IL VENTO
Gli alberi erano
scossi da quel soffio potente che in autunno calava dalle selve.
Le foglie erano
spazzate e gli alberi denudati dal rosso, dall'ocra, dai colori
tristi.
Si sapeva che dalle
vetta innevata soffiava la tramontana, dove riposavano i morti,
secondo i sacerdoti della nostra religione arcaica.
Loro non avevano più
fame, né freddo e rimanevano a contemplare il cielo cristallino, le
stelle e la notte gelida, illuminata dalla luna che si rifletteva
sulle nevi perenni.
Noi portavamo i nostri
defunti nelle grotte ai piedi del monte, lì aprivamo i sepolcri e
calavamo i corpi dei nostri cari nelle voragini.
Sotto scorreva l'acqua
perpetua e tutto era travolto, solo lo spirito saliva ai monti puri.
Nessuno aveva osato
infrangere il mistero dei monti dei defunti:
nessuno aveva avuto il
coraggio di rischiare la maledizione degli dei.
Io invece ero troppo
curioso e incredulo: i morti erano per me partiti lontano e non c'era
luogo dove potessero essere contenuti.
Così partii in
quell'autunno gelido e andai contro il vento delle cime fino a
oltrepassare le selve, salii lungo gli immensi prati fioriti, rossi,
gialli, oltre gli arbusti spinosi e profumati.
Raggiunsi le rocce
sterili, avvolte dal muschio e dalle macchie vegetali, simili a
disegni di bambini.
Infine calpestai la
neve ghiacciata che precede le cime.
Non vidi nessuno: gli
spiriti non c'erano, nessun dio aveva fermato i demoni guardiani, che
avevano per tanto tempo popolato i miei incubi non c'erano.
C'era solo il vento,
forte e gelido, l'aria limpida e un immenso paesaggio dove si
individuavano le capanne dei villaggi, i templi
di pietra sulle alture
e sui passi, alti e sostenuti da molte colonne.
Oltre la nostra valle
c'erano i nemici che ci minacciavano con le loro incursioni:
bruciavano, uccidevano, rapivano fanciulli per renderli schiavi.
Io avevo proposto di
attaccarli attraversando i monti innevati, ma i vecchi temevano l'ira
delle divinità per un simile sacrilegio.
Sarei tornato e avrei
infranto le pietre sacre, avrei raccolto i giovani e assieme saremmo
calati sui nemici, annientandoli.
Avevo fame, avevo gli
arti congelati, la febbre mi stava bruciando dentro, ma ero troppo
felice: avevo sconfitto il tabù del vento e sarei diventato il nuovo
capo.
Avrei fatto scacciare
i sacerdoti, potente casta che defraudava la mia gente, avrei
innalzato una nuova divinità, quella della bora soffiante, perché
gli spiriti sicuramente erano sospinti dall'aria in tutto il mondo.
Non c'era luogo che
potesse contenere le anime dei morti: loro aleggiavano sopra le
nostre teste.
Io li sognavo e spesso
mi avevano detto dove incontrarmi con loro: la selva era il luogo
preferito da loro, proprio vicino alle grotte della sepoltura.
Scesi tra la mia
gente, ma non fui creduto: i sacerdoti mi scacciarono fino alla selva
e lì dovetti restare.
Così vissi di caccia,
con le bacche selvatiche le radici a poco alla volta mi abituai al
vento, alle processioni funebri che assistevo nascosto tra gli
alberi.
I defunti ben presto
si abituarono alla mia presenza da vivo e con loro rimanevo a
chiacchierare nelle notti di luna piena.
Si parlava delle
tribù, del mio isolamento, da sacrilego maledetto, del soffio che
portava con sé le nubi o conduceva la tempesta oltre l'orizzonte.
Restando con loro
potei vedere il passato e il futuro chiaramente: la mia tribù
sarebbe stata sconfitta e tutti sarebbero divenuti servi.
Il nome della mia
stirpe sarebbe svanito nel tempo e le nostre donne avrebbero
partorito solo schiavi o i figli dei loro padroni.
Anche i nostri
conquistatori sarebbero stati sconfitti, avrebbero subito la stessa
sorte.
I vincitori sarebbero
diventati schiavi e altre etnie avrebbero imposto il loro linguaggio,
i loro idoli, per poi tutti cadere nella polvere.
Solo il vento avrebbe
soffiato e avrebbe sparso il dolore dei defunti, i loro ricordi, i
loro rimpianti, ma nessuno li avrebbe ascoltati, sino a quando anche
la brezza si sarebbe stancata: tutto si sarebbe arrestato e un
immenso silenzio sarebbe regnato.
Solo i pensieri dei
defunti avrebbe continuato a esistere nelle spazio immenso, oltre il
tempo, per un'eternità dolorosa quanto inutile.
Io possedevo la
sapienza, o credevo di conoscere ogni cosa, e volli illuminare con la
verità i miei stolti fratelli di sangue.
Mi presentai alla
tribù e mi confusero con un fantasma: provocai
il terrore, ma quando
si accorsero che ero in carne e ossa, non mi risparmiarono.
Ero il sacrilego,
colui che aveva violato la terra degli spettri.
Ero un maledetto
dannato: non riuscii a parlare, mi colpirono con asce, con bastoni,
con pietre e mi mandarono nel vento con la mia verità, con la mia
cura per i loro dolori perpetui, ma ormai era tutto vano, la tempesta
con le sue voci sussurrati non è mai compresa.
racconto di Arduino Rossi