10 set 2012

in Italia fantasmi ..... L'AMICO









L'AMICO

Il piccolo era solo, molto solo, non aveva compagni di gioco e così ne trovò uno.
Anselmo gli era sempre vicino: il bambino parlottava con lui, si confidava.
Era triste osservare che mio figlio avesse dovuto crearsi un amico immaginario per avere qualcuno con sui dividere le sue lunghe meste ore.
La casa era vasta, immersa nella boscaglia dell'isola, tra roveti fioriti, rose selvatiche, ortiche.
Le estati erano tiepide, gli inverni erano gelidi e nevosi.
Eravamo gli unici abitanti di quell'isoletta persa nel mare burrascoso del Nord.
Ero rimasto vedovo quando era nato Luca, mio figlio.
Luca aveva trascorso i sei anni della sua vita tra malanni e febbri.
Era alto per la sua età, biondo chiaro come sua mamma e con i polmoni sofferenti.
Aveva bisogno di mare, di sole e di aria pulita, ma il mio lavoro di impiegatuccio, di contabile di terza classe, non mi concedeva
di fare viaggi all'estero, in terre più calde e fortunate.
Fu un colpo di fortuna trovare quel lavoro da guardiano in questa enorme villa: i proprietari non volevano che tutto andasse alla malora.
Mi pagavano con quattro soldi, che depositano sul mio libretto in una banca.
Il vitto e qualche straccio per vestirci, con dei giocattoli consunti per Luca ce li portava la barca, una volta alla settimana d'estate.
Durante l'inverno l'isola restava irraggiungibile per le tempeste poderose che la assediavano.
Il pescatore, che aveva il compito di rifornirci di viveri, era un bravo uomo: era una persona semplice, zeppa di superstizioni.
Ci informava delle vicende del mondo e mi consigliava di abbandonare l'isola.
La mia scelta fu difficile, ma necessaria: non volevo, non potevo
veder mio figlio morire, come la sua mamma, dentro la nostra decorosa, ma fredda abitazione di città.
Qui c'era aria pulita e Luca non respirava il fumo del carbone.
Incominciai a preoccuparmi della salute mentale del piccolo, quando mi accorsi che trascorreva molte ore a fissare i campi incolti, l'edera e l'erica del cortiletto: lì c'era una cappella e forse anche qualche sepoltura.
La faccenda mi turbò un po' e decisi di parlare con Luca: da troppo tempo io mi ero chiuso nel mio dolore.
Leggevo, scrivevo, oppure cercavo di sistemare il giardino, tagliando sterpi, potando alberi.
La casa era male ridotta, facevo quello che potevo per rallentare
la rovina finale.
Sistemavo il tetto, per non far piovere dentro.
Prima o poi quella lotta contro la natura selvaggia con il vento di mare e i rovi nemici si sarebbe conclusa: quel tratto di terra asservita all'uomo sarebbe terminata con il trionfo degli elementi.
Io combattevo una guerra già persa in partenza.
Luca invece pareva già passato al nemico: si trastullava al sole,
ma anche nella bufera.
Si arrampicava sugli alberi come uno scoiattolo, correva all'aria
aperta e spesso si gettava nei flutti del mare.
Le mie preoccupazioni si erano affievolite: era sempre pallido e suoi lineamenti erano sempre sottili.
Le braccia erano scheletriche, ma non aveva più il colore grigio della malattia, coi pomoli rossicci sulle gote.
Non aveva più l'affanno della tisi, ma non era spensierato: i suoi occhi erano malinconici.
Una sera, appena dopo il tramonto, lo scorsi aggirarsi nel roseto
abbandonato, colse un mazzo di rose rosse: le depose sulla terra nuda del cortile, dove c'era la cappella.
Dialogava con quella sua oscura visione.
Piangeva disperato, gettandosi sui fiori, rosso cupo alla luce della sera.
Lo attesi nella stanza del camino: un locale piccolo e confortevole, dove trascorrevamo le serate in silenzio.
Gli chiesi senza preamboli: -Cosa stavi facendo?-
-Ho deposto dei fiori sulla mia tomba!-
Rimasi di ghiaccio, ma cercai di celare la mia sorpresa: -Di che tomba parli? Quando starai meglio ce ne andremo da questo luogo abbandonato da Dio!-
-E' Anselmo che mi ha parlato della mia sepoltura: mi vuole proprio accanto a lui!-
Lasciai che il discorso cadesse da solo: non volevo stimolare la
fantasia del ragazzo.
Fu per caso, un giorno di inverno, che scoprii quel diario: era stato scritto da una donna cento anni prima.
Lì aveva vissuto con la sua famiglia ed era morta, forse era stata sepolta nel cortiletto con i suoi cari.
Era stata gente sfortunata: il primo a partire fu l'ultimo nato, poi toccò al padre e alla bambinetta, tutta pepe di tre anni.
Rimasero solo lei e Anselmo: quando scoprii che un Anselmo era esistito rimasi allibito.
Proseguii la lettura del diario sino a quando pure lui, l'ultimo figlio si ammalò e morì, a sei anni, l'età di Luca.
La madre concludeva il suo diario, chiedendo preghiere per Lei e i suoi cari.
La superstizione stava penetrando nella mia mente, anch'io temevo i fantasmi, io che ero stato un uomo razionale, scettico, propenso all'ateismo.
Dovevo andarmene da quel posto così tetro: alla fine dell'inverno non sarei rimasto un giorno in più.

-Queste pagine del diario del Signor Andrei sono le ultime con un po' di senno dal povero uomo: a primavera fu ritrovato in stato confusionale dal barcaiolo con i rifornimenti.
Il figlio era già deceduto per il male sottile: Andrei l'aveva sepolto nel cortile, accanto alle altre tombe. Lo sfortunato padre ripeteva che il suo Luca era in giardino e stava giocando con Anselmo, il suo caro amico.
Andrei non vuole andarsene dall'isola: desidera trascorrere gli ultimi suoi giorni vicino alla tomba del figlio.
Sarebbe stato giusto farlo ricoverare in manicomio, ma non ebbi
la forza di denunciare la sua infermità all'autorità medica.
Il poveretto è sulla sua isola e coglie rose per il suo bambino, in attesa di potergli riposare accanto.-

racconto di Arduino Rossi