10 set 2012

horror ...IL GUERRIERO











IL GUERRIERO

Ci trovavamo all'aperto, per dialogare tra amici: nella piazza, accanto al cimitero, lontano dal borgo, nei prati.
Ogni luogo era valido e restavamo delle ore a chiacchierare, a scherzare, a borbottare.
Le ragazze erano l'argomento principale, poi c'era il lavoro: i campi da coltivare, le attività artigianali.
Invidia, stima, rancori e amicizia si confondevano, ma su tutto regnava le fedeltà al borgo di appartenenza e il cameratismo della giovinezza.
I raccolti erano buoni e nessuno soffriva la fame.
La serenità era diffusa e non c'erano timori, né pericoli: gli usci di casa erano socchiusi, i furti erano sconosciuti, le liti, le risse erano rare.
Si viveva in pace, ma un grande pericolo saliva dalla valle: un esercito invasore, di barbari feroci attaccava i villaggi.
Li saccheggiava, rapiva donne e ragazzi per farne dei servi.
Non osavo assediare i castelli, le rocche, o scontrarsi con le truppe ben armate, ma solo le milizie contadine, le fattorie isolate erano le loro prede.
Erano cavalieri abili, furbi, coraggiosi, decisi: arrivavano e compivano i loro crimini in pochissimo tempo, svanivano nei campi, nella boscaglia, quando giungevano i rinforzi degli altri villaggi.
Noi eravamo in alto e li avremmo visti salire, se avessero osato avanzare lungo la valle.
Invece si arrampicarono in piccoli gruppi dai monti, poi scesero tutti assieme, incendiando i casolari isolati, le baite sino alla prima abitazioni del villaggio.
Mi svegliarono le urla disperate della gente che fuggiva, delle donne seminude, inseguite da questi bruti, piccoli, scuri, dall'odore fetido.
Erano veri diavoli: agili e feroci, abili con le spade, precisi con le frecce.
Chi si opponeva non aveva scampo.
Il borgo bruciava, chi poteva si rifugiava nei boschi, io decisi di vendere cara la pelle.
Avevo una vecchia spada, forse appartenuta a mio nonno, mercenario, frecce per la caccia e una lancia.
Scoccai con precisione i primi dardi: caddero almeno sei assalitori, morti o moribondi.
Quelli non scherzavano e mi circondarono: volevano vendicarsi per le inaspettate perdite, mi ferirono per avermi in pugno ancora vivo.
Ero stato colpito agli arti dalle loro frecce, così non avrei potuto reagire, mi trascinarono sulla piazza legata e lì mi colpirono con le loro lance, le loro spade con cattiveria, ma mai nei punti vitali: dovevo vivere il più possibile.
Seppi ancora nuocere e ne lasciai a terra diversi, con le gole tagliate.
Il loro sadismo non servì: il sangue perso mi aveva reso fiacco,
spirai quasi subito.
Sul mio borgo crebbero gli sterpi, tutto fu coperto dalla vegetazione e pure le pietre scomparvero sotto le ortiche.
Non c'erano tracce del nostro passato, del mio eroismo vano.
Allora decisi di restare a vegliare, a difendere, sino alla fine dei tempi, la mia casa, le ossa dei miei cari, celate nella fossa comune, scavata da gente pietosa.
Tutte le notti soffia un vento freddo nel bosco del "Guerriero":
così fu chiamata quella selva tutta buche, crepacci, rocce, ruderi.
Io sono lì, con la mia spada, il mio arco e le frecce.
In molti mi hanno scorto, tanti sono fuggiti, altri hanno cercato di capire, sapere, ponendomi domande a cui non risposi.
La luce dell'alba mi scioglie e così posso tornare a riposare.
Io sono il guerriero triste, colui che vigila sui ricordi dei defunti: guai a coloro che cercano di commettere atti sacrileghi con i nostri resti mortali, vittime della brutalità di un tempo passato.

racconto di Arduino Rossi

news fantasmi .... LA DIMORA








LA DIMORA

Il fuoco bruciava lentamente il tronco antico quasi con compiacimento, nel largo camino.
Il vecchio si scaldava e fissava le fiamme che lambivano la cappa fumaria, scura come il suo umore.
La vecchia poltrona aveva ormai la stoffa logorata dal continuo agitarsi di generazioni di signori del palazzo.
Il vecchio trascorreva le notti sempre accanto al fuoco e lasciava che tutto scorresse attorno a sé: le voci, i sussurri, gli ululati spezzavano il nero della notte.
Il morire era dolce per chi aveva conosciuto il dolore dell'esistenza, ma la grande consolatrice non si degnava di venire da lui, il Signore delle mille terre, padrone della vallata rossa, dei colli azzurri dell'orizzonte, delle paludi molli e fangose, delle montagne brune con le rocce nere, sino alle cime perse tra le nubi.
Tutto ciò che si vedeva attorno era suo: il castello di granito era alto sopra la pianura umida, era forte e circondato dagli umori umidi della foresta che lo cingeva.
Il vecchio era stato un feroce feudatario: i contadini lo temevano come un diavolo.
Non aveva rispetto né della religione né dell'Inferno: strappava il cuore ai ribelli e lo gettava nelle fiamme, bruciava gli occhi a chi non abbassava lo sguardo in sua presenza.
Il fuoco bruciava nel petto del Signore: l'odio era da sempre l'unico sentimento.
Era furioso, arcigno: urlava, bastonava i servi per un nonnulla.
Le sue terre fruttavano molte ricchezze, l'ordine severissimo regnava: nessuno osava disobbedire e i contadini portavano al Signore il dovuto, secondo le leggi non scritte del feudo.
Le forche e le ruote della tortura erano sempre occupate dai cadaveri dei condannati a morte.
Di briganti in tutti i territori del Conte non si trovava neppure il ricordo: l'ultimo fu impiccato decenni prima e la sua fine fu così terribile da essere di esempio a molti.
L'ospite entrò nella sala del grande camino, leggero come un'ombra, scivolò rapido sino alle spalle del Conte: -Ti attendevo! Ti seguirò dove vuoi tu.-
L'intruso non rispose e rimase in piedi, avvolto nel mantello,
indifferente al calore del fuoco.
Il Conte gli porse una coppa divino, ma quello la rifiutò.
Il Conte sorrise, ma l'amarezza piegarono le labbra in una smorfia: -Sei venuto a riscuotere ciò che ti devo? E' la fine per la mia stirpe, sono l'ultimo. Sei soddisfatto? Sei dispiaciuto?......
Taci sempre!..... Pure io odio le parole, il chiasso e chi parla troppo.
In questa sala, quando ero un ragazzo ci furono delle feste: le dame e i cavalieri danzavano al suono dei pifferi, dei tamburi, delle ghironde. Io ti scorgevo aggirarti tra i convitati: solo io ti vedevo e sapevo cosa volevi tra quei festaioli.
Quando ti ponevi accanto a qualche vittima, come un corvo appollaiato sopra una carogna, il disgraziato aveva poco tempo da vivere. La sua ombra si confondeva con te, ombra nera, spettro, belva da sempre affamata.
Ti invitai in camera mia e assieme facemmo un patto: sarei divenuto l'erede di tutto, ultimo Conte delle mille terre, tutto sarebbe stato mio, dai monti innevati alle paludi, sino al bagnasciuga.
Sarei stato l'ultimo ad andarmene con te oltre le colline delle tenebre, quando il sole tramonta per non più sorgere.
Sei stato il mio unico amico fedele, non fui mai ingannato da te.
Per questo ti lascio erede di tutto il mio patrimonio e così sarà sino alla fine dei tempi, quando tu morirai.-

Così l'angelo nero, l'angelo della morte divenne Signore di un possente castello di dura roccia.
Un luogo sulla terra per riposare, lasciando per qualche ora ancora le anime morte, prima di condurle alla loro eterna dimora.
E' un luogo dove i muri risuonavano di singhiozzi, di rimpianti e
di rimorsi, ormai tardivi.

racconto di Arduino Rossi

contemporanea narrativa .... LA CANZONE DELL'IMPICCATO








LA CANZONE DELL'IMPICCATO

La musica mi è sempre piaciuta, in particolare il canto popolare dei cantastorie, ma quella canzone proprio non la sopportavo:
-Pende l'impiccato dal ramo! Pende e dondola al vento! Non c'è un cane per lui, non c'è pietà per l'uomo con la corda al collo!-
L'avevo ascoltata in un'osteria di paese, strillata da un gruppo di avvinazzati.
Vi assicuro che sono un uomo di fegato: non ho paura neppure del Diavolo, ma quella cantilena, accompagnata da una rozza gironda, mi fece venire i brividi.
Il mio lavoro di mercante mi conduceva spesso a viaggiare sulle strade solitarie, infestate da briganti, da orsi, da lupi.
Andavo sempre a piedi perché il commercio di gioielli non deve attirare l'attenzione dei ladri: vestivo come un pellegrino.
Dormivo nei conventi, nelle peggiori bettole o stavo all'aperto, se era necessario.
I miei clienti erano Signori e ricchi borghesi che mi conoscevano da anni: avevo trovato per loro le gemme più belle.
Le loro figlie, le loro mogli, le loro amanti erano state ornate dai miei rubini e zaffiri, dalle mie perle del mare arabo, dai miei smeraldi delle Americhe.
Avevo i prezzi più convenienti e possedevo le rarità più splendenti.
Alla mia età mi sarei potuto ritirare dagli affari, ma la passione al guadagno non mi permetteva di rinunciare a quei pericolosi viaggi in tutto il Regno.
A casa non c'era più nessuno che mi attendesse: l'unica figlia se ne era andata con un farabutto e non era più tornata.
Mia moglie era morta da anni e io non avevo che quella passione, quel mestiere che mi faceva sempre più ricco.
Non sapevo cosa farne del mio denaro: ne avevo tanto da poter soddisfare tutti i miei capricci, se ne avessi avuti.
Tutte le mie passioni erano passate: non avevo più desideri e ambizioni, il guadagno era fine a se stesso per me.
I briganti non mi conoscevano: li avevo sempre evitati.
Comunque vederli appesi agli alberi, fuori dalle città, dai villaggi, mi riempiva di gioia.
C'erano vecchie querce che erano pieni di cadaveri pendolanti, quando le guardie reali si decidevano a ripulire interi feudi dai numerosi fuorilegge.
Non erano tutti taglia gola, c'erano anche semplici ladruncoli, pure bambini che cercavano nei campi qualcosa per sopravvivere, per smorzare i morsi della fame.
Io non avevo pietà per nessuno: la legge doveva essere applicata in modo rigoroso, chi rubava doveva pagare il suo crimine.
I galantuomini dovevano tranquillamente svolgere i loro mestieri, i loro commerci, senza bambini che cercavano l'elemosina, tra i piedi.
Io li scacciavo a sassate quando pretendevano da me qualcosa per campare, rispondevo: -Tornate a casa vostra e se non avete una famiglia, una ciotola piena per la sera, andate all'inferno!-
Non li avevo messi io al mondo e non ero responsabile dei loro destini.
Diamine! Se una persona onesta come me avesse dovuto commuoversi per ogni pezzente che incontrava, si sarebbe trovato miserabile pure lui.
Sarei stato giudicato Santo dai frati, dal popolino, ma mi sarei dovuto accontentare di patate rancide, di acqua putrida, di stracci come vestiti.
La mia bella casa era là che mi attendeva, avevo i miei servi e tanto oro da far invidia a un sovrano.
Ero fornito di tutto: ero più ricco dei Pari del Regno.
Camminavo placido verso uno dei miei clienti più facoltosi: un Marchese che si era venduto terreni e castelli per coprire sua moglie di gemme.
Volevo proporgli una rarità: un grosso diadema tagliato da un abilissimo ebreo, incastonato tra pietre di molti colori.
Era qualcosa di magnifico: un dono da portare a un imperatore.
Ero preoccupato perché la notte avanzava e non scorgevo ancora il borgo dove speravo di trovare rifugio per la notte.
Mi sarei dovuto accontentare anche di un anfratto, di un pagliaio, di qualsiasi nascondiglio che mi proteggesse dalla pioggia.
Finalmente giunsi in una radura dove c'erano alcune costruzioni: era un villaggio abbandonato, c'erano ancora dei tetti e decisi di nascondermi lì.
Era sempre meglio che finire sotto un temporale estivo, particolarmente violento in quella stagione.
I lampi e i tuoni si scatenarono, così non mi rimase che dormire, chiuso nel mio mantello.
L'inferno pareva si fosse trasferito in cielo, sembrava una battaglia con bombarde e archibugi: non riuscii a chiudere occhio.
Mi alzai per curiosare fuori e nella piazzetta, appesa a un albero di noci lo scorsi: erano un impiccato che ballava sospinto dalla tempesta.
I lampi lo illuminavano e ne mostravano i lineamenti fini, le vesti eleganti.
Era un nobile, o un ricco, un giovane che era stato sicuramente appeso a quel ramo da briganti o da rivoltosi: in quelle terre si riunivano nei boschi per assaltare castelli, conventi, chiese.
Erano tempi difficili: i bifolchi non restavano al loro posto e non riconoscevano più il prestigio sociale.
Avrei voluto calare dalla forca quel poveraccio, ma ero solo: decisi di avvisare il Marchese, che sicuramente avrebbe dato degna sepoltura al giovane sfortunato.
Stavo pensando a tutto questo quando l'impiccato spalancò gli occhi e sospirò, poi rise fragorosamente.
Mi fissava con quel viso scarno e di marmo: cantò quella terribile canzone che avevo sentito nella taverna tempo prima.
Si rivolse a me: -Perché non mi togli da questa mia scomoda posizione?-
Mi avevano raccontato di fatti simili, ma non avevo mai voluto credere.
Invece i miei occhi erano ben aperti: quel morto mi parlava e aveva la cattiveria di un dannato.
Mi rammentai tutti i miei scongiuri, le preghiere per scacciare i diavoli, gli spettri, ma fu vano: non servirono
le mie giaculatorie, quello continuava a sghignazzare e a cantare.
Il mio ardimento era tanto e allora gli feci qualche domanda: -Chi sei? Cosa vuoi?-
-Non ti ricordi? Eppure siamo parenti! L'ultima volta che mi vedesti ero un bambino, quando scacciasti mia madre da casa tua. Lei pretendeva che tu mi riconoscessi, ma non volevi avere a che fare con un bastardo!-
-Chi ti ha impiccato?-
-Il Marchese! Io ero il capo dei briganti della regione: mi chiamavano il damerino per il mio vestito.-
Avevo sentito parlare di questo capo banda: era il più feroce il più audace tra i ladri di strada.
Il popolino lo considerava un eroe, mentre noi Signori eravamo terrorizzati da lui.
-Non eri mio figlio: potevi essere stato generato da qualsiasi mio servo. Non avresti fatto ciò che ai combinato: buon sangue non mente.-
-Paparino mio sei proprio un porco! Menti anche davanti all'inferno! Questo conta poco: ti sto attendendo! Mi devi fare compagnia.-
Era stato un brutto sogno, un'allucinazione forse.
Improvvisamente scomparve lui con la sua forca e rimase la piazzola vuota.
Tornai nel mio angolo a dormire.
La mattina dopo fui al palazzo del Marchese che mi accolse con riguardo, come sempre.
Gli mostrai il mio gioiello, ma questa volta fu sorpreso in modo strano.
Si rattristò e mi chiese: -Dove lo hai trovato?-
-Da un nobile, che se ne era liberato per debiti di gioco!-
Il Marchese non era convinto: -Questo gioiello era di mia moglie: le fu rubato quando i banditi di Damerino assaltarono la scorta e la rapirono. Io pagai un riscatto, ma non mi fu più riconsegnata.-
Ero nei guai, dovevo dimostrare la mia assoluta estraneità: era la prima volta che della merce di ricettazione finiva nelle mie mani.
-Marchese! Le assicuro che sono totalmente in buona fede! Ci conosciamo da anni, comunque non può dubitare di me. Sono invece felice di restituirle il prezioso, senza nulla in cambio.-
Il Marchese mi guardava ed era dubbioso: sapevo che mi avrebbe fatto impiccare se avesse sospettato una mia complicità nei furti del Damerino.
Se avesse saputo che quello sciagurato era mio figlio naturale sarei finito sicuramente appeso a un ramo del noce del giardino, dove rimanevano a marcire i corpi dei delinquenti catturati.
Dopo la morte della moglie il Marchese era diventato ombroso: decisi di andarmene la mattina successiva, ma prima volli vedere mio figlio naturale appeso.
Era bello, come lo avevo visto nella visione.
Mi assomigliava ed era stata una fortuna che il Nobile burbero non avesse capito il mio grado di parentela con quello sciagurato.
Da una mano cadde un anello, che io raccolsi: era il sigillo di famiglia, sottrattomi da sua madre anni prima.
All'alba me ne stavo uscendo dal portone principale, quando il Marchese mi chiamò: -Che fretta hai? Fuggi come un ladro!-
Mi sentii raggelare il sangue, ma cercai di mantenere la calma.
Quello mi fece perquisire e fu facile trovare l'anello con lo stemma.
Le mie spiegazioni non bastarono e alla fine dovetti ammettere di essere il padre di Damerino: fui innalzato accanto a mio figlio e anch'io canto al vento la canzone dell'impiccato.


racconto di Arduino Rossi

storie brevi ...LA PROCESSIONE









LA PROCESSIONE

Dopo il tramonto nessuno usciva: era la notte della processione.
Non c'era anima viva che si ricordasse, che avesse visto, ma io non potevo accontentarmi di così poco: volevo sapere, capire, toccare.
Il buio era denso, intenso: avanzavo con il cielo sopra di me, tanto grande e splendente da perdermi con la mente.
Il diavolo si porti la mia voglia di sapere e capire: non mi bastavano le spiegazioni su ciò che avveniva in quella notte.
Salii sino alla cima della collina calva: il vento tiepido della fine inverno mi soffiava sul viso tutta la mia voglia di libertà e la gioia di esistere che sentivo attorno a me.
Non conoscevo la paura: solo i vecchi e i bambini provavano timori, io ero diverso, ero un giovane ardimentoso, impetuoso, forse impulsivo, ma certamente dal vigore virile sufficiente a forzare la realtà.
Non erano degli spettri pezzenti a impedirmi di fare ciò che desideravo: io ero l'unico signore della notte, non mi avrebbero impedito di fare ciò che volevo.
Mi sarei addormentato tranquillo, con un filo d'erba da succhiare in bocca, le gambe accavallate meditando sulla sciocchezza superstiziosa del popolino.
Io ero un miscredente, agnostico, anzi scettico.
Non so quanto rimasi con gli occhi chiusi, ma vi giuro, non stavo sognando: erano lievi come lenzuola sospinte dal vento, erano tanti come una folla mai vista da essere umano.
Parevano il popolo del Giudizio Universale: erano tanti da giungere sino all'orizzonte.
Pregavano, ripetevano orazioni in mille lingue: in latino, in greco in particolare.
Le vecchiette affermavano che fossero gli spiriti del purgatorio: erano peccatori minori, o convertiti nell'ultima ora della vita.
Scambiavano preci con preci per accorciare il tempo della pena.
MI misi in fila anch'io e un tale malconcio, dal viso incartapecorito, mi dette una lunga torcia.
Mi sentivo a mio agio: ero l'ultimo di una lunga fila e inizia a pregare per me e per tutti quelli che conoscevo.
Era bello, era piacevole, non ero un frate, ma mi sarei volentieri messo il saio.


-Giuseppe detto il vagabondo è stato trovato morto sulla collina chiamata degli spettri.
Il medico legale ha stabilito che la causa del decesso era dovuta
a un collasso cardiaco, forse provocato da una forte emozione.-


racconti di Arduino Rossi

italiana narrativa ...SOTTO IL SOLE DEL MERIGGIO








SOTTO IL SOLE DEL MERIGGIO

Solo nel locale si poteva resistere al caldo di quell'ora pomeridiana: si beveva frullati a base di alcool e frutta, birra gelida in quantità. Da anni non avevo un imbarco: l'ultimo era stato quando in porto c'era ancora la banda dei contrabbandieri,
poi decimata dagli arresti dell'ultimo decennio.
Mi consideravo ancora un marinaio, nonostante il tempo trascorso a terra, nelle bettole, nei bordelli. Non avevo più bisogno di farmi bruciare dalla salsedine, farmi scavare il viso dal vento delle tempeste.
Non dovevo più rischiare la pelle sulle vecchie caffettiere del mare: sugli scafi zeppi di mercanzie di scarso valore, con il tanfo ripugnante delle stive putride, dove tutto marcisce e si consuma, compreso l'anima. Di soldi ne avevo parecchi, di amici pure, o almeno ne avrei avuti sino a quando il mio denaro sarebbe durato e quello non terminava: in molti mi avevano profetizzato che sarei rimasto senza un centesimo. Invece non finivo mai di sperperare, di offrire a tutti, di arricchire le prostitute del porto. In molti si chiedevano da dove provenisse la mia ricchezza e quanto fosse grande.
Erano nate alcune dicerie sul mio conto: si parlava di pirateria, di tesori nascosti, sino alla classica superstizione dell'anima data al diavolo.
Comunque neppure il mio denaro quel giorno poteva proteggermi dal sole eccezionale del pomeriggio: i raggi solari picchiavano su tutto, sulla mia testa, sul selciato, sui prati insecchiti, sulle reti e le barche all'asciutto. L'odore di pesce fresco mi infastidiva di più del solito: l'aria era immobile, i passanti pochi e assonnati.
Era là il mio amico: mi stava attendendo, mi avrebbe dato la mia parte ancora una volta, gli affari erano affari. Non parlò e mi fece
scivolare una manciata di fogli da cento nella tasca dei pantaloni: mi sorrise con scherno e si allontanò rapidamente. Per un mese me la sarei spassata, ma forse sarebbe stato l'ultimo affare della mia vita: ero vecchio e mi sarei ritirato.
La mia attività segreta era quella di spia della polizia ed ero il migliore del mio settore: andavo nei luoghi più malfamati e cercavo i malavitosi. Pagavo da bere e dopo qualche bicchiere quelli iniziavano le confidenze. Ero così abile a non farli sospettare che per anni ero stato considerato una tomba, un compagnone innocuo, un balordo di cui fidarsi, un bonaccione sincero. I tempi erano cambiati e i nuovi delinquenti erano diventati più astuti, più attenti: da tempo ero tenuto sotto controllo e rischiavo la pelle. Sapevo che la banda del Portobasso si stava preparando a farmi pagare una soffiata alla polizia, che era costata l'arresto di cinque loro componenti.
Infatti c'erano due sicari che mi stavano attendendo: il primo era il capo e l'altro era quello sciocco della sua guardia del corpo. Non avevo scampo.
Dove sarei fuggito? In mare su una nave non era possibile: ero troppo vecchio e troppo abituato alla vita di terra, placida e viziosa, per poter ancora accettare la fatica del mare, Non avevo più gli anni per poter godere gli spruzzi delle onde. Non sapevo più assaporare le albe, i tramonti lunghi e piatti di giorni monotoni con solo il rullio dello scafo di sottofondo.
Il capo banda si accostò a me con calma, mi mise il braccio attorno alla vita, come fossi una femmina. Mi sospinse verso le casupole degli scaricatori: il luogo dove regnava lui con i suoi uomini, veri topi delle stive.
Il guarda spalla mi fece sentire la punta del suo coltello nel fianco: -Vieni con noi, schifoso!-
-Andiamo all'osteria?-
Il capo rise: -Sì! Quella dell'inferno!-
Non avevo scampo, ma dovevo tentare qualcosa, feci il finto tonto: -Ragazzi, siete nervosi?-
-Non preoccuparti! Ci calmeremo dopo averti sistemato una volta per tutte, lurida spia!-
-Che state farneticando! Io ho sempre fatto gli affari mie!-
-Perché l'ispettore, l'ultimo arrivato, il carogna, ti ha ficcato tutti questi soldi in tasca?-
Mi avevano visto: quel pivello di sbirro si era fatto pedinare e mi aveva rovinato.
Pensai: -E' giusto che finisca così: sono sopravvissuto abbastanza e questi idioti mi stanno togliendo la preoccupazione di una vecchiaia di stenti.-
Mi attendevo la coltellata da un momento all'altro, poi mi avrebbero legato due sacchi di cemento ai piedi e gettato in acqua: i pesci e il mare mi avrebbero ben presto consumato. Più nessuno avrebbe sentito parlare di Sandro il fortunato.
Il colpo finale tardava ad arrivare e persi un po' la pazienza: -Decidetevi, lerci individui! Finitela!-
Invece mi colpirono con un pugno e allora fui io a reagire, rompendo i denti al capo con un bastone che avevo trovato poco prima. Erano due idioti: invece di concludere stavano ancora aspettando non si sa cosa e furono sorpresi dalla mia reazione.
La guardia del corpo tolse il coltello e mi ferì al ventre, ma non fu un colpo abile: ebbi il tempo di estrarre il mio rasoio, che avevo sempre con me e me ne servivo nelle risse. Gli tagliai la gola con un gesto deciso e me ne andai stringendo le mani sulla mia ferita,
che sanguinava abbondantemente. Sapevo che mi mancava poco a morire e nessuno mi avrebbe soccorso. Mi spinsi sulla spiaggia, verso il bagnasciuga e lì mi coricai, attendendo la mia morte.
Non sentivo più l'afa, il sole era appena tiepido, poi provai freddo. Gli occhi si stavano chiudendo, stavo perdendo i sensi.
Stavo crepando come un cane randagio, senza la compassione delle comari, senza il soccorso di un prete.
La mia anima era sozza, era inutile chiedere perdono a Dio per il male fatto: avevo colpe da poter essere schiacciato.
Ero della categoria peggiore: anche per Lui ero un Giuda e si sa, noi rinnegati venderemmo anche nostra madre per un po' di oro. Anche Gesù fu tradito da uno di noi. Potevo solo provare schivo di ciò che ero diventato e del mio mondo lurido, che stavo per lasciare. Il sole era alto e mi accecava, il sudore colava sugli occhi e la vista era confusa.
Lo vidi, era terribile, ma non provai paura: era giunto apposta per portarmi con sé.
Gli urlai: -Vattene! Mi avrai solo quando il sole sarà calato oltre l'orizzonte! Lasciami godere ancora la vista della mia baia, dove sono nato e cresciuto, dove voglio morire, tra gli odori del porto vecchio.-
Quello sorrise e scomparve. Avevo ancora qualche ora di vita, prima di dover consegnare la mia animaccia al Diavolo. Finalmente un po' di brezza dal mare mi portò il profumo delle onde, del vento al largo, dei miei anni migliori, spesi in cerca di avventure e di belle donne. In fondo la mia esistenza non era sempre stata il luridume degli ultimi anni: ero stato bambino anch'io, giovane e onesto, che erano parole strane e incomprensibili in un vecchio degenerato come me.
Stavo per pentirmi dei miei peccati? Stavo per imbrogliare il Diavolo? Il pensiero mi divertiva e provai a essere più scaltro del mio socio d'affari di un'intera vita: pregai, faticando molto, ma alla fine fui addirittura sincero.
Il timore della morte stava causando una strana metamorfosi in me.

-All'alba la polizia portuale ha rinvenuto il cadavere di Pauli Sandro: un fidato informatore della gendarmeria. Sicuramente questa volta la vendetta della malavita lo ha colpito. Il poveretto non è riuscito a sfuggire al suo destino, tipico di tutti le spie del porto vecchio, da sempre infestato dai peggiori criminali della città. In mano al morto è stato ritrovato un fiore bianco, stupendo, di pura seta: si ritiene che qualcuno abbia voluto fare un omaggio a questo vecchio disprezzato da tutti, ma non si sa chi abbia voluto compiere un gesto simile.
Si esclude totalmente l'autenticità del racconto di alcuni ubriaconi: parlano di un adolescente biondo, dal viso delicato e angelico, che è apparso, secondo loro, dal nulla. Ha posto tra le mani del vecchio il fiore ed è scomparso senza lasciare traccia.
Si tratta di una leggenda del porto, rivissuta da qualche beone in vena di fantasie: quando un grande peccatore si pente un angelo gli consegna, prima di morire, un fiore candido, simbolo del perdono del Cielo.-

racconti di Arduino Rossi


narrativa ... IL BUIO DELL'ALBA









IL BUIO DELL'ALBA

Camminare era il mio passatempo preferito: non avevo altro i quel borgo campagnolo, dove mi ero ritirato per trascorrere la vecchiaia.
Non avevo più interessi da tempo e dopo una giovinezza piena di avvenimenti, fatti entusiasmanti, avevo messo la testa a posto.
Fui assunto come impiegato ministeriale, grazie a un mio zio monsignore con appoggi a corte.
Ero un fedele suddito dell'Arciduca, Signore della mia regione, florida ed arretrata, dove ogni innovazione era vista con sospetto.
A vent'anni avevo partecipato a moti rivoluzionari, con la facilità e l'entusiasma dell'età: ero finito anche sulle barricate e solo per un miracolo non mi ero buscato qualche
palla in testa.
Molti miei compagni di studi, con i miei ideali, morirono combattendo o furono feriti e imprigionati nelle terribili segrete del palazzo reale.
I pochi che uscirono per la grazia dell'Arciduca, dopo anni,
erano delle larve umane: erano ammalati ai polmoni, con pochi anni davanti a sé.
Io invece feci carriera e presto passai nella Polizia segreta: da giovane rivoluzionario divenni spia e servitore del decadente sistema giudiziario, economico, politico di quel piccolo ridente Stato.
Sapevo che eravamo alla fine di un'epoca.
La storia è inesorabile: ciò che ha resistito per secoli può crollare in un solo giorno, quando un potere è così vecchio da non comprendere il nuovo che incalza.
Feci il mio dovere sino alla maturità avanzata: ero riuscito a far infiltrare un mio uomo in ogni gruppo eversivo.
Più che voler reprimere direttamente tutto e tutti, avrei dovuto far arrestare metà della popolazione del Ducato, mi limitavo a prevenire rivolte, complotti, attentati.
I miei metodi si fondavano sulla delezione, sul tradimento degli amici grazie alle minacce verso le famiglie.
Con la tortura e gli arresti segreti, ero riuscito a reggere il potere dell'Arciduca oltre ogni ottimistica previsione.
La famiglia regnante era composta da corrotti, viziosi, degenerati nobili principi che non si curavano dei fatti pubblici: erano interessati più ai divertimenti di corte, a soddisfare i loro capricci.
I lavori sporchi erano demandati ai ligi funzionari come me: la riscossione delle tasse e il mantenimento dell'ordine pubblico era un affare che non doveva interessare i nobili regnanti.
Sicuramente si sarebbero liberati di noi appena il loro potere sarebbe stato in pericolo, scaricando su noi tutte le colpe, tutte le responsabilità.
Chiesi e finalmente ottenni la mia uscita dal servizio con una magra pensione, con un discreto premio in denaro per i meriti conseguiti in tanti anni di fedeltà.
Lasciai ai miei subalterni il compito di dover patire le ire del popolo, quando questo si sarebbe rivoltato.
Ero il proprietario di una vasta tenuta, acquisita in modo illecito, con un esproprio a un ribelle fuggito all'estero.
Possedevo pure oro, gioielli e titoli che mi avrebbero permesso di cercare asilo in un paese straniero quando, eventualmente, le cose si fossero messe male.
Avevo parecchi nemici: in troppi mi avrebbero messo un laccio al collo per vendicare figli, mariti, padri da me fatti sparire in modo subdolo.
Quanti morti avevo sulla coscienza? Molti, tantissimi.
Diversi cospiratori non avevano resistito alle torture, altri erano rimasti sepolti vivi nelle segrete del palazzo del potere: una fortezza medioevale con vasti e intricati sotterranei dove svanivano gli oppositori più testardi, i caporioni più audaci.
La pace della campagna mi dava un po' di sollievo e cercavo di aver un buon rapporto con i villici: gente semplice e buona, ancora fedeli alla Chiesa e al potere dello stanco Arciduca.
Si parlava di semine, di fatti piccoli e grandi della comunità.
Io ero anche generoso con gli orfani e le vedere, con i poveretti e il parroco.
Questo modo di comportarmi mi aveva reso molto simpatico nel
borgo.
Fu grazie ai miei contadini che seppi in tempo della sommossa sanguinosa, in corso da giorni nella capitale: gli studenti erano tornati sulle barricate e le guardie erano fuggite, come all'epoca della mia rivoluzione fallita.
Da oltre confine si muovevano le valide truppe del nostro potente vicino, che veniva in soccorso di un potere così logoro da cadere a pezzi.
Invece di affrontare le truppe nemiche questa volta i rivoltosi si erano ritirate sulle colline.
Si erano riunite con gli uomini del principe democratico, traditore della nobiltà, che voleva diventare sovrano di tutti i ducati, di tutte le contee.
La battaglia decisiva si sarebbe combattuta vicino al mio borgo.
Fui ancora io a raccogliere informazioni fondamentali, che permisero alle truppe imperiali di sconfiggere e di rimandare alla prossima occasione la riscossa dei costituzionalisti.
Il potere restava assoluto ancora per poco, forse pochissimo.
Per me era importante morire suddito di un ducato antico e non vivere da cittadino di qualche repubblica, costretto a subire una democrazia ipocrita e ciarlona.
Tornai alle mie passeggiate, lunghe e salutari, che iniziavano all'alba.
Il sole spuntava appena oltre il confine dell'orizzonte e inondava le colline con i colori dell'autunno.
La piccola pianura, con al centro il borgo, era sovrastata dal campanile, dal castello ed era tutta gialla per le ultime messi.
Ero quasi felice per la vista di quel panorama la mattina che lo incontrai: era seduto su una pietra miliare della strada principale.
Mi fissava e sogghignava: era ancora giovane, sereno e colmo di quell'entusiasmo che portò con sé sul patibolo, quando urlò il mio nome di traditore e giurò che si sarebbe
vendicato anche da morto.
Fu lui a parlare per primo: -Come stai, Gianmarco? Spero bene!-
L'ultima volta lo avevo visto penzolare dalla forca: il mio coraggio e il mio cinismo furono messi a dura prova.
Mi ripresi, certo che avessi agito per una giusta causa: -Che vuoi? Ti vedo finalmente, hai mantenuto la promessa!-
-Ti fa piacere incontrarmi, caro amico?-
-No! Anima dannata!-
Paolo si strinse nelle spalle: -Dimenticavo! Tu sei un uomo giusto! Hai la coscienza linda! Tutto il sangue che hai fatto versare non ti pesa sull'anima, perché confessi ogni giorno questi orribili peccati!-
Quel maledetto sapeva cosa dicessi al mio confessore, che mi ripeteva: -Meriti sicuramente il Paradiso: hai agito solo a fin di bene, per la Chiesa e l'autorità costituita, contro i nuovi empi ideali politici.-
Avrei dovuto liberarmi dei miei beni, illecitamente ottenuti, dandoli a qualche ordine religioso o alla parrocchia, così non avrei avuto più colpe da scontare nell'altra vita.
Invece quello spirito inquieto di Paolo voleva mettere a dura prova la mia fede, la mia pace interiore a fatica ricomposta.
-Paolo! Sono pronto a far cantare per te qualche Santa Messa!-
-Come sei generoso, caro traditore! Non sai che questo non basta: i Giuda nell'Oltretomba dovranno pagare con dolori infiniti.-
-Non è vero, menti! Mi sono pentito amaramente delle mie colpe!-
Paolo iniziò a ridere come solo lui sapeva fare: in passato le sue risate mi avevano trascinato in momenti di schietta allegria, nelle bettole o nelle case di tolleranza per studenti goliardici.
La sua presenza durava pochi minuti prima dell'alba: l'ora più fosca secondo la tradizione popolare, quando gli spiriti incontrano i vivi.
Io non volevo dimostrarmi vigliacco, neppure davanti a uno spettro: mi presentavo poco prima dell'aurora, quando la luce si diffonde tenue e grigia.
Lui appariva con i primi raggi del sole, prendeva forma come un'ombra naturale: per me era così ovvia la sua presenza che lo considerai un conoscente con cui scambiare quattro chiacchiere.
Paolo non rinunciava al suo disprezzo: -Giuda! Cosa ti ha detto il tuo amico prete? Una Messa non basterà sicuramente! Per mettermi a tacere occorre altro! Lo sai bene che sono testardo.-
-Anima in pena, che vuoi ancora da me? Torna all'inferno!-
-Gianmarco, non essere scortese! Non è nel tuo stile. Stai perdendo la pazienza?-
Mi punzecchiava, mi tormentava.
Io non potevo rinunciare a lui come non si possono evitare le nostre cattive abitudini, che fanno tanto male alla salute del corpo e dell'anima.
Nel tempo ero diventato un pio osservante delle più rigide tradizioni religiose: in passato, se avessi saputo che mi sarei trasformato in un bigotto, mi sarei schernito, scandalizzato.
Gli anni, la paura della morte con tutte le vittime delle repressioni che tornavano spesso nei miei pensieri avevano operato quella trasformazione inaspettata.
Da cinico e materialista, opportunista davanti al potere della Chiesa, ero divenuto un accanito frequentatore di novene, di confraternite, attento a ogni segno del Cielo.
Invece l'unica prova datami dell'esistenza di qualcosa dopo la morte era quel macabro mio amico, sempre pronto a deridermi, a farmi sentire a disagio, a ricordarmi tutte le mie colpe.
Non mi rimase che donare tutto ciò che avevo, illecitamente posseduto o legalmente ereditato dalla mia famiglia, ai poveri.
In cambio ottenni una cella, la più umile, nel locale convento dei frati: mi concessero pure un pasto caldo e la promessa di un po' preci, dopo la mia morte.
Indossavo anch'io il saio e a piedi nudi, da penitente, tutte le mattine, all'alba, mi presentavo all'appuntamento da Paolo: -Hai visto che ora mi sono spogliato di tutto!-
-Gianmarco, speri che questo basti?-
-Se non basta, che devo fare ancora?-
Paolo scomparve, ma il suo sorriso mi rimase dentro: non era sarcastico come negli altri incontri.
Non mi tolsi dalla testa che forse il mio amico avesse ragione: non era sufficiente il mio pentimento, dovevo fare qualcosa per rimediare al male fatto.
Andai a piedi sino alla capitale e lì incominciai a denunciare tutte le mie colpe, chiedendo ad alta voce il perdono dei parenti delle vittime e quello di Dio.
La notizia che stessi svelando i crimini del potere si diffuse e giunse anche a corte: i miei ex-subalterni, che mi odiavano, pensarono bene di farmi arrestare e di pormi sotto processo.
Fu un giudizio sommario e rapido, oltre che a porte aperte: l'Arciduca aveva deciso di liberarsi di me e di scaricare su me le più gravi responsabilità dello Stato.
Fui condannato a morte, nonostante la mia condizione di penitente e di reo confesso: decisero di farmi impiccare al più presto per tapparmi la bocca una volta per tutte.
Nella mia cella c'era lui, Paolo, che ora era soddisfatto: -Forse sarebbe stato meglio per te non tradire: morire con il tuo onore, impiccato a vent'anni. Non preoccuparti per il dopo: hai terminato bene una vita sciagurata. E' solo questo che conta per loro, quando sarai di là!-
-Ho paura, Paolo! Mi accompagni?-
Mi prese sottobraccio e non fu necessario che le guardie mi trascinassero sino al nodo scorsoio: salii con un passo sicuro.
Mentre mi mettevano la corda al collo cantavo una vecchia canzone rivoluzionaria: quella che i giovani di quarant'anni prima avevano urlato, stonato sulle barricate, quando stavano per essere falciati dai cannoni caricati a mitraglia.

racconti di Arduino Rossi