10 set 2012

racconto ... IL CASO DEL DOTTOR SANTI












IL CASO DEL DOTTOR SANTI

Forse non lo sapete, ma io non avevo mai creduto a certe faccende. Sì! Alle stupidaggini che le vecchine si raccontano alla sera, a bassa voce, alle paure dei bambini e degli analfabeti. La lotta tra il bene e il male per me non era tra diavoli e angeli, tra Santi e dannati.
Non esisteva per me un mondo sovrannaturale, né le presenze, le visioni di esseri diabolici o celestiali. Tutto ciò era pazzesco, contro la scienza moderna e le sue leggi. La lotta contro le superstizioni per me era una questione di vita o di morte, anzi era lo scopo stesso della mia esistenza. La morte e il dolore non avevano senso: dovevano essere debellate, o almeno allontanate e contenute il più possibile.
Ero il farmacista del paese e il mio tempo libero, chiuso il negozio, lo trascorrevo per perfezionare le mie conoscenze, per proseguire la mia ricerca scientifica sulle principali malattie. I miei studi erano pubblicati sulle maggiori riviste del Paese e su alcune internazionali: non avevo guadagni economici, ma solo soddisfazioni e stima tra i miei colleghi.
Invece i miei compaesani non sapevano e non volevano sapere nulla di ciò: per loro restavo sempre il pazzo, l'esaltato, il farmacista che si chiudeva in bottega tra alambicchi, odori di acidi, tra i fumi delle reazioni chimiche. Lottavo contro i loro pregiudizi e per questo avevo fatto stampare a mie spese un libretto divulgativo, con i rudimenti basilari delle conoscenze scientifiche: lo distribuii tra gli studenti delle elementari, che ne fecero scempio, tra i pochi alfabetizzati, che si divertirono alle mie spalle. I vecchi preconcetti erano duri a morire in quella razza coriacea, un po' tarata da troppi matrimoni tra consanguinei, dal vizio del vino, dagli stenti, dai lavori duri per lo stretto necessario per campare.
Loro credevano agli spiriti: sostenevano di vederli, di sognarli, di parlare con i loro morti, che tornavano per avvisarli, per aiutarli, per punirli. Io continuavo la mia "Santa battaglia" contro
l'ignoranza, la miseria umana, la stoltezza: ero certo che l'umanità era destinata a un futuro glorioso, senza più malattie, guerre, orrori, ma solo pace e splendidi giorni luminosi, tra scienza e conoscenza. La morte, quella maledetta, era la principale nemica: sapevo bene che non si poteva sconfiggere, ma certamente ritardare molto, privandola di quelle tremende conseguenze dolorose che erano la vecchiaia e l'infermità.
Carlo entrò ansimante, pallido, nel mio negozio e si sedette sulla panca accanto alla porta, quella delle vecchiette, che si fermavano a ciarlare. Io ero convinto che avesse avuto uno scontro verbale con qualcuno più forte di lui:-Hai trovato chi non ha paura e ti affronta finalmente!-
Mi guardò senza parlare, con gli occhi di chi ha molto da dire e non riesce a esprimersi,né a comprendere. Carlo era il bullo del villaggio: era un giovanotto alto e muscoloso, sempre pronto a far il prepotente e a menar le mani.
Dopo diversi minuti di silenzio disse con un filo di voce quasi femminile: -L'Ho visto!-
-Chi? Cosa hai visto?-
Quello stupidone tutto muscoli era finito vittima di qualche pesante scherzo dei suoi numerosi nemici. Riprese i suoi modi maschi e brutali, pur restando profondamente turbato: -Sì! Era lui, Francesco!-
Avevo capito. Quello scemone, che non temeva i vivi, neppure i gendarmi, si era imbattuto nel frutto della sua fantasia, o qualcuno gli aveva fatto vedere le sembianze del suo nemico morto.
Cercai di calmarlo: -Dimmi tutto! Era proprio lui?-
-Dottore, non sono demente! Quello era Francesco. Era vicino al
cimitero. Mi attendeva, sorridendo come spesso faceva lui.-
-Di cosa hai paura? Non eravate amici!-
Scosse il testone con i suoi capelli crespi, sporchi, arruffati come lana grezza: -Lo sa! Lei è intelligente, quello è finito così pure...... per colpa mia!-
Tacque, accorgendosi di aver detto troppo: Francesco era stato trovato morto con la testa rotta da un oggetto contundente.
I sospetti erano caduti su Carlo, ma non furono scovate prove. Solo quel bruto, in tutto il villaggio, aveva la forza fisica di conciare in quel modo la gente.
I suoi amici-nemici erano tutti coloro che se ne approfittavano del suo carattere da bonaccione: era sempre pronto a offrire da bere e a farsi deridere, ma era anche ombroso e vendicativo.
Aveva rotto un po' di ossa e un po' di facce quando era ubriaco. Il delitto lo avevano previsto in tanti, finché era capitato realmente. Non fu possibile far rinchiudere il bestione in prigione senza prove certe.
Carlo aveva capito che non gli conveniva continuare a narrare la sua macabra avventura, fui io a insistere: -Che voleva da te?-
-I morti tornano sempre per un motivo, ma io non cederò. Mi vuole con Lui, maledetto spettro! Io mi difenderò. Se mi infastidirà ancora lo picchierò di nuovo.-
Quel bestione era proprio un idiota: solo lui poteva desiderare di percuotere il frutto della sua fantasia malata, provocata dal rimorso. Non avrei mai creduto che un essere così primitivo, animalesco, potesse provare un sentimento così complesso come il rimorso, tipico degli esseri più evoluti.
Dedussi che sicuramente la paura del sovrannaturale aveva causato quella condizione di apparente rimorso: Carlo temeva solo il buio, le ombre, i fruscii nella notte, che lo inquietavano come un selvaggio. Era impastato di stupidità, pregiudizi, volgarità, brutalità: era l'esempio più basso di popolano, di animale adatto solo al lavoro manuale.
Decisi di accompagnarlo sino al cimitero e di dimostrargli che non c'era nulla, se non nella sua mente bacata. Lui fu indeciso,
recalcitrante, poi dovette assecondare la mia determinazione: ne andava del suo onore di uomo senza titubanze.
Mi tolsi il camice, misi il cappello, il mantello. Mi misi accanto a lui: ero proprio la sua metà sia per l'altezza sia per la larghezza. Mi sentivo ridicolo accanto a quello scimmione: camminavo con passo leggero, forse quasi da donna, come qualcuno insinuava, mentre Carlo pesava tutta la sua stazza sul selciato, facendo sentire il tonfo dei suoi passi. Sicuramente i paesani, sempre attenti a tutto, si stavano accorgendo di ciò che stava avvenendo, di quella nostra insolita passeggiata serale verso il camposanto.
Avrei dimostrato quanto fossero sciocche i loro timori dell'Oltretomba: la scienza avrebbe avuto il suo grande trionfo. Eravamo ormai fuori dal villaggio, il buio di quella notte era denso.
Un lieve brivido si sciolse lunga la schiena, probabilmente un residuo di atavici terrori. Carlo barcollava, pareva ubriaco, ma quella volta non lo era: era solo terrorizzato. Mi confidò: -Ho ucciso io Francesco! Sono pronto ad andare in carcere, ma mi risparmi la visione del suo spettro.-
Quella sua confessione, sicuramente sincera, non avrebbe avuto valore davanti a un giudice: come avrei potuto spiegare la nostra spedizione a caccia di fantasmi. I gendarmi mi avrebbero giudicato folle come l'idiota che mi stava accanto.
Comunque avevo tra le mani, per modo di dire, un criminale pericolosissimo e stavo portando a termine una grande vittoria sull'oscurantismo: avevo un bruto da studiare, per cercare di capire cosa di primordiale c'è in ognuno di noi. Sarebbe stato il mio trionfo: non mi avrebbero considerato un povero pazzo, uno studioso maniaco degli alambicchi privo di passioni umane. Sarei stato il modello per i giovani, nei quali speravo con fermezza e contro ogni buon senso, contro ogni delusione. Invece nel buio lo vidi. Maledizione! Quello era Francesco, o qualcosa che gli assomigliava in modo inaspettato.
Carlo si stava "squagliando", mi parve che stesse cadendo svenuto: ebbi la prontezza di schiaffeggiarlo. Dovevamo capire cosa ci fosse dietro a quella presenza e avevo bisogno di lui, di quel bietolone: doveva testimoniare la verità.
Lanciai un sasso contro lo spettro, che non si mosse, eppure ero certo di averlo colpito. Mi avvicinai e me lo trovai di fronte: era proprio Francesco, aveva pure quel suo sorriso ironico, che lo aveva caratterizzato da vivo.
La mia mente stava lottando contro l'evidenza, non riusciva a darsi una ragione.
Gli parlai, ma quello non si mosse, cercai di toccarlo, ma ebbi solo la sensazione di freddo sulle mani. Urlai, chiesi spiegazione a colui che non doveva neppure esistere. Carlo si era dato alla fuga e mi aveva lasciato solo con il frutto del suo crimine, mentre io persi il controllo della mia mente.

-Il Dottor in Farmacia Aldo Santi è stato ricoverato nel manicomio provinciale in evidente stato confusionale: sostiene di vedere spiriti e altri esseri infernali, che gli fanno compagnia. La sua fragile mente è stata disturbata, dopo anni trascorsi in laboratorio al buio senza vedere nessuno, dal suicidio di un suo cliente, Carlo detto il Bove. Nel tentativo di fermare l'insano gesto, Santi si ferì in un'inutile colluttazione. L'amarezza di non essere riuscito a evitare la tragedia lo fece cadere in uno stato confusionale.
Ora farnetica continuamente, sostenendo che Franco, un suo paesano assassinato e Carlo, il suicida, gli sono sempre accanto e lo accusano di non aver fatto abbastanza per loro. Santi ha bisogno di una sorveglianza continua, si sono notati atteggiamenti autolesionisti: c'è il rischio che si possa togliere la vita.-

Racconto di Arduino Rossi