IL CASO DEL DOTTOR
SANTI
Forse non lo sapete,
ma io non avevo mai creduto a certe faccende. Sì! Alle stupidaggini
che le vecchine si raccontano alla sera, a bassa voce, alle paure dei
bambini e degli analfabeti. La lotta tra il bene e il male per me non
era tra diavoli e angeli, tra Santi e dannati.
Non esisteva per me un
mondo sovrannaturale, né le presenze, le visioni di esseri diabolici
o celestiali. Tutto ciò era pazzesco, contro la scienza moderna e le
sue leggi. La lotta contro le superstizioni per me era una questione
di vita o di morte, anzi era lo scopo stesso della mia esistenza. La
morte e il dolore non avevano senso: dovevano essere debellate, o
almeno allontanate e contenute il più possibile.
Ero il farmacista del
paese e il mio tempo libero, chiuso il negozio, lo trascorrevo per
perfezionare le mie conoscenze, per proseguire la mia ricerca
scientifica sulle principali malattie. I miei studi erano pubblicati
sulle maggiori riviste del Paese e su alcune internazionali: non
avevo guadagni economici, ma solo soddisfazioni e stima tra i miei
colleghi.
Invece i miei
compaesani non sapevano e non volevano sapere nulla di ciò: per loro
restavo sempre il pazzo, l'esaltato, il farmacista che si chiudeva in
bottega tra alambicchi, odori di acidi, tra i fumi delle reazioni
chimiche. Lottavo contro i loro pregiudizi e per questo avevo fatto
stampare a mie spese un libretto divulgativo, con i rudimenti
basilari delle conoscenze scientifiche: lo distribuii tra gli
studenti delle elementari, che ne fecero scempio, tra i pochi
alfabetizzati, che si divertirono alle mie spalle. I vecchi
preconcetti erano duri a morire in quella razza coriacea, un po'
tarata da troppi matrimoni tra consanguinei, dal vizio del vino,
dagli stenti, dai lavori duri per lo stretto necessario per campare.
Loro credevano agli
spiriti: sostenevano di vederli, di sognarli, di parlare con i loro
morti, che tornavano per avvisarli, per aiutarli, per punirli. Io
continuavo la mia "Santa battaglia" contro
l'ignoranza, la
miseria umana, la stoltezza: ero certo che l'umanità era destinata a
un futuro glorioso, senza più malattie, guerre, orrori, ma solo pace
e splendidi giorni luminosi, tra scienza e conoscenza. La morte,
quella maledetta, era la principale nemica: sapevo bene che non si
poteva sconfiggere, ma certamente ritardare molto, privandola di
quelle tremende conseguenze dolorose che erano la vecchiaia e
l'infermità.
Carlo entrò
ansimante, pallido, nel mio negozio e si sedette sulla panca accanto
alla porta, quella delle vecchiette, che si fermavano a ciarlare. Io
ero convinto che avesse avuto uno scontro verbale con qualcuno più
forte di lui:-Hai trovato chi non ha paura e ti affronta finalmente!-
Mi guardò senza
parlare, con gli occhi di chi ha molto da dire e non riesce a
esprimersi,né a comprendere. Carlo era il bullo del villaggio: era
un giovanotto alto e muscoloso, sempre pronto a far il prepotente e a
menar le mani.
Dopo diversi minuti di
silenzio disse con un filo di voce quasi femminile: -L'Ho visto!-
-Chi? Cosa hai visto?-
Quello stupidone tutto
muscoli era finito vittima di qualche pesante scherzo dei suoi
numerosi nemici. Riprese i suoi modi maschi e brutali, pur restando
profondamente turbato: -Sì! Era lui, Francesco!-
Avevo capito. Quello
scemone, che non temeva i vivi, neppure i gendarmi, si era imbattuto
nel frutto della sua fantasia, o qualcuno gli aveva fatto vedere le
sembianze del suo nemico morto.
Cercai di calmarlo:
-Dimmi tutto! Era proprio lui?-
-Dottore, non sono
demente! Quello era Francesco. Era vicino al
cimitero. Mi
attendeva, sorridendo come spesso faceva lui.-
-Di cosa hai paura?
Non eravate amici!-
Scosse il testone con
i suoi capelli crespi, sporchi, arruffati come lana grezza: -Lo sa!
Lei è intelligente, quello è finito così pure...... per colpa
mia!-
Tacque, accorgendosi
di aver detto troppo: Francesco era stato trovato morto con la testa
rotta da un oggetto contundente.
I sospetti erano
caduti su Carlo, ma non furono scovate prove. Solo quel bruto, in
tutto il villaggio, aveva la forza fisica di conciare in quel modo la
gente.
I suoi amici-nemici
erano tutti coloro che se ne approfittavano del suo carattere da
bonaccione: era sempre pronto a offrire da bere e a farsi deridere,
ma era anche ombroso e vendicativo.
Aveva rotto un po' di
ossa e un po' di facce quando era ubriaco. Il delitto lo avevano
previsto in tanti, finché era capitato realmente. Non fu possibile
far rinchiudere il bestione in prigione senza prove certe.
Carlo aveva capito che
non gli conveniva continuare a narrare la sua macabra avventura, fui
io a insistere: -Che voleva da te?-
-I morti tornano
sempre per un motivo, ma io non cederò. Mi vuole con Lui, maledetto
spettro! Io mi difenderò. Se mi infastidirà ancora lo picchierò di
nuovo.-
Quel bestione era
proprio un idiota: solo lui poteva desiderare di percuotere il frutto
della sua fantasia malata, provocata dal rimorso. Non avrei mai
creduto che un essere così primitivo, animalesco, potesse provare un
sentimento così complesso come il rimorso, tipico degli esseri più
evoluti.
Dedussi che
sicuramente la paura del sovrannaturale aveva causato quella
condizione di apparente rimorso: Carlo temeva solo il buio, le ombre,
i fruscii nella notte, che lo inquietavano come un selvaggio. Era
impastato di stupidità, pregiudizi, volgarità, brutalità: era
l'esempio più basso di popolano, di animale adatto solo al lavoro
manuale.
Decisi di
accompagnarlo sino al cimitero e di dimostrargli che non c'era nulla,
se non nella sua mente bacata. Lui fu indeciso,
recalcitrante, poi
dovette assecondare la mia determinazione: ne andava del suo onore di
uomo senza titubanze.
Mi tolsi il camice,
misi il cappello, il mantello. Mi misi accanto a lui: ero proprio la
sua metà sia per l'altezza sia per la larghezza. Mi sentivo ridicolo
accanto a quello scimmione: camminavo con passo leggero, forse quasi
da donna, come qualcuno insinuava, mentre Carlo pesava tutta la sua
stazza sul selciato, facendo sentire il tonfo dei suoi passi.
Sicuramente i paesani, sempre attenti a tutto, si stavano accorgendo
di ciò che stava avvenendo, di quella nostra insolita passeggiata
serale verso il camposanto.
Avrei dimostrato
quanto fossero sciocche i loro timori dell'Oltretomba: la scienza
avrebbe avuto il suo grande trionfo. Eravamo ormai fuori dal
villaggio, il buio di quella notte era denso.
Un lieve brivido si
sciolse lunga la schiena, probabilmente un residuo di atavici
terrori. Carlo barcollava, pareva ubriaco, ma quella volta non lo
era: era solo terrorizzato. Mi confidò: -Ho ucciso io Francesco!
Sono pronto ad andare in carcere, ma mi risparmi la visione del suo
spettro.-
Quella sua
confessione, sicuramente sincera, non avrebbe avuto valore davanti a
un giudice: come avrei potuto spiegare la nostra spedizione a caccia
di fantasmi. I gendarmi mi avrebbero giudicato folle come l'idiota
che mi stava accanto.
Comunque avevo tra le
mani, per modo di dire, un criminale pericolosissimo e stavo portando
a termine una grande vittoria sull'oscurantismo: avevo un bruto da
studiare, per cercare di capire cosa di primordiale c'è in ognuno di
noi. Sarebbe stato il mio trionfo: non mi avrebbero considerato un
povero pazzo, uno studioso maniaco degli alambicchi privo di passioni
umane. Sarei stato il modello per i giovani, nei quali speravo con
fermezza e contro ogni buon senso, contro ogni delusione. Invece nel
buio lo vidi. Maledizione! Quello era Francesco, o qualcosa che gli
assomigliava in modo inaspettato.
Carlo si stava
"squagliando", mi parve che stesse cadendo svenuto: ebbi la
prontezza di schiaffeggiarlo. Dovevamo capire cosa ci fosse dietro a
quella presenza e avevo bisogno di lui, di quel bietolone: doveva
testimoniare la verità.
Lanciai un sasso
contro lo spettro, che non si mosse, eppure ero certo di averlo
colpito. Mi avvicinai e me lo trovai di fronte: era proprio
Francesco, aveva pure quel suo sorriso ironico, che lo aveva
caratterizzato da vivo.
La mia mente stava
lottando contro l'evidenza, non riusciva a darsi una ragione.
Gli parlai, ma quello
non si mosse, cercai di toccarlo, ma ebbi solo la sensazione di
freddo sulle mani. Urlai, chiesi spiegazione a colui che non doveva
neppure esistere. Carlo si era dato alla fuga e mi aveva lasciato
solo con il frutto del suo crimine, mentre io persi il controllo
della mia mente.
-Il Dottor in Farmacia
Aldo Santi è stato ricoverato nel manicomio provinciale in evidente
stato confusionale: sostiene di vedere spiriti e altri esseri
infernali, che gli fanno compagnia. La sua fragile mente è stata
disturbata, dopo anni trascorsi in laboratorio al buio senza vedere
nessuno, dal suicidio di un suo cliente, Carlo detto il Bove. Nel
tentativo di fermare l'insano gesto, Santi si ferì in un'inutile
colluttazione. L'amarezza di non essere riuscito a evitare la
tragedia lo fece cadere in uno stato confusionale.
Ora farnetica
continuamente, sostenendo che Franco, un suo paesano assassinato e
Carlo, il suicida, gli sono sempre accanto e lo accusano di non aver
fatto abbastanza per loro. Santi ha bisogno di una sorveglianza
continua, si sono notati atteggiamenti autolesionisti: c'è il
rischio che si possa togliere la vita.-
Racconto di Arduino Rossi