troppi matrimoni tra consanguinei, dal vizio del vino, dagli stenti, dai lavori duri per lo stretto necessario per campare.
Loro credevano agli spiriti: sostenevano di vederli, di sognarli, di parlare con i loro morti, che tornavano per avvisarli, per aiutarli, per punirli. Io continuavo la mia "Santa battaglia" contro
l'ignoranza, la miseria umana, la stoltezza: ero certo che l'umanità era destinata a un futuro glorioso, senza più malattie, guerre, orrori, ma solo pace e splendidi giorni luminosi, tra scienza e conoscenza. La morte, quella maledetta, era la principale nemica: sapevo bene che non si poteva sconfiggere, ma certamente ritardare molto, privandola di quelle tremende conseguenze dolorose che erano la vecchiaia e l'infermità.
Carlo entrò ansimante, pallido, nel mio negozio e si sedette sulla panca accanto alla porta, quella delle vecchiette, che si fermavano a ciarlare. Io ero convinto che avesse avuto uno scontro verbale con qualcuno più forte di lui:-Hai trovato chi non ha paura e ti affronta finalmente!-
Mi guardò senza parlare, con gli occhi di chi ha molto da dire e non riesce a esprimersi,né a comprendere. Carlo era il bullo del villaggio: era un giovanotto alto e muscoloso, sempre pronto a far il prepotente e a menar le mani.
Dopo diversi minuti di silenzio disse con un filo di voce quasi femminile: -L'Ho visto!-
-Chi? Cosa hai visto?-
Quello stupidone tutto muscoli era finito vittima di qualche pesante scherzo dei suoi numerosi nemici. Riprese i suoi modi maschi e brutali, pur restando profondamente turbato: -Sì! Era lui, Francesco!-
Avevo capito. Quello scemone, che non temeva i vivi, neppure i gendarmi, si era imbattuto nel frutto della sua fantasia, o qualcuno gli aveva fatto vedere le sembianze del suo nemico morto.
Cercai di calmarlo: -Dimmi tutto! Era proprio lui?-
-Dottore, non sono demente! Quello era Francesco. Era vicino al
cimitero. Mi attendeva, sorridendo come spesso faceva lui.-
-Di cosa hai paura? Non eravate amici!-
Scosse il testone con i suoi capelli crespi, sporchi, arruffati come lana grezza: -Lo sa! Lei è intelligente, quello è finito così pure...... per colpa mia!-
Tacque, accorgendosi di aver detto troppo: Francesco era stato trovato morto con la testa rotta da un oggetto contundente.
I sospetti erano caduti su Carlo, ma non furono scovate prove. Solo quel bruto, in tutto il villaggio, aveva la forza fisica di conciare in quel modo la gente.
I suoi amici-nemici erano tutti coloro che se ne approfittavano del suo carattere da bonaccione: era sempre pronto a offrire da bere e a farsi deridere, ma era anche ombroso e vendicativo.
Aveva rotto un po' di ossa e un po' di facce quando era ubriaco. Il delitto lo avevano previsto in tanti, finché era capitato realmente. Non fu possibile far rinchiudere il bestione in prigione senza prove certe.
Carlo aveva capito che non gli conveniva continuare a narrare la sua macabra avventura, fui io a insistere: -Che voleva da te?-
-I morti tornano sempre per un motivo, ma io non cederò. Mi vuole con Lui, maledetto spettro! Io mi difenderò. Se mi infastidirà ancora lo picchierò di nuovo.-
Quel bestione era proprio un idiota: solo lui poteva desiderare di percuotere il frutto della sua fantasia malata, provocata dal rimorso. Non avrei mai creduto che un essere così primitivo, animalesco, potesse provare un sentimento così complesso come il rimorso, tipico degli esseri più evoluti.
Dedussi che sicuramente la paura del sovrannaturale aveva causato quella condizione di apparente rimorso: Carlo temeva solo il buio, le ombre, i fruscii nella notte, che lo inquietavano come un selvaggio. Era impastato di stupidità, pregiudizi, volgarità, brutalità: era l'esempio più basso di popolano, di animale adatto solo al lavoro manuale.
Decisi di accompagnarlo sino al cimitero e di dimostrargli che non c'era nulla, se non nella sua mente bacata. Lui fu indeciso,
recalcitrante, poi dovette assecondare la mia determinazione: ne andava del suo onore di uomo senza titubanze.
Mi tolsi il camice, misi il cappello, il mantello. Mi misi accanto a lui: ero proprio la sua metà sia per l'altezza sia per la larghezza. Mi sentivo ridicolo accanto a quello scimmione: camminavo con passo leggero, forse quasi da donna, come qualcuno insinuava, mentre Carlo pesava tutta la sua stazza sul selciato, facendo sentire il tonfo dei suoi passi. Sicuramente i paesani, sempre attenti a tutto, si stavano accorgendo di ciò che stava avvenendo, di quella nostra insolita passeggiata serale verso il camposanto.
Avrei dimostrato quanto fossero sciocche i loro timori dell'Oltretomba: la scienza avrebbe avuto il suo grande trionfo. Eravamo ormai fuori dal villaggio, il buio di quella notte era denso.
Un lieve brivido si sciolse lunga la schiena, probabilmente un residuo di atavici terrori. Carlo barcollava, pareva ubriaco, ma quella volta non lo era: era solo terrorizzato. Mi confidò: -Ho ucciso io Francesco! Sono pronto ad andare in carcere, ma mi risparmi la visione del suo spettro.-
Quella sua confessione, sicuramente sincera, non avrebbe avuto valore davanti a un giudice: come avrei potuto spiegare la nostra spedizione a caccia di fantasmi. I gendarmi mi avrebbero giudicato folle come l'idiota che mi stava accanto.
Comunque avevo tra le mani, per modo di dire, un criminale pericolosissimo e stavo portando a termine una grande vittoria sull'oscurantismo: avevo un bruto da studiare, per cercare di capire cosa di primordiale c'è in ognuno di noi. Sarebbe stato il mio trionfo: non mi avrebbero considerato un povero pazzo, uno studioso maniaco degli alambicchi privo di passioni umane. Sarei stato il modello per i giovani, nei quali speravo con fermezza e contro ogni buon senso, contro ogni delusione. Invece nel buio lo vidi. Maledizione! Quello era Francesco, o qualcosa che gli assomigliava in modo inaspettato.
Carlo si stava "squagliando", mi parve che stesse cadendo svenuto: ebbi la prontezza di schiaffeggiarlo. Dovevamo capire cosa ci fosse dietro a quella presenza e avevo bisogno di lui, di quel bietolone: doveva testimoniare la verità.
Lanciai un sasso contro lo spettro, che non si mosse, eppure ero certo di averlo colpito. Mi avvicinai e me lo trovai di fronte: era proprio Francesco, aveva pure quel suo sorriso ironico, che lo aveva caratterizzato da vivo.
La mia mente stava lottando contro l'evidenza, non riusciva a darsi una ragione.
Gli parlai, ma quello non si mosse, cercai di toccarlo, ma ebbi solo la sensazione di freddo sulle mani. Urlai, chiesi spiegazione a colui che non doveva neppure esistere. Carlo si era dato alla fuga e mi aveva lasciato solo con il frutto del suo crimine, mentre io persi il controllo della mia mente.

-Il Dottor in Farmacia Aldo Santi è stato ricoverato nel manicomio provinciale in evidente stato confusionale: sostiene di vedere spiriti e altri esseri infernali, che gli fanno compagnia. La sua fragile mente è stata disturbata, dopo anni trascorsi in laboratorio al buio senza vedere nessuno, dal suicidio di un suo cliente, Carlo detto il Bove. Nel tentativo di fermare l'insano gesto, Santi si ferì in un'inutile colluttazione. L'amarezza di non essere riuscito a evitare la tragedia lo fece cadere in uno stato confusionale.
Ora farnetica continuamente, sostenendo che Franco, un suo paesano assassinato e Carlo, il suicida, gli sono sempre accanto e lo accusano di non aver fatto abbastanza per loro. Santi ha bisogno di una sorveglianza continua, si sono notati atteggiamenti autolesionisti: c'è il rischio che si possa togliere la vita.-

Racconto di Arduino Rossi