10 set 2012

di fantasmi storie . IL GIUDICE









IL GIUDICE

L'aula giudiziaria era calda, sudavano tutti sotto le nostre toghe, che il giudice Ferbis ci obbligava a indossare.
Eravamo in luglio, in quelle giornate afose, che fanno desiderare
le spiagge, il mare, le montagne serene.
Invece eravamo costretti a subire il cinismo sadico del nostro giudice, il più introverso, stanco, vecchio magistrato della città: l'uomo che aveva fatto tremare i peggiori criminale, l'uomo più fetente che avessi mai avuto l'onore di conoscere.
Eravamo certi che fosse pazzo, ma nessuno aveva il coraggio di
chiedere la destituzione: era troppo potente e aveva conoscenza
in alto, tra i politici governativi.
La gente lo considerava un uomo senza pietà, forse spietato, ma
non conosceva il suo spirito di contraddizione: aveva assolto dei pericolosi assassini con tutte le prove di colpevolezza possibili per il caso.
Erano famose nel tribunale le sue condanne originali: innocenti,
che il dibattimento aveva escluso dalle responsabilità penali, senza alcun dubbio, finivano condannati all'ergastolo o alla pena capitale.
Quante teste aveva fatto tagliare Ferbis? Si dice molte, a decine, forse più di un centinaio.
Assisteva a tutte le esecuzioni con il suo sorriso sadico da folle.
Provava piacere a veder saltare la testa sotto la mannaia del boia, suo vecchio amico personale, che gli riservava il posto più
"panoramico" per le esecuzioni.
Questo avveniva un tempo, quando era più giovane ed era lui il giudice più potente e temuto della città.
Era da tempo ormai che Ferbis era stato affiancato da un secondo giudice, più pacato che lo limitava negli eccessi e lo aiutava nelle procedure: Ferbis era un vecchio che non si rammentava i codici di legge, scordava i capi di imputazione.
Se fosse stato per lui tutti sarebbero finiti sulla forca, anche un ladruncolo per fame.
Quel giorno estivo era più arcigno del solito, voleva almeno una
pena capitale, un povero disgraziato a cui far tagliare il collo.
Io ero l'avvocato di un probabile condannato a morte.
Ero giovane e non volevo perdere la prima causa importante della mia vita.
Tentai subito la ricusazione della corte, ma servì solo a far esasperare il maledetto magistrato.
Allora cercai di dimostrare, con ogni mezzo, che il mio cliente fosse innocente: ci riuscii con dati certi.
Non c'era più un ragionevole dubbio, ma quel di giudice perverso sentenziò la pena di morte.
Ero esasperato, arrabbiato: avrei fatto ricorso e l'imputato sarebbe uscito scagionato, ma sarebbe stata una riabilitazione postuma, perché Ferbis avrebbe seguito la procedura d'urgenza per non farsi fuggire la preda.
Parlai con il condannato e gli promisi ciò che non potevo, ma lui
non si scompose: -Avvocato! Ha fatto il possibile, era destino che finisse così! Non si dia troppo pena, ormai si deve rassegnare, come ho già fatto io!-
Mi promise che si sarebbe vendicato, ma ero convinto che il terrore della morte prossima, a cui non pensava sino a poco prima, lo avesse fatto impazzire.
Lo accompagnai al patibolo: il condannato era sereno, indifferente, sembrava che facesse una passeggiata.
Il giudice era lì vicino, seduta con quel ghigno sadico che lo caratterizzava.
Il mio cliente non smise mai di fissarlo e per la prima volta Ferbis abbassò la testa e non guardò l'esecuzione.
Non so cosa avvenne esattamente in seguito: si dice che il Giudice del diavolo avesse intenzione di ritirarsi per motivi di salute.
Un mese dopo era in pensione, eppure tutti avrebbero scommesso che Ferbis sarebbe morto al suo posto, nell'aula della corte di assise.
Dopo le dimissioni gironzolava attorno al tribunale e pareva totalmente mutato: sembrava spaventato, anzi terrorizzato.
Si voltava spesso e non rispondeva ai saluti.
Fu lui che mi cercò una mattina nebbiosa, dopo le udienze, mentre tornavo al mio studio con i miei pensieri.
Mi fermò ponendomi la mano tremolante sulla spalla: -Avvocato! Avvocato, la prego! Ho bisogno di lei, devo sapere!-
Fu per me una sorpresa vedere il Giudice supplicarmi, quasi in lacrime.
Voleva sapere tutto, passato e vita privata, del mio cliente, fatto morire innocente.
Mi chiese con ansia: -Era un negromante? Uno stregone?....-
Per ciò che diceva era dovuto al marasma senile: Ferbis parlava
come un logorroico, cercando di capire qualcosa che per me era
frutto della sua pazzia.
Quando poi mi riferirono che si era arrampicato sul tetto del tribunale e rimanesse lì a fissare il vuoto, non ebbi dubbi: il Giudice era uscito di senno.
Rimase qualche minuto in quella posizione precaria, tra lo sconcerto di tutti, giudici e avvocati, che lo pregavano di scendere.
Si lasciò cadere e volò senza lanciare un urlo, rigido come un manichino.
I pettegolezzi della gente cercarono mille spiegazioni, ma una lettera mi spigò tutto.
Era di Ferbis, che l'aveva scritta il giorno dell'insano gesto: -Sono disperato, mi rimane solo la morte, sperando di trovare almeno dopo la pace.
Il suo cliente, dal giorno dell'esecuzione, non mi lascia solo.
Si è posto accanto e non dice nulla, mi fissa con quello sguardo
sadico, maligno dell'ultimo suo istante. E' da mesi che non mi lascia: mi vuole condurre con sé e temo che ormai abbia vinto lui!-

Tutto questo era dovuto a una malattia degenerativa, tipica dei vecchi: non potevo certamente credere a una spiegazione così folle.
Eppure la mia razione e agnostica sicurezza svanì nel nulla: quando i presenti corsero verso il cadavere del Giudice c'era un
fotografo di un quotidiano locale.
Fu per caso che me ne accorsi, rivedendo il giornale ingiallito con i commenti sul suicidio del magistrato: accanto al corpo del
vecchio c'era lui! Sì! Era proprio lui il mio cliente.
Nessuno lo aveva visto, ma sulla pellicola la sua immagine si era impressa.

racconto di Arduino Rossi