L'AMICO
Il piccolo era solo,
molto solo, non aveva compagni di gioco e così ne trovò uno.
Anselmo gli era sempre
vicino: il bambino parlottava con lui, si confidava.
Era triste osservare
che mio figlio avesse dovuto crearsi un amico immaginario per avere
qualcuno con sui dividere le sue lunghe meste ore.
La casa era vasta,
immersa nella boscaglia dell'isola, tra roveti fioriti, rose
selvatiche, ortiche.
Le estati erano
tiepide, gli inverni erano gelidi e nevosi.
Eravamo gli unici
abitanti di quell'isoletta persa nel mare burrascoso del Nord.
Ero rimasto vedovo
quando era nato Luca, mio figlio.
Luca aveva trascorso i
sei anni della sua vita tra malanni e febbri.
Era alto per la sua
età, biondo chiaro come sua mamma e con i polmoni sofferenti.
Aveva bisogno di mare,
di sole e di aria pulita, ma il mio lavoro di impiegatuccio, di
contabile di terza classe, non mi concedeva
di fare viaggi
all'estero, in terre più calde e fortunate.
Fu un colpo di fortuna
trovare quel lavoro da guardiano in questa enorme villa: i
proprietari non volevano che tutto andasse alla malora.
Mi pagavano con
quattro soldi, che depositano sul mio libretto in una banca.
Il vitto e qualche
straccio per vestirci, con dei giocattoli consunti per Luca ce li
portava la barca, una volta alla settimana d'estate.
Durante l'inverno
l'isola restava irraggiungibile per le tempeste poderose che la
assediavano.
Il pescatore, che
aveva il compito di rifornirci di viveri, era un bravo uomo: era una
persona semplice, zeppa di superstizioni.
Ci informava delle
vicende del mondo e mi consigliava di abbandonare l'isola.
La mia scelta fu
difficile, ma necessaria: non volevo, non potevo
veder mio figlio
morire, come la sua mamma, dentro la nostra decorosa, ma fredda
abitazione di città.
Qui c'era aria pulita
e Luca non respirava il fumo del carbone.
Incominciai a
preoccuparmi della salute mentale del piccolo, quando mi accorsi che
trascorreva molte ore a fissare i campi incolti, l'edera e l'erica
del cortiletto: lì c'era una cappella e forse anche qualche
sepoltura.
La faccenda mi turbò
un po' e decisi di parlare con Luca: da troppo tempo io mi ero chiuso
nel mio dolore.
Leggevo, scrivevo,
oppure cercavo di sistemare il giardino, tagliando sterpi, potando
alberi.
La casa era male
ridotta, facevo quello che potevo per rallentare
la rovina finale.
Sistemavo il tetto,
per non far piovere dentro.
Prima o poi quella
lotta contro la natura selvaggia con il vento di mare e i rovi nemici
si sarebbe conclusa: quel tratto di terra asservita all'uomo sarebbe
terminata con il trionfo degli elementi.
Io combattevo una
guerra già persa in partenza.
Luca invece pareva già
passato al nemico: si trastullava al sole,
ma anche nella bufera.
Si arrampicava sugli
alberi come uno scoiattolo, correva all'aria
aperta e spesso si
gettava nei flutti del mare.
Le mie preoccupazioni
si erano affievolite: era sempre pallido e suoi lineamenti erano
sempre sottili.
Le braccia erano
scheletriche, ma non aveva più il colore grigio della malattia, coi
pomoli rossicci sulle gote.
Non aveva più
l'affanno della tisi, ma non era spensierato: i suoi occhi erano
malinconici.
Una sera, appena dopo
il tramonto, lo scorsi aggirarsi nel roseto
abbandonato, colse un
mazzo di rose rosse: le depose sulla terra nuda del cortile, dove
c'era la cappella.
Dialogava con quella
sua oscura visione.
Piangeva disperato,
gettandosi sui fiori, rosso cupo alla luce della sera.
Lo attesi nella stanza
del camino: un locale piccolo e confortevole, dove trascorrevamo le
serate in silenzio.
Gli chiesi senza
preamboli: -Cosa stavi facendo?-
-Ho deposto dei fiori
sulla mia tomba!-
Rimasi di ghiaccio, ma
cercai di celare la mia sorpresa: -Di che tomba parli? Quando starai
meglio ce ne andremo da questo luogo abbandonato da Dio!-
-E' Anselmo che mi ha
parlato della mia sepoltura: mi vuole proprio accanto a lui!-
Lasciai che il
discorso cadesse da solo: non volevo stimolare la
fantasia del ragazzo.
Fu per caso, un giorno
di inverno, che scoprii quel diario: era stato scritto da una donna
cento anni prima.
Lì aveva vissuto con
la sua famiglia ed era morta, forse era stata sepolta nel cortiletto
con i suoi cari.
Era stata gente
sfortunata: il primo a partire fu l'ultimo nato, poi toccò al padre
e alla bambinetta, tutta pepe di tre anni.
Rimasero solo lei e
Anselmo: quando scoprii che un Anselmo era esistito rimasi allibito.
Proseguii la lettura
del diario sino a quando pure lui, l'ultimo figlio si ammalò e morì,
a sei anni, l'età di Luca.
La madre concludeva il
suo diario, chiedendo preghiere per Lei e i suoi cari.
La superstizione stava
penetrando nella mia mente, anch'io temevo i fantasmi, io che ero
stato un uomo razionale, scettico, propenso all'ateismo.
Dovevo andarmene da
quel posto così tetro: alla fine dell'inverno non sarei rimasto un
giorno in più.
-Queste pagine del
diario del Signor Andrei sono le ultime con un po' di senno dal
povero uomo: a primavera fu ritrovato in stato confusionale dal
barcaiolo con i rifornimenti.
Il figlio era già
deceduto per il male sottile: Andrei l'aveva sepolto nel cortile,
accanto alle altre tombe. Lo sfortunato padre ripeteva che il suo
Luca era in giardino e stava giocando con Anselmo, il suo caro amico.
Andrei non vuole
andarsene dall'isola: desidera trascorrere gli ultimi suoi giorni
vicino alla tomba del figlio.
Sarebbe stato giusto
farlo ricoverare in manicomio, ma non ebbi
la forza di denunciare
la sua infermità all'autorità medica.
Il poveretto è sulla
sua isola e coglie rose per il suo bambino, in attesa di potergli
riposare accanto.-
racconto di Arduino Rossi
racconto di Arduino Rossi