10 set 2012

in Italia fantasmi ..... L'AMICO









L'AMICO

Il piccolo era solo, molto solo, non aveva compagni di gioco e così ne trovò uno.
Anselmo gli era sempre vicino: il bambino parlottava con lui, si confidava.
Era triste osservare che mio figlio avesse dovuto crearsi un amico immaginario per avere qualcuno con sui dividere le sue lunghe meste ore.
La casa era vasta, immersa nella boscaglia dell'isola, tra roveti fioriti, rose selvatiche, ortiche.
Le estati erano tiepide, gli inverni erano gelidi e nevosi.
Eravamo gli unici abitanti di quell'isoletta persa nel mare burrascoso del Nord.
Ero rimasto vedovo quando era nato Luca, mio figlio.
Luca aveva trascorso i sei anni della sua vita tra malanni e febbri.
Era alto per la sua età, biondo chiaro come sua mamma e con i polmoni sofferenti.
Aveva bisogno di mare, di sole e di aria pulita, ma il mio lavoro di impiegatuccio, di contabile di terza classe, non mi concedeva
di fare viaggi all'estero, in terre più calde e fortunate.
Fu un colpo di fortuna trovare quel lavoro da guardiano in questa enorme villa: i proprietari non volevano che tutto andasse alla malora.
Mi pagavano con quattro soldi, che depositano sul mio libretto in una banca.
Il vitto e qualche straccio per vestirci, con dei giocattoli consunti per Luca ce li portava la barca, una volta alla settimana d'estate.
Durante l'inverno l'isola restava irraggiungibile per le tempeste poderose che la assediavano.
Il pescatore, che aveva il compito di rifornirci di viveri, era un bravo uomo: era una persona semplice, zeppa di superstizioni.
Ci informava delle vicende del mondo e mi consigliava di abbandonare l'isola.
La mia scelta fu difficile, ma necessaria: non volevo, non potevo
veder mio figlio morire, come la sua mamma, dentro la nostra decorosa, ma fredda abitazione di città.
Qui c'era aria pulita e Luca non respirava il fumo del carbone.
Incominciai a preoccuparmi della salute mentale del piccolo, quando mi accorsi che trascorreva molte ore a fissare i campi incolti, l'edera e l'erica del cortiletto: lì c'era una cappella e forse anche qualche sepoltura.
La faccenda mi turbò un po' e decisi di parlare con Luca: da troppo tempo io mi ero chiuso nel mio dolore.
Leggevo, scrivevo, oppure cercavo di sistemare il giardino, tagliando sterpi, potando alberi.
La casa era male ridotta, facevo quello che potevo per rallentare
la rovina finale.
Sistemavo il tetto, per non far piovere dentro.
Prima o poi quella lotta contro la natura selvaggia con il vento di mare e i rovi nemici si sarebbe conclusa: quel tratto di terra asservita all'uomo sarebbe terminata con il trionfo degli elementi.
Io combattevo una guerra già persa in partenza.
Luca invece pareva già passato al nemico: si trastullava al sole,
ma anche nella bufera.
Si arrampicava sugli alberi come uno scoiattolo, correva all'aria
aperta e spesso si gettava nei flutti del mare.
Le mie preoccupazioni si erano affievolite: era sempre pallido e suoi lineamenti erano sempre sottili.
Le braccia erano scheletriche, ma non aveva più il colore grigio della malattia, coi pomoli rossicci sulle gote.
Non aveva più l'affanno della tisi, ma non era spensierato: i suoi occhi erano malinconici.
Una sera, appena dopo il tramonto, lo scorsi aggirarsi nel roseto
abbandonato, colse un mazzo di rose rosse: le depose sulla terra nuda del cortile, dove c'era la cappella.
Dialogava con quella sua oscura visione.
Piangeva disperato, gettandosi sui fiori, rosso cupo alla luce della sera.
Lo attesi nella stanza del camino: un locale piccolo e confortevole, dove trascorrevamo le serate in silenzio.
Gli chiesi senza preamboli: -Cosa stavi facendo?-
-Ho deposto dei fiori sulla mia tomba!-
Rimasi di ghiaccio, ma cercai di celare la mia sorpresa: -Di che tomba parli? Quando starai meglio ce ne andremo da questo luogo abbandonato da Dio!-
-E' Anselmo che mi ha parlato della mia sepoltura: mi vuole proprio accanto a lui!-
Lasciai che il discorso cadesse da solo: non volevo stimolare la
fantasia del ragazzo.
Fu per caso, un giorno di inverno, che scoprii quel diario: era stato scritto da una donna cento anni prima.
Lì aveva vissuto con la sua famiglia ed era morta, forse era stata sepolta nel cortiletto con i suoi cari.
Era stata gente sfortunata: il primo a partire fu l'ultimo nato, poi toccò al padre e alla bambinetta, tutta pepe di tre anni.
Rimasero solo lei e Anselmo: quando scoprii che un Anselmo era esistito rimasi allibito.
Proseguii la lettura del diario sino a quando pure lui, l'ultimo figlio si ammalò e morì, a sei anni, l'età di Luca.
La madre concludeva il suo diario, chiedendo preghiere per Lei e i suoi cari.
La superstizione stava penetrando nella mia mente, anch'io temevo i fantasmi, io che ero stato un uomo razionale, scettico, propenso all'ateismo.
Dovevo andarmene da quel posto così tetro: alla fine dell'inverno non sarei rimasto un giorno in più.

-Queste pagine del diario del Signor Andrei sono le ultime con un po' di senno dal povero uomo: a primavera fu ritrovato in stato confusionale dal barcaiolo con i rifornimenti.
Il figlio era già deceduto per il male sottile: Andrei l'aveva sepolto nel cortile, accanto alle altre tombe. Lo sfortunato padre ripeteva che il suo Luca era in giardino e stava giocando con Anselmo, il suo caro amico.
Andrei non vuole andarsene dall'isola: desidera trascorrere gli ultimi suoi giorni vicino alla tomba del figlio.
Sarebbe stato giusto farlo ricoverare in manicomio, ma non ebbi
la forza di denunciare la sua infermità all'autorità medica.
Il poveretto è sulla sua isola e coglie rose per il suo bambino, in attesa di potergli riposare accanto.-

racconto di Arduino Rossi

horror storie .. L'INCENDIARIO










L'INCENDIARIO

Vedere dall'alto un incendio per me è sempre stata la mia passione: il primo avvenne per caso, una mattina di molti anni fa.
Una casupola prese fuoco per la sbadataggine di un vecchio.
Il fuoco divampò con vigore e il suo stridore non celò le urla del poveretto.
Dall'alto, sempre dall'alto, assistevo, senza muovere un dito, a quello spettacolo di potenza distruttiva, di violenza naturale che nulla perdona.
Da quel giorno, per provare ancora a quel piacere, provocai io gli incendi.
Divenni sempre più abile e scaltro.
La polizia sospettava di me, ma non riusciva mai a trovare le prove: agivo di notte o nelle giornate più tranquille, quando non c'era nessuno, o nei giorni di festa.
Ero sempre avvistato sui luoghi dei miei crimini, poco prima che
il fuoco divampasse, ma nessun pedinamento, nessuno sbirro, per esperto che fosse, riuscì a cogliermi con l'innesco in mano.
Ero seduto sul colle, il luogo più alto della città, e attendevo le fiamme.
Il vento era caldo e forte: mi gustavo già il piacere che dà l'odore di bruciato.
Invece quella volta il puzzo proveniva dalle spalle: non era il vento che avevo improvvisamente cambiato direzione.
Lui era lì, alto, brutto, con quel tremendo tanfo di carne arsa che esalava tutte le volte che sorrideva.
Capii chi fosse e provai terrore, ammirazione, entusiasmo gioia:
era il mio grande maestro, il padre di tutti gli incendiari.
Gli chiesi: -Che vuoi!-
-Grazie del servigi, amico! Vuoi diventare mio socio a tutti gli effetti?-
Risposi senza perdere tempo: -Certamente!-
Mi prese con lui, mettendomi sulla sua schiena larga, dura e increspata.
Vidi dall'alto la mia città, le verdi valli che la avvolgevano, la pianura calda, umida, molle, con i campi di frumento maturi, pronti a essere mietuti o bruciati.
I campanili dei paesini si avvicinavano e si allontanavano repentini tanto era veloce lui, Satana.
Mi condusse sopra la montagna più alta della regione e mi fece firmare un patto con il sangue.
Ero il suo servo, con trattamenti di favore, ero il più caro e affezionato adoratore del fuoco.
Divenni capo di una setta satanica, di un gruppo di sadici, perversi incendiari.
Eppure fummo traditi: fu il vento, fu il nostro maestro, fu il Cielo.
Eravamo dentro la nostra casupola, il nostro santuario, il luogo ricercato dalla polizia e mai trovato.
Si era deciso che lì nessuno avrebbe acceso un fuoco, per non mettere a repentaglio la nostra sicurezza durante le nostre riunioni.
Con noi si era unito un giovane, che mi sembrava più demente che satanico.
Infatti, nella sua innocente incoscienza non era succube alla volontà del male, ma a quella del bene.
Fu lui a incendiare le sterpaglie che circondavano il nostro santuario: le fiamme avvolsero tutto ed ebbero facile ragione di noi.
Perimmo tutti, ma il fuoco continuava a divampare: le nostre anime non hanno pace......

racconto di Arduino Rossi

di fantasmi storie . IL GIUDICE









IL GIUDICE

L'aula giudiziaria era calda, sudavano tutti sotto le nostre toghe, che il giudice Ferbis ci obbligava a indossare.
Eravamo in luglio, in quelle giornate afose, che fanno desiderare
le spiagge, il mare, le montagne serene.
Invece eravamo costretti a subire il cinismo sadico del nostro giudice, il più introverso, stanco, vecchio magistrato della città: l'uomo che aveva fatto tremare i peggiori criminale, l'uomo più fetente che avessi mai avuto l'onore di conoscere.
Eravamo certi che fosse pazzo, ma nessuno aveva il coraggio di
chiedere la destituzione: era troppo potente e aveva conoscenza
in alto, tra i politici governativi.
La gente lo considerava un uomo senza pietà, forse spietato, ma
non conosceva il suo spirito di contraddizione: aveva assolto dei pericolosi assassini con tutte le prove di colpevolezza possibili per il caso.
Erano famose nel tribunale le sue condanne originali: innocenti,
che il dibattimento aveva escluso dalle responsabilità penali, senza alcun dubbio, finivano condannati all'ergastolo o alla pena capitale.
Quante teste aveva fatto tagliare Ferbis? Si dice molte, a decine, forse più di un centinaio.
Assisteva a tutte le esecuzioni con il suo sorriso sadico da folle.
Provava piacere a veder saltare la testa sotto la mannaia del boia, suo vecchio amico personale, che gli riservava il posto più
"panoramico" per le esecuzioni.
Questo avveniva un tempo, quando era più giovane ed era lui il giudice più potente e temuto della città.
Era da tempo ormai che Ferbis era stato affiancato da un secondo giudice, più pacato che lo limitava negli eccessi e lo aiutava nelle procedure: Ferbis era un vecchio che non si rammentava i codici di legge, scordava i capi di imputazione.
Se fosse stato per lui tutti sarebbero finiti sulla forca, anche un ladruncolo per fame.
Quel giorno estivo era più arcigno del solito, voleva almeno una
pena capitale, un povero disgraziato a cui far tagliare il collo.
Io ero l'avvocato di un probabile condannato a morte.
Ero giovane e non volevo perdere la prima causa importante della mia vita.
Tentai subito la ricusazione della corte, ma servì solo a far esasperare il maledetto magistrato.
Allora cercai di dimostrare, con ogni mezzo, che il mio cliente fosse innocente: ci riuscii con dati certi.
Non c'era più un ragionevole dubbio, ma quel di giudice perverso sentenziò la pena di morte.
Ero esasperato, arrabbiato: avrei fatto ricorso e l'imputato sarebbe uscito scagionato, ma sarebbe stata una riabilitazione postuma, perché Ferbis avrebbe seguito la procedura d'urgenza per non farsi fuggire la preda.
Parlai con il condannato e gli promisi ciò che non potevo, ma lui
non si scompose: -Avvocato! Ha fatto il possibile, era destino che finisse così! Non si dia troppo pena, ormai si deve rassegnare, come ho già fatto io!-
Mi promise che si sarebbe vendicato, ma ero convinto che il terrore della morte prossima, a cui non pensava sino a poco prima, lo avesse fatto impazzire.
Lo accompagnai al patibolo: il condannato era sereno, indifferente, sembrava che facesse una passeggiata.
Il giudice era lì vicino, seduta con quel ghigno sadico che lo caratterizzava.
Il mio cliente non smise mai di fissarlo e per la prima volta Ferbis abbassò la testa e non guardò l'esecuzione.
Non so cosa avvenne esattamente in seguito: si dice che il Giudice del diavolo avesse intenzione di ritirarsi per motivi di salute.
Un mese dopo era in pensione, eppure tutti avrebbero scommesso che Ferbis sarebbe morto al suo posto, nell'aula della corte di assise.
Dopo le dimissioni gironzolava attorno al tribunale e pareva totalmente mutato: sembrava spaventato, anzi terrorizzato.
Si voltava spesso e non rispondeva ai saluti.
Fu lui che mi cercò una mattina nebbiosa, dopo le udienze, mentre tornavo al mio studio con i miei pensieri.
Mi fermò ponendomi la mano tremolante sulla spalla: -Avvocato! Avvocato, la prego! Ho bisogno di lei, devo sapere!-
Fu per me una sorpresa vedere il Giudice supplicarmi, quasi in lacrime.
Voleva sapere tutto, passato e vita privata, del mio cliente, fatto morire innocente.
Mi chiese con ansia: -Era un negromante? Uno stregone?....-
Per ciò che diceva era dovuto al marasma senile: Ferbis parlava
come un logorroico, cercando di capire qualcosa che per me era
frutto della sua pazzia.
Quando poi mi riferirono che si era arrampicato sul tetto del tribunale e rimanesse lì a fissare il vuoto, non ebbi dubbi: il Giudice era uscito di senno.
Rimase qualche minuto in quella posizione precaria, tra lo sconcerto di tutti, giudici e avvocati, che lo pregavano di scendere.
Si lasciò cadere e volò senza lanciare un urlo, rigido come un manichino.
I pettegolezzi della gente cercarono mille spiegazioni, ma una lettera mi spigò tutto.
Era di Ferbis, che l'aveva scritta il giorno dell'insano gesto: -Sono disperato, mi rimane solo la morte, sperando di trovare almeno dopo la pace.
Il suo cliente, dal giorno dell'esecuzione, non mi lascia solo.
Si è posto accanto e non dice nulla, mi fissa con quello sguardo
sadico, maligno dell'ultimo suo istante. E' da mesi che non mi lascia: mi vuole condurre con sé e temo che ormai abbia vinto lui!-

Tutto questo era dovuto a una malattia degenerativa, tipica dei vecchi: non potevo certamente credere a una spiegazione così folle.
Eppure la mia razione e agnostica sicurezza svanì nel nulla: quando i presenti corsero verso il cadavere del Giudice c'era un
fotografo di un quotidiano locale.
Fu per caso che me ne accorsi, rivedendo il giornale ingiallito con i commenti sul suicidio del magistrato: accanto al corpo del
vecchio c'era lui! Sì! Era proprio lui il mio cliente.
Nessuno lo aveva visto, ma sulla pellicola la sua immagine si era impressa.

racconto di Arduino Rossi

horror ...... IL POZZO









IL POZZO

Era stato scavato in altri tempi, quando l'acqua era abbondante e bastava scendere pochi metri sotto terra per arrivare alla falda
acquifera: ora le lunghe siccità avevano insecchito il vecchio pozzo ed era necessario scendere molto per dare un po' di acqua fangosa, dal sapore forte, al paese.
Noi ragazzini ci calavamo attraverso una fessura del terreno, eravamo piccoli e magri, seguivamo dei gradini ai bordi sino al fondo duro e arido.
Pure io vi discesi varie volte senza mai rintracciare quella porta, che secondo la leggenda raccontata nel villaggio, fosse quella dell'inferno.
Era divertente avvicinarsi al pozzo, nonostante i rimproveri degli adulti, poi celarsi dove i grandi non sarebbero passati e aspettare la sera, risalire rapidamente, temendo la notte e le sculacciate delle mamme.
Era un gioco ardito, rischiavamo di cadere per alcuni metri dai gradini scivolosi.
Ero il più spavaldo dei bambini del gruppo che vivevamo come animaletti selvatici dalla mattina alla sera in cerca di uova di uccello, dispettosi, violenti, anche cattivelli.
Per dimostrare il mio coraggio ed essere riconosciuto senza ombra di dubbio come capo banda, decisi di entrare solo nel pozzo e di trascorrere la notte con due candele rubate in chiesa, un po' di pane, uno straccio come coperta.
Benché l'età dell'incoscienza e la spavalderia dell'epoca mi dava
la certezza che avrei potuto affrontare anche il diavolo, quando i miei amici mi lasciarono solo io tremai come un bambinetto spaurito.
Pensai: -Che sciocco che sono stato!-
Ero quasi deciso a tornare in superficie, ma la vergogna che avrei provato sarebbe stata troppo forte e rimasi, fissando con angoscia ogni ombra che si muoveva per il tremolio della fiammella della candela.
La notte avanzava, ma io non potevo sapere che ore fossero, non avevo orologio, né il cielo stellato sopra di me, con la luna che calava e sorgeva.
Iniziai a percepire fruscii, tonfi lontani e sotterranei, rumori che diventarono sempre più forti e distinguibili.
Le candele si consumavano rapidamente e non sarebbero bastate per tutta la notte, ma una luminosità lieve stava invadendo il fondo del pozzo: era una luce rossastra, che aveva piccoli bagliori ed era accompagnata da risolini striduli.
Era una maledetta situazione e capii che certamente qualcosa sarebbe avvenuto, ma non di buono o di bello: i rumori stavano diventando dei frastuoni, i sussurri in voci e lamenti, bestemmie e richieste di pietà.
Con sorpresa scoprii che si era aperta una porta nella roccia, ben illuminata e decisi di capire cosa stesse accadendo.
Camminai lungo una galleria per alcuni chilometri, poi scesi verso il centro di una sala vuota, attraverso stretti sentieri, inerpicata lungo le pareti immensi di una voragine profondissima.
Tutto era costellato da torri appuntite che sbucavano dal buio e su ogni punta c'era una figura oscena, ripugnante: pareva il tetto di una cattedrale gotica, ma dalla forma imprecisa, dal gusto rozzo, zeppo di immagini diaboliche.
Ero deciso, proseguii lungo la pericolosa via e la curiosità aveva il sopravvento sul buon senso, sul timore.
Ero certo di essere più furbo del Diavolo e forse lo ero.
Le urla di dolore crebbero, ma non riuscivo a vedere nessuno: le tenebre continuavano a celare una scena che si deduceva mostruosa.
Una voce mi sorpresa alle spalle: -Guarda questo moccioso che sta facendo! Si crede scaltro!-
Era un omone scuro e sporco, dalla pelle rugosa e bluastra: era una vera apparizione infernale, qualcosa che oggi mi farebbe svanire per lo spavento, ma allora ero così incosciente che gli sorrisi: -Che ne dici di mostrarmi il paesaggio!-
-Per chi mi hai preso! per una guida turistica! Lo sai cosa c'è là?-
Feci il falso ingenuo: -Non so! Dimmi?-
Quello si infuriò e mi afferrò la testa, spingendomi verso la voragine, trattenendomi a stento dal farmi precipitare: -Non fare lo spiritoso con noi! Hai capito?-
Fui d'accordo e lo assecondai, mi fece scendere ancora qualche
metro e poi mi pose in cima a una guglia: -Ecco resta lì! Se resisterai alla visione tornerai sulla terra, altrimenti sarai nostro ospite per sempre!-
Dopo un po' il buio si sciolse come nebbia al sole e fu facile per me intravvedere le ombre prendere forma in persone, in larve spettrali che si agitavano tra fiamme, sangue, escrementi, torture inimmaginabili.
I poveretti non morivano e rimanevano per sempre vivi, o quanto meno coscienti della loro condizione.
Certamente rimasi scioccato, ma persi il completo controllo di me, ebbi la forza di ridere, fortissimo, a tal punto qualche disgraziato si accorse di me: -Vieni qui, che le tue risate saranno fragorose!-
Erano furiosi perché si sentivano derisi da un moccioso.
La testa mi girava, il fetore di morte e di putrido era insopportabile, il caldo era incredibile, stavo per cedere: sarei precipitato nella bolgia infernale, tra orrori e tormenti, quando ebbi l'istintiva reazione della preda in trappola.
Feci un salto sino al bordo del sentiero.
Fui presto salvo, ma i diavoli, foschi come il buio mi inseguivano: erano decisi a non lasciarmi scappare, sarei stato un testimone indesiderato, scomodo del loro mondo.
Sapevo che l'alba non era lontana e continuai a salire, arrampicarmi senza mai sbucare nel pozzo.
Non so cosa capitò, ma alla fine mi trovai sul prato, accanto alla bocca del pozzo: i miei amici erano lì e tentavano di rinvenirmi da ore.
Erano curiosi, ma io non dissi nulla: rimasi in silenzio per giorni interi.
Mi ero piazzato in fondo alla chiesa e il sagrestano mi mandava via alla sera in malo modo: non capiva perché trascorressi le mie giornate in un angolo al buio di una cappelletta, borbottando come un mentecatto frasi sconnesse.
I miei compagni mi martellarono di domande per settimane poi si stancarono, convinti che qualcosa mi avesse fatto uscire di senno: tornarono ai loro giochi e non sceso più nel pozzo.
Io ricominciai la mia vita, ma non ero più lo stesso: ero spesso mogio, non reagivo alle provocazioni dei compagni.
Qualcosa in me si era spezzato, ma non ero diventato un folle.
Finalmente decisi di mostrare quello che il Diavolo mi aveva fatto.
I miei coetanei rimasero ammutoliti e fuggirono terrorizzati: un'enorme graffiata mi aveva segnato il petto e si era formato un tatuaggio, era il disegno di un diavolaccio sopra una guglia.
Fui lasciato solo da allora: per loro ero stato segnato da Satana e gli appartenevo per sempre.


racconto di Arduino Rossi

in casa fantasmi .... TUTTO PER GIOCO












TUTTO PER GIOCO

Era un sabato pomeriggio e noi ragazzi non sapevamo cosa fare: ci stavamo annoiando come al solito. Non avevamo voglia di studiare, non avevamo intenzione di restare al bar con i nostri coetanei, né di passeggiare nelle vie del centro cittadino. La nostra città era il solito capoluogo di provincia, di una provincia abbastanza attiva e ricca, ma priva di fantasia e di iniziative per i
giovani.
Da sempre c'era un'aria bigotta. Oltre al calcio nei campetti parrocchiali, al ballo in una sala semi- clandestina della periferia, non c'era nulla, se non sane passeggiate sui colli, magari con la propria ragazza. Noi non eravamo fidanzati, era ancora presto per impegnarsi: avevamo tempo per stancarci con le donne.
Così fui io a proporre il nuovo gioco di gruppo e quel pomeriggio uggioso, piovoso, era quello giusto. Ci trovammo nella cantina di Andrea, il luogo delle nostre riunioni segrete, nascosto a tutti: era grande, con vaste volte e zeppo di mobili in disuso, che sarebbero stati la gioia di un rigattiere.
La polvere era tanta e ci sedavamo su alcune sedie con braccioli,
puliti alla meglio da noi. Restavamo a chiacchierare attorno al tavolo di ragazze, di scuola, di voti brutti e belli, del futuro con i nostri progetti di fuga da quella monotona cittadina, dove c'era solo un avvenire di lavoro, da bravi padri di famiglia.
Eravamo giovani con le teste zeppe di sogni: saremmo stati diversi dai nostri genitori. Avevo letto su una rivista un articolo sullo spiritismo e ne ero rimasto affascinato: cercai quindi di saperne di più sino a scoprire la tecnica del bicchierino.
Avevo segnato io le lettere in cerchio sul foglio bianco: lo avevo incollato al vecchio tavolino della cantina di Andrea, che brontolò un po', ma alla fine mi lasciò fare.
Eravamo in sei quel sabato, avevamo spento le luci e lasciato una flebile candela su un vecchio candelabro di bronzo. Avevo faticato non poco, sgolandomi, per ottenere un po' di silenzio e di atmosfera: qualcuno tra noi non voleva considerare il nostro esperimento come una faccenda seria. Comunque il nostro scherzare nascondeva la paura per l'ignoto. Certamente qualcuno tentava di spingere il bicchierino sul tavolo per far risultare ciò che interessava a lui: le prime parole erano incomprensibili.
Finalmente l'atmosfera tenebrosa del locale ebbe la meglio sui burloni più cocciuti: si calmarono quando le prime parole sensate uscirono.
Chiedemmo. -Chi sei?-
-Sono un vostro amico!-
-Sei morto?-
Il bicchierino scivolava rapido con le risposte: -Sì!-
-Vuoi fare il nostro spirito guida?-
-Certamente!-
Tutto andava bene ed eravamo in quella condizione psicologica che dal dubbio, o dall'incredulità, si passa alla constatazione che qualcosa di misterioso sta avvenendo. Gli chiedemmo: -Come ti chiami?-
-Per voi sarò, Sem!-
-Sem! Quando sei deceduto?-
-Questo non vi deve interessare! Dovete solo sapere che io abitavo questa casa molti anni prima che voi nasceste! Era lo spirito della casa e questo fece preoccupare Andrea, che si lamentò: -Mi volete rovinare! State risvegliando i morti nella mia cantina!-
Ridemmo tutti: -Non temere, Sem è un buon fantasma! Non ti farà del male!-
Così, ogni sabato pomeriggio ci ritrovavamo nella cantina, sperando di sapere qualcosa di più sulla vita dopo la morte. Sem invece evitava di dare particolari: sembrava ostacolato da un'autorità superiore e non svelava i segreti dell'Oltretomba.
-Sem! Perché non ci dici come si sta da te?-
-C'è chi sta bene e chi sta male! Dipende da come uno ha vissuto!-
Era una risposta ovvia, che anche il curato della parrocchia ci avrebbe dato. Noi volevamo sapere di più, non ci bastavano i soliti chiarimenti. Comunque Sem ci fece ritrovare parenti e amici defunti, anche personaggi sconosciuti.
Potemmo verificare con precisione: ciò che diceva era esatto. Ci rivelava date di morte di gente deceduta, luoghi delle sepolture e molti altri particolari che poi risultarono veri. Non c'era nulla di macabro, né di spaventoso; alla fine la faccenda ci stava stancando.
Noi volevamo di più: avere notizie sul nostro futuro, cosa avremmo fatto e quali avvenimenti ci attendevano. Anche su queste questioni il nostro spirito guida non voleva essere precise, restava nel vago. Una volta, dopo molte insistenze, rispose: -Morirete tutti!-
-Questo è certo, ma quando?-
-Presto!-
Era una risposta agghiacciante, ma riuscii a tener unita la catena: -Come finiremo?-
-Sarete assassinati da qualcuno che temerà ciò che vi svelo ora!
Sino a quando manterrete il segreto non sarete in pericolo, ma quando uno solo parlerà per tutti voi sarà la fine!-
Avrei dovuto rompere subito la catena, ma la curiosità era troppa: -Che segreto è?-
-In questa cantina sono stati nascosti i corpi di due uomini, uccisi da un notabile della vostra città. Ci sono le prove di quanto dico, ma se troverete i cadaveri sarete tutti assassinati!-

Era qualcosa di assurdo e terribile. Avremmo dovuto tacere e vivere, o parlare e morire. Decidemmo di non tornare nella cantina, né di fare altre sedute spiritiche: sicuramente avevamo superato il confine del lecito e un'entità superiore ci stava punendo.
Ci separammo e non ci incontrammo più per anni: io decisi di andarmene dalla città e così feci carriera come avvocato. Gli altri rimasero in città e furono bravi padri di famiglia: impiegati, artigiani, commercianti, come i loro genitori e i loro nonni. Ormai non mi preoccupavo della predizione di Sem, poi aveva detto che saremmo morti presto e invece erano trascorsi quindici anni: nulla era capitato.
Fu per una causa di omicidio che fui costretto a rientrare nella mia città natale: presi una camera in affitto per tutto il periodo del processo, per non farmi notare dai parenti, dai vecchi amici.
Dovevo difendere il personaggio più ricco e potente della città: un losco individuo sospettato di diversi crimini, che proseguiva
nelle sue abili attività delinquenziali.
Mi aveva incastrato con una promessa fatta alla moglie, una donna molto bella ed affascinante. Il mio cliente era un vero farabutto, ma con le mie loquaci capacità forensi e con le sue protezioni riuscii a farlo assolvere: mi ripagò con regali lussuosi oltre alla mia parcella.
Io non ero soddisfatto e avrei preferito che quel delinquente fosse finito in carcere per scontare i suoi gravi delitti: avevo ancora un po' di coscienza. La notte sognai di Sem che mi disse: -Va' nella cantina e scava!-
Il giorno successivo rividi Andrea. Non fu tanto felice della mia proposta, ma la mia cocciutaggine vinse ancora le sue titubanze: dovevo sapere se Sem ci avesse spaventato e ingannato o avesse detto ancora la verità. Il pavimento era coperto da un lastricato di pietra, ma fu facile per me trovare l'unico tratto di terriccio.
Faticammo parecchio, ma alla fine, sotto solo mezzo metro di materiale, trovammo due scheletri. C'era pure quella che probabilmente era stata l'arma del delitto: un piccone. Quelli erano i resti di due complici del mio cliente, scomparsi diversi anni prima, mentre per la giustizia erano due ricercati per appropriazione indebita.
Si era detto che vivessero in qualche isola tropicale, dove sperperassero i soldi rubati, invece erano lì, nella cantina del mio amico, morti da anni.
Si sarebbe riaperto il caso e le dichiarazioni del potente della città sarebbero state facilmente contraddette dai fatti: non avevano potuto portare con sé il denaro, né spenderlo in paesi stranieri, come risultava dalle indagini. L'unico che avrebbe potuto appropriarsi impunemente del capitale era lui, il grasso e ormai vecchio, temuto, prepotente magnate della città.
Era necessario trovarci tutti noi, gli amici di un tempo, e decidere assieme cosa fare: l' assassino ci avrebbe facilmente tappato la bocca per sempre, se avesse saputo che noi conoscevamo i suoi crimini.
I miei amici mi maledissero e mi consigliarono di andarmene per
sempre dalle loro vite: ero un pericolo per tutti loro con la mia rischiosa sete di giustizia. Certamente nessuno di noi avrebbe svelato il segreto, così fui contento: quella volta Sem avesse sbagliato, non ci avrebbero ammazzato.
Mi ero scordato dalla mia abitudine a scrivere dei resoconti nel periodo delle sedute spiritiche e del desiderio di fama: quegli scritti li inviavo a riviste che trattavano di misteri.
Ma avevo evitato di spedire l'ultimo mio scritto, riguardante la seduta della predizione. Sì!
Scioccamente, per la mia mania di scrivere a sera ogni cosa di interessante che mi capitava, esisteva ancora una pagina ingiallita con la cronaca precisa di ciò che Sem ci aveva predetto e detto. Quel foglio sciolto era rimasto con le copie dei miei vecchi articoli, mai pubblicati, in un quaderno nella cantina. Nessuno si era ricordato di quegli manoscritti. Per far pulizia Andrea regalò il tavolino delle sedute a un povero studente, con qualche difficoltà economica.
Quel idiota rinvenne i miei pezzi giornalistici e li firmò, spedendoli a un giornale poco serio, che trattava di spiritismo. Per anni i miei lavori erano rimasti inediti, nonostante i miei sforzi. La sorte volle che proprio lo scritto, che non avrei mai desiderato diffondere, fosse stampato. I sicari del potente nostro nemico ci trovarono alla stazione, mentre stavamo partendo e fu facile eliminarci: fu una strage inspiegabile e incomprensibile per anni. Solo con il gioco del bicchierino, cari giovani amici miei avete scoperto questa tragica verità, ma non rivelatela mai a nessuno se non desiderate conoscere in anticipo i segreti dell'Aldilà.

racconto di Arduino Rossi


di paura vere storie ......SUL FIUME






SUL FIUME

C'erano profonde valli, poi prati boschi, la palude avvolgeva le terre basse, le più fertili se bonificate e coltivate.
La nebbia si alzava dal fiume largo e terroso, maestoso.
Lungo le sue rive si erano formati anfratti, grotte e proprio lì era facile nascondersi ai cacciatori di schiavi.
Fuggii dal mio padrone perché il mio istinto di uomo libero era più forte dell'educazione da servo che avevo ricevuto.
Il vento della pianura con le sue praterie, con i cavalli selvaggi, mi avevano convinto che mi conveniva lottare per non avere catene.
Vivevo nelle grotte degli spiriti, così le chiamava la gente della zona: pescatori, cacciatori, traghettatori.
In quella cavità c'erano le ossa di una popolazione ormai estinta, guerrieri giganteschi con elmi, spade e corazze.
Nessuno osava sottrarre ai legittimi proprietari le armi, il corredo funerario: si narrava che la maledizione dei morti sarebbe caduta sul sacrilego.
Io ero indifferente, incredulo: non temevo né spettri, né demoni, né gli dei.
Ero stanco di obbedire, di sottostare a leggi, regole per timore.
Raccolsi le armi, ormai arrugginite e le forgiai: ero un ottimo fabbro.
Ottenni nuove armi per la mia difesa, per il mercato, per i viandanti.
Ben presto mi arricchii e potei riscattare la mia condizione da schiavo.
Mi feci costruire una casa sulla riva, dove transitavano i mercanti e feci ottimi affari: acquistai degli schiavi e divenni un ricco liberto, uno dei più potenti della regione.
Mi trovai una moglie giovane e alcune serve molto belle.
Avevo tutto ciò che un uomo possa desiderare: ero temuto, invidiato, rispettato.
Forse non avevo ottenuto quella libertà da guerriero, che tanto avevo agognato da ragazzino.
Ero solo un mercante, un artigiano con molto oro nella mia cassa a doppio fondo.
La vecchiaia avanzava, i figli erano cresciuti e se ne erano andati lontano, nella capitale.
Il metallo delle tombe era terminato e la mia officina era silenziosa da tempo.
Mia moglie e i miei schiavi abitavano in una nuova casa in collina, in un luogo più salubre.
Da tempo i commerci lungo le sponde del fiume languivano: prima le pestilenze, poi i briganti, avevano reso la zona impura.
Possedevo ancora molto oro e pietre preziose in abbondanza.
Sarebbero bastate per tutta la vecchiaia, se non fossero giunti loro.
Li notai la prima volta all'alba, quando la nebbia taglia l'aria con tanti nastri di seta evanescente.
I guerrieri erano là, lungo la sponda ed erano appena riconoscibili.
Io non vi feci caso, ma sapevo chi fossero e cosa volessero da me.
Così tutte le mattine loro apparivano e la loro presenza era sempre più corporea e restavano sempre più tempo.
Poi iniziarono ad avvicinarsi, infine sentii i loro pesanti passi e il tintinnio delle armi.
Sapevo che non mi avrebbero dato pace: gli ultimi vecchi servi mi avevano tradito, se ne erano andati.
Rimaneva il cieco, che non smetteva di brontolare per i suoi acciacchi.
Fu lui che li fece entrare in casa e fu lui che li presentò a me: -Padrone! Ci sono dei forestieri! Dicono che devono riscuotere!-
Mi infuriai: -Idiota! Io non ho debiti...-
Li vidi dentro la mia camera da ammalato: da alcuni giorni non avevo più energie e languivo sul mio giaciglio, nello sporco.
Ebbi appena le forze per ordinare a loro di uscire.
Non si mossero, si sedettero attorno a me e attesero, attesero che io diventassi come loro, per avere il risarcimento eterno.
-I secoli sgretolarono la casa sul fiume e nessuna traccia è rimasta dell'officina del fabbro.
Solo io, vecchio archeologo dilettante, ho scovato un vaso di terracotta con il papiro ben protetto da un tappo di creta e cera.
Sarà l'effetto della mia vista non più valida, sarà dovuto alla mia immaginazione, ma proprio nel luogo del ritrovamento del manoscritto ho intravvisto, questa mattina all'alba, un uomo con
una tunica che forgiava armi, corazze, scudi, circondato da guerrieri feroci, simili a diavoli tanto erano sporchi di fuliggine.

racconto di Arduino Rossi