IL TESORO DEI RE
C'erano rocce aguzze e
un profumo di erba selvatica.
Il vento tagliava il
cielo con nubi veloci, l'aria pesava su di me e il mio cuore era
stanco: avevo gettato anni in cerca di oro, pietre preziose.
Avevo scavato
centinaia di tombe, avevo dissacrato antichi templi.
Nei sogni vedevo gli
spiriti dei morti che mi maledicevano: avevo disturbato i loro sonni.
A nulla valsero anni
di ricerca: il tesoro dei Sovrani del Regno dei Leoni era
introvabile.
Per secoli generazioni
si erano susseguite negli stenti, di fame per rintracciare la caverna
delle sepolture regali: mai nessuno era riuscito a scavarle.
Ormai quello dello
"sciacallo" era l'unico lavoro che sapeva fare: mi
guadagnavo da vivere con il poco rame e il bronzo che svendeva,
assieme al poco vasellame intatto, ai mercanti dei borghi al limite
del deserto.
Non avevo avuto una
donna, neppure una serva, come usavano i pastori di questi monti: non
avevo figli, ma solo bastardi che crescevano nelle strade, rubando
per non morire di fame.
Quella fossa era più
profonda delle altre e non aveva un sarcofago al suo interno, neppure
frantumato da noi tombaroli.
Era strano e pensai
che ci fosse un doppio fondo, ma la roccia pareva piena.
Continua a battere, ma
la mia picca lanciava solo rumori striduli e scintille.
La lampada a olio
lasciava la solita penombra sottile, ma io non avevo bisogno di luce
perché stavo diventando cieco.
Era impossibile, mai
mi era capitato di trovare una tomba vuota.
Il mio intuito mi
suggerì di forzare una fessura e un masso si spostò: fu facile
infilarmi nel cunicolo che si era spalancato, ero ormai solo pelle e
ossa.
Avanzai nel buio per
alcuni minuti, poi sbucai in una grande sala.
Il cuore mi batteva
forte: la ricerca di una vita si stava realizzando.
Il mio lume era troppo
tenue, ma io ero certo e percepivo con sicurezza ciò che non vedevo:
lì c'era l'eredità di sovrani, guerrieri, maghi, stregoni.
Erano stati tiranni
feroci, negromanti spiritati.
Le gambe mi tremavano:
non credevo alle fandonie narratemi da
ragazzo, ma avevo la
sensazione di un pericolo ineluttabile.
I sarcofagi erano
enormi, grandi quanto come mausolei collocati
in una grotta
naturale, trasformata in tempio.
Una fioca luce
avvolgeva tutto, scendeva da un pozzo aperto sulla cima del monte.
Era strano: quello che
per secoli generazioni di miei simili avevano cercato era proprio a
mia disposizione e per di più di facile raggiungimento.
Qualcosa non quadrava:
sulla montagna del Sasso mi ero inerpicato parecchie volte, ma senza
esito felice e prima di me molti altri.
Mi chiedevo come non
mi fossi accorto di un'apertura così larga, quando avevo esplorato
le pendici del monte, palmo a palmo.
Le ombre si
allungavano e la notte mi stava ghermendo: ebbi ancora più paura,
qualcosa che non provavo da anni.
Avrei dormito lì, o
mi rimaneva che tentare la scalata del pozzo: era pazzesco, ma non
ebbi alternative.
La mia prima via di
entrata si era trasformata in una trappola: il masso era tornato al
suo posto e non sapeva come smuoverlo.
La scarsa luce mi
rendeva tutto difficile, ma ormai stavo appeso a delle colonne
scolpite nella roccia: ero quasi giunto al primo cornicione.
In cima scorsi delle
persone muoversi, forse mi avrebbero salvato e non sarebbe stato
necessario condividere la mia scoperta.
Al grido di aiuto non
risposero, ma prontamente mi lanciarono una corda e mi issarono
fuori.
Ero salvo, ma quelli
erano proprio dei brutti figuri: mi fissarono con cattiveria,
accigliati.
Temetti che fossero
gli abitanti dell'ultimo villaggio, prima del deserto, gente
selvatica, dura, crudele.
Cercai una
giustificazione alla mia presenza nel pozzo, perché per loro ero un
sacrilegio penetrare nelle sepolture dei loro antenati: -Stavo
cercando dell'acqua e sono caduto dentro. Per caso non ne avete un
po'? Ve ne sarei grato!-
Quelli mi guardarono
in viso senza dire nulla: uno mi dette una rozza borraccia di stoffa
incatramata.
Bevvi con avidità per
far credere che stessi morendo di sete.
Ringraziai e restituii
la borraccia, quando sentii il rumore di una lama estratta alle mie
spalle: intravvidi il luccichio, ma non riuscii a evitare il colpo.
Fui ferito a un
braccio.
Ero abituato a risse e
a scontri violenti quanto brutali.
Il mio bastone
nascondeva un punto affilato: colpii in pieno petto il mio
aggressore, che lanciò un urlo rauco da sordomuto.
Mi erano già sopra
con i loro coltellacci, quando un ruggito li fece arrestare: si
inchinarono davanti alla belva e fuggirono.
Non potevano
affrontare il leone, perché considerata sacra, protetta dal loro
dio, mostruosa chimera con le fattezze di un sciacallo.
Ero salvo e il felino
si accontentò di sbranare il moribondo: era stata attratta dal
sangue versato.
Le stelle stavano
sopra di me, in un cielo tanto terso da apparire nudo.
La ferita mi faceva
male: la strinsi con uno straccio, poi discesi dalla montagna,
convinto di poter entrare ancora nel pozzo.
Scivolai, poi
precipitai da una parete: caddi al suolo.
Mi ruppi qualche
costola, ma mi salvai miracolosamente.
Gli uccellacci dei
cadaveri mi stavano volando attorno, eppure mi sentivo in forze.
La notte non voleva
terminare: il sole doveva essere già lì.
Finalmente una grande
luce mi abbagliò, ma non era il sole, proveniva dalla bocca del
pozzo.
Cosa stesse avvenendo
lo sapevano solo gli dei: io non ero superstizioso e rimasi a
guardare.
C'erano ombre lunghe
che danzavano, voci cavernose di una lingua mielosa si innalzavano
con i bagliori della vetta.
Forse quella era la
notte del ritorno dei defunti, come mi narrò mio padre: una notte
ogni cento i defunti rivivono, cantano, urlano i loro dolori
perpetui.
Era meglio
allontanarsi per non finire preda dei loro festini sanguinari.
Nessuno si era vantato
di essere passato impunemente tra questi banchetti infernali senza
aver dato il proprio sangue a questi mostri.
Una grande sete mi
ardeva dentro, desideravo qualcosa di rosso, di vivo.
Il sangue mi attirava
e ne sentivo pure il profumo.
C'era qualcuno che
transitava di lì.
Mi avvicinai come un
gatto selvatico e lo assalii alle spalle: si divincolò, ma in vano.
La mia forza era
diventata sorprendente.
Il disgraziato urlò:
-Un mostro, un diavolo del sangue!-
Capii per la prima
volta chi ero diventato: ero un demone della montagna, un cadavere
succhia sangue.
Il poveretto
soccombette e tutti gli altri vampiri discesero dal monte per
approfittare della mia preda.
Erano scarni, scolpiti
come le nervature del legno.
Gli occhi erano
assatanati, le mani avevano degli artigli lunghi e sottili.
Solo quando si moriva
si scopriva il tesoro dei Re Leoni e il mio destino eterno sarebbe
stato quello di accovacciarmi vicino ai villaggi, in attesa di una
vittima per notte.
racconto di Arduino