10 set 2012

fantasy racconto ... IL TESORO DEI RE








IL TESORO DEI RE

C'erano rocce aguzze e un profumo di erba selvatica.
Il vento tagliava il cielo con nubi veloci, l'aria pesava su di me e il mio cuore era stanco: avevo gettato anni in cerca di oro, pietre preziose.
Avevo scavato centinaia di tombe, avevo dissacrato antichi templi.
Nei sogni vedevo gli spiriti dei morti che mi maledicevano: avevo disturbato i loro sonni.
A nulla valsero anni di ricerca: il tesoro dei Sovrani del Regno dei Leoni era introvabile.
Per secoli generazioni si erano susseguite negli stenti, di fame per rintracciare la caverna delle sepolture regali: mai nessuno era riuscito a scavarle.
Ormai quello dello "sciacallo" era l'unico lavoro che sapeva fare: mi guadagnavo da vivere con il poco rame e il bronzo che svendeva, assieme al poco vasellame intatto, ai mercanti dei borghi al limite del deserto.
Non avevo avuto una donna, neppure una serva, come usavano i pastori di questi monti: non avevo figli, ma solo bastardi che crescevano nelle strade, rubando per non morire di fame.
Quella fossa era più profonda delle altre e non aveva un sarcofago al suo interno, neppure frantumato da noi tombaroli.
Era strano e pensai che ci fosse un doppio fondo, ma la roccia pareva piena.
Continua a battere, ma la mia picca lanciava solo rumori striduli e scintille.
La lampada a olio lasciava la solita penombra sottile, ma io non avevo bisogno di luce perché stavo diventando cieco.
Era impossibile, mai mi era capitato di trovare una tomba vuota.
Il mio intuito mi suggerì di forzare una fessura e un masso si spostò: fu facile infilarmi nel cunicolo che si era spalancato, ero ormai solo pelle e ossa.
Avanzai nel buio per alcuni minuti, poi sbucai in una grande sala.
Il cuore mi batteva forte: la ricerca di una vita si stava realizzando.
Il mio lume era troppo tenue, ma io ero certo e percepivo con sicurezza ciò che non vedevo: lì c'era l'eredità di sovrani, guerrieri, maghi, stregoni.
Erano stati tiranni feroci, negromanti spiritati.
Le gambe mi tremavano: non credevo alle fandonie narratemi da
ragazzo, ma avevo la sensazione di un pericolo ineluttabile.
I sarcofagi erano enormi, grandi quanto come mausolei collocati
in una grotta naturale, trasformata in tempio.
Una fioca luce avvolgeva tutto, scendeva da un pozzo aperto sulla cima del monte.
Era strano: quello che per secoli generazioni di miei simili avevano cercato era proprio a mia disposizione e per di più di facile raggiungimento.
Qualcosa non quadrava: sulla montagna del Sasso mi ero inerpicato parecchie volte, ma senza esito felice e prima di me molti altri.
Mi chiedevo come non mi fossi accorto di un'apertura così larga, quando avevo esplorato le pendici del monte, palmo a palmo.
Le ombre si allungavano e la notte mi stava ghermendo: ebbi ancora più paura, qualcosa che non provavo da anni.
Avrei dormito lì, o mi rimaneva che tentare la scalata del pozzo: era pazzesco, ma non ebbi alternative.
La mia prima via di entrata si era trasformata in una trappola: il masso era tornato al suo posto e non sapeva come smuoverlo.
La scarsa luce mi rendeva tutto difficile, ma ormai stavo appeso a delle colonne scolpite nella roccia: ero quasi giunto al primo cornicione.
In cima scorsi delle persone muoversi, forse mi avrebbero salvato e non sarebbe stato necessario condividere la mia scoperta.
Al grido di aiuto non risposero, ma prontamente mi lanciarono una corda e mi issarono fuori.
Ero salvo, ma quelli erano proprio dei brutti figuri: mi fissarono con cattiveria, accigliati.
Temetti che fossero gli abitanti dell'ultimo villaggio, prima del deserto, gente selvatica, dura, crudele.
Cercai una giustificazione alla mia presenza nel pozzo, perché per loro ero un sacrilegio penetrare nelle sepolture dei loro antenati: -Stavo cercando dell'acqua e sono caduto dentro. Per caso non ne avete un po'? Ve ne sarei grato!-
Quelli mi guardarono in viso senza dire nulla: uno mi dette una rozza borraccia di stoffa incatramata.
Bevvi con avidità per far credere che stessi morendo di sete.
Ringraziai e restituii la borraccia, quando sentii il rumore di una lama estratta alle mie spalle: intravvidi il luccichio, ma non riuscii a evitare il colpo.
Fui ferito a un braccio.
Ero abituato a risse e a scontri violenti quanto brutali.
Il mio bastone nascondeva un punto affilato: colpii in pieno petto il mio aggressore, che lanciò un urlo rauco da sordomuto.
Mi erano già sopra con i loro coltellacci, quando un ruggito li fece arrestare: si inchinarono davanti alla belva e fuggirono.
Non potevano affrontare il leone, perché considerata sacra, protetta dal loro dio, mostruosa chimera con le fattezze di un sciacallo.
Ero salvo e il felino si accontentò di sbranare il moribondo: era stata attratta dal sangue versato.
Le stelle stavano sopra di me, in un cielo tanto terso da apparire nudo.
La ferita mi faceva male: la strinsi con uno straccio, poi discesi dalla montagna, convinto di poter entrare ancora nel pozzo.
Scivolai, poi precipitai da una parete: caddi al suolo.
Mi ruppi qualche costola, ma mi salvai miracolosamente.
Gli uccellacci dei cadaveri mi stavano volando attorno, eppure mi sentivo in forze.
La notte non voleva terminare: il sole doveva essere già lì.
Finalmente una grande luce mi abbagliò, ma non era il sole, proveniva dalla bocca del pozzo.
Cosa stesse avvenendo lo sapevano solo gli dei: io non ero superstizioso e rimasi a guardare.
C'erano ombre lunghe che danzavano, voci cavernose di una lingua mielosa si innalzavano con i bagliori della vetta.
Forse quella era la notte del ritorno dei defunti, come mi narrò mio padre: una notte ogni cento i defunti rivivono, cantano, urlano i loro dolori perpetui.
Era meglio allontanarsi per non finire preda dei loro festini sanguinari.
Nessuno si era vantato di essere passato impunemente tra questi banchetti infernali senza aver dato il proprio sangue a questi mostri.
Una grande sete mi ardeva dentro, desideravo qualcosa di rosso, di vivo.
Il sangue mi attirava e ne sentivo pure il profumo.
C'era qualcuno che transitava di lì.
Mi avvicinai come un gatto selvatico e lo assalii alle spalle: si divincolò, ma in vano.
La mia forza era diventata sorprendente.
Il disgraziato urlò: -Un mostro, un diavolo del sangue!-
Capii per la prima volta chi ero diventato: ero un demone della montagna, un cadavere succhia sangue.
Il poveretto soccombette e tutti gli altri vampiri discesero dal monte per approfittare della mia preda.
Erano scarni, scolpiti come le nervature del legno.
Gli occhi erano assatanati, le mani avevano degli artigli lunghi e sottili.
Solo quando si moriva si scopriva il tesoro dei Re Leoni e il mio destino eterno sarebbe stato quello di accovacciarmi vicino ai villaggi, in attesa di una vittima per notte.


racconto di Arduino