IL GIUDICE
L'aula giudiziaria era
calda, sudavano tutti sotto le nostre toghe, che il giudice Ferbis ci
obbligava a indossare.
Eravamo in luglio, in
quelle giornate afose, che fanno desiderare
le spiagge, il mare,
le montagne serene.
Invece eravamo
costretti a subire il cinismo sadico del nostro giudice, il più
introverso, stanco, vecchio magistrato della città: l'uomo che aveva
fatto tremare i peggiori criminale, l'uomo più fetente che avessi
mai avuto l'onore di conoscere.
Eravamo certi che
fosse pazzo, ma nessuno aveva il coraggio di
chiedere la
destituzione: era troppo potente e aveva conoscenza
in alto, tra i
politici governativi.
La gente lo
considerava un uomo senza pietà, forse spietato, ma
non conosceva il suo
spirito di contraddizione: aveva assolto dei pericolosi assassini con
tutte le prove di colpevolezza possibili per il caso.
Erano famose nel
tribunale le sue condanne originali: innocenti,
che il dibattimento
aveva escluso dalle responsabilità penali, senza alcun dubbio,
finivano condannati all'ergastolo o alla pena capitale.
Quante teste aveva
fatto tagliare Ferbis? Si dice molte, a decine, forse più di un
centinaio.
Assisteva a tutte le
esecuzioni con il suo sorriso sadico da folle.
Provava piacere a
veder saltare la testa sotto la mannaia del boia, suo vecchio amico
personale, che gli riservava il posto più
"panoramico"
per le esecuzioni.
Questo avveniva un
tempo, quando era più giovane ed era lui il giudice più potente e
temuto della città.
Era da tempo ormai che
Ferbis era stato affiancato da un secondo giudice, più pacato che lo
limitava negli eccessi e lo aiutava nelle procedure: Ferbis era un
vecchio che non si rammentava i codici di legge, scordava i capi di
imputazione.
Se fosse stato per lui
tutti sarebbero finiti sulla forca, anche un ladruncolo per fame.
Quel giorno estivo era
più arcigno del solito, voleva almeno una
pena capitale, un
povero disgraziato a cui far tagliare il collo.
Io ero l'avvocato di
un probabile condannato a morte.
Ero giovane e non
volevo perdere la prima causa importante della mia vita.
Tentai subito la
ricusazione della corte, ma servì solo a far esasperare il maledetto
magistrato.
Allora cercai di
dimostrare, con ogni mezzo, che il mio cliente fosse innocente: ci
riuscii con dati certi.
Non c'era più un
ragionevole dubbio, ma quel di giudice perverso sentenziò la pena di
morte.
Ero esasperato,
arrabbiato: avrei fatto ricorso e l'imputato sarebbe uscito
scagionato, ma sarebbe stata una riabilitazione postuma, perché
Ferbis avrebbe seguito la procedura d'urgenza per non farsi fuggire
la preda.
Parlai con il
condannato e gli promisi ciò che non potevo, ma lui
non si scompose:
-Avvocato! Ha fatto il possibile, era destino che finisse così! Non
si dia troppo pena, ormai si deve rassegnare, come ho già fatto io!-
Mi promise che si
sarebbe vendicato, ma ero convinto che il terrore della morte
prossima, a cui non pensava sino a poco prima, lo avesse fatto
impazzire.
Lo accompagnai al
patibolo: il condannato era sereno, indifferente, sembrava che
facesse una passeggiata.
Il giudice era lì
vicino, seduta con quel ghigno sadico che lo caratterizzava.
Il mio cliente non
smise mai di fissarlo e per la prima volta Ferbis abbassò la testa e
non guardò l'esecuzione.
Non so cosa avvenne
esattamente in seguito: si dice che il Giudice del diavolo avesse
intenzione di ritirarsi per motivi di salute.
Un mese dopo era in
pensione, eppure tutti avrebbero scommesso che Ferbis sarebbe morto
al suo posto, nell'aula della corte di assise.
Dopo le dimissioni
gironzolava attorno al tribunale e pareva totalmente mutato: sembrava
spaventato, anzi terrorizzato.
Si voltava spesso e
non rispondeva ai saluti.
Fu lui che mi cercò
una mattina nebbiosa, dopo le udienze, mentre tornavo al mio studio
con i miei pensieri.
Mi fermò ponendomi la
mano tremolante sulla spalla: -Avvocato! Avvocato, la prego! Ho
bisogno di lei, devo sapere!-
Fu per me una sorpresa
vedere il Giudice supplicarmi, quasi in lacrime.
Voleva sapere tutto,
passato e vita privata, del mio cliente, fatto morire innocente.
Mi chiese con ansia:
-Era un negromante? Uno stregone?....-
Per ciò che diceva
era dovuto al marasma senile: Ferbis parlava
come un logorroico,
cercando di capire qualcosa che per me era
frutto della sua
pazzia.
Quando poi mi
riferirono che si era arrampicato sul tetto del tribunale e rimanesse
lì a fissare il vuoto, non ebbi dubbi: il Giudice era uscito di
senno.
Rimase qualche minuto
in quella posizione precaria, tra lo sconcerto di tutti, giudici e
avvocati, che lo pregavano di scendere.
Si lasciò cadere e
volò senza lanciare un urlo, rigido come un manichino.
I pettegolezzi della
gente cercarono mille spiegazioni, ma una lettera mi spigò tutto.
Era di Ferbis, che
l'aveva scritta il giorno dell'insano gesto: -Sono disperato, mi
rimane solo la morte, sperando di trovare almeno dopo la pace.
Il suo cliente, dal
giorno dell'esecuzione, non mi lascia solo.
Si è posto accanto e
non dice nulla, mi fissa con quello sguardo
sadico, maligno
dell'ultimo suo istante. E' da mesi che non mi lascia: mi vuole
condurre con sé e temo che ormai abbia vinto lui!-
Tutto questo era
dovuto a una malattia degenerativa, tipica dei vecchi: non potevo
certamente credere a una spiegazione così folle.
Eppure la mia razione
e agnostica sicurezza svanì nel nulla: quando i presenti corsero
verso il cadavere del Giudice c'era un
fotografo di un
quotidiano locale.
Fu per caso che me ne
accorsi, rivedendo il giornale ingiallito con i commenti sul suicidio
del magistrato: accanto al corpo del
vecchio c'era lui! Sì!
Era proprio lui il mio cliente.
Nessuno lo aveva
visto, ma sulla pellicola la sua immagine si era impressa.
racconto di Arduino Rossi
racconto di Arduino Rossi