IL SOFFIO
La città era sotto di me: era una grande torta grigia, poco appetitosa, con i suoi fumi, i suoi odori che salivano sino alla mia torre.
Dovevo vegliare sul futuro di questa capitale a rischio di invasione: dopo quasi mille anni di dominio, di un regno vasto quanto un continente, era rimasta questa metropoli gigantesca con i suoi sobborghi.
Le province vicine e lontane pagavano i tributi poche volte e con somme sempre più irrisorie.
I barbari avanzavano e ci sottraevano vaste regioni ogni anno.
L'Imperatore era sempre sui confini, ma le truppe erano scarse e demotivate: tutte le volte che una tribù di nomadi, infiltratasi nell'Impero, era scacciata subito un'altra penetrava e si stabiliva sui territori poco vigilati.
La capitale era sempre più un'enorme testa su un corpo minuto.
I nostri nobili e il clero, pur vedendo il pericolo, non sapevano rinunciare ai privilegi: per colpa loro il nostro mondo rischiava di essere spazzato via per sempre.
Le processioni pompose si susseguivano nelle strade: si cercava l'aiuto del Cielo, ma i vizi e gli intrighi proseguivano.
Nessuno si pentiva per i propri errori e orrori: Dio ci aveva abbandonati.
Eravamo stati i figli prediletti del Padre Celeste, i portatori della fede autentica, pura e retta: diventammo i servi dell'eresia, della lussuria, della cupidigia, del delitto.
Dalla mia torre osservavo le stelle e leggevo il futuro: la mia Patria avrebbe perso la sua fede, la sua lingua, i suoi costumi.
Sarebbe divenuta una terra d'Oriente, con minareti e soprusi, violenze e distruzioni, ma alla fine da Nord sarebbero calati i conquistatori e avrebbero riportato l'Ortodossia, con il fuoco e l'acciaio.
Le urla dei muezzin si sarebbero smorzate e avrebbero squillato ancora le campane, ma moltissimo sangue si sarebbe versato per questo.
Presto sarebbe stato il momento del martirio per noi monaci.
Io sapevo già che sarei stato sgozzato come un capretto da un feroce soldato del Sultano.
Questo non mi importava.
Quella notte non lessi le stelle, ma mi godetti le luci soffuse della mia città, che tanto amavo, con i suoi campanili, con le sue cupole della reggia e delle cattedrali.
La brezza del mare scacciava gli odori e la nebbia del porto.
I velieri stranieri, sempre pronti a salpare, ci promettevano una salvezza impossibile: erano come angeli incatenati.
Ero stanco di quella vita: la torre era da troppo tempo la mia prigione.
Le mie prediche erano ascoltate mal volentieri: a corte si era fatto di tutto per farmi tacere.
Avevo proposto di vendere tutti i tesori e comprare armi, arruolare mercenari stranieri, attaccare il nemico e non attenderlo.
Invece erano convinti che le possenti mura avrebbero resistito all'assalto delle milizie islamiche.
Erano degli stolti!
I loro preziosi sarebbero finiti in mano al nemico.
Loro sarebbero stati uccisi e le loro moglie, i loro figli sarebbero stati venduti come schiavi.
Io di peccati ne avevo parecchi: per questo mi ero fatto monaco, per chiedere a Dio il perdono.
Uccisi mio padre e mia madre per diventare il nuovo Signore del mio territorio: non volevo attendere altro tempo.
Gli avvelenai e nessuno, tranne Dio e la mia coscienza, conobbe il mio terribile crimine.
Restai il despota del mio feudo per alcuni anni, poi loro, papà e mamma, mi apparvero.
Erano silenziosi, negli abiti sfarzosi del giorno del loro funerale.
Cercai di scacciare le visioni con sortilegi, con scongiuri, con benedizioni.
Compresi che non avrei avuto pace tutta la vita: distribuii i miei beni e mi chiusi in un convento.
Loro erano sempre vicino a me, immobili, con quello sguardo accusatorio che mi tormentava.
Non valsero digiuni, veglie di preghiera: il mio peccato era troppo grande.
Così decisi di conoscere il futuro.
Non c'è pena peggiore per un essere vivente: tutto termina in rovina o nella morte, è solo questione di tempo.
Divenni il profeta di sventura della mia Patria, colui che sa come evitare le sciagure, ma non può far nulla per la stoltezza dei suoi compatrioti.
Mi godevo la musica suonata da qualche musicista ambulante, il canto degli avvinazzati, l'aroma di un mondo in putrefazione.
Il peso delle mie colpe e quello degli errori dei miei simili era insopportabile, mi straziavano l'anima.
La morte per me era il più grande dono di Dio, ma non volevo perdermi in un suicidio: dovevo accettare sino in fondo la mia pena.
Scesi nelle vie e predicai la fine dell'Impero: i potenti non mi avevano ascoltato, lo avrebbero fatto i poveri, il popolo minuto.
Non potei dire molto: venni catturato dalle guardie e trascinato in prigione.
Non persero tempo in chiacchiere: mi chiusero in una cella umida, mi tennero a pane e acqua.
Lì avrei potuto testimoniare la fine dell'Impero ai topi e agli scarafaggi.
Ero molto resistente e sopravvissi a torture, a frustate, a stenti.
Finalmente la porta si spalancò: mi apparve un saraceno scuro e sporco come un lupo famelico.
Rimasi immobile attendendo la mia fine, ma quello mi rise in faccia e mi liberò.
La città bruciava e i saccheggiatori, gli assassini, i giannizzeri uccidevano, violentavano, catturavano chiunque si trovasse davanti a loro.
Non fecero caso a me, sembrava che non mi vedessero, poi mi accorsi che per loro non esistevo.
I miei genitori, da sempre vicino, sorrisero: - Sei tra noi! Sei come noi: un testimone della verità!-
Ero morto da molto tempo dentro di me.
Nella mia torre ero rimasto l'ombra di me stesso.
Nella cella, nel sonno, un turco prigioniero mi aveva tagliato la gola, togliendomi il peso del mio corpo.
Non mi accorsi di nulla sino alla conquista ottomana della città.
Ora proseguo la mia missione di spirito relegato sulla terra: soffio la verità nelle orecchie della gente, ma raramente sono ascoltato.
Racconto di Arduino Rossi