10 set 2012

contemporanea narrativa .... LA CANZONE DELL'IMPICCATO








LA CANZONE DELL'IMPICCATO

La musica mi è sempre piaciuta, in particolare il canto popolare dei cantastorie, ma quella canzone proprio non la sopportavo:
-Pende l'impiccato dal ramo! Pende e dondola al vento! Non c'è un cane per lui, non c'è pietà per l'uomo con la corda al collo!-
L'avevo ascoltata in un'osteria di paese, strillata da un gruppo di avvinazzati.
Vi assicuro che sono un uomo di fegato: non ho paura neppure del Diavolo, ma quella cantilena, accompagnata da una rozza gironda, mi fece venire i brividi.
Il mio lavoro di mercante mi conduceva spesso a viaggiare sulle strade solitarie, infestate da briganti, da orsi, da lupi.
Andavo sempre a piedi perché il commercio di gioielli non deve attirare l'attenzione dei ladri: vestivo come un pellegrino.
Dormivo nei conventi, nelle peggiori bettole o stavo all'aperto, se era necessario.
I miei clienti erano Signori e ricchi borghesi che mi conoscevano da anni: avevo trovato per loro le gemme più belle.
Le loro figlie, le loro mogli, le loro amanti erano state ornate dai miei rubini e zaffiri, dalle mie perle del mare arabo, dai miei smeraldi delle Americhe.
Avevo i prezzi più convenienti e possedevo le rarità più splendenti.
Alla mia età mi sarei potuto ritirare dagli affari, ma la passione al guadagno non mi permetteva di rinunciare a quei pericolosi viaggi in tutto il Regno.
A casa non c'era più nessuno che mi attendesse: l'unica figlia se ne era andata con un farabutto e non era più tornata.
Mia moglie era morta da anni e io non avevo che quella passione, quel mestiere che mi faceva sempre più ricco.
Non sapevo cosa farne del mio denaro: ne avevo tanto da poter soddisfare tutti i miei capricci, se ne avessi avuti.
Tutte le mie passioni erano passate: non avevo più desideri e ambizioni, il guadagno era fine a se stesso per me.
I briganti non mi conoscevano: li avevo sempre evitati.
Comunque vederli appesi agli alberi, fuori dalle città, dai villaggi, mi riempiva di gioia.
C'erano vecchie querce che erano pieni di cadaveri pendolanti, quando le guardie reali si decidevano a ripulire interi feudi dai numerosi fuorilegge.
Non erano tutti taglia gola, c'erano anche semplici ladruncoli, pure bambini che cercavano nei campi qualcosa per sopravvivere, per smorzare i morsi della fame.
Io non avevo pietà per nessuno: la legge doveva essere applicata in modo rigoroso, chi rubava doveva pagare il suo crimine.
I galantuomini dovevano tranquillamente svolgere i loro mestieri, i loro commerci, senza bambini che cercavano l'elemosina, tra i piedi.
Io li scacciavo a sassate quando pretendevano da me qualcosa per campare, rispondevo: -Tornate a casa vostra e se non avete una famiglia, una ciotola piena per la sera, andate all'inferno!-
Non li avevo messi io al mondo e non ero responsabile dei loro destini.
Diamine! Se una persona onesta come me avesse dovuto commuoversi per ogni pezzente che incontrava, si sarebbe trovato miserabile pure lui.
Sarei stato giudicato Santo dai frati, dal popolino, ma mi sarei dovuto accontentare di patate rancide, di acqua putrida, di stracci come vestiti.
La mia bella casa era là che mi attendeva, avevo i miei servi e tanto oro da far invidia a un sovrano.
Ero fornito di tutto: ero più ricco dei Pari del Regno.
Camminavo placido verso uno dei miei clienti più facoltosi: un Marchese che si era venduto terreni e castelli per coprire sua moglie di gemme.
Volevo proporgli una rarità: un grosso diadema tagliato da un abilissimo ebreo, incastonato tra pietre di molti colori.
Era qualcosa di magnifico: un dono da portare a un imperatore.
Ero preoccupato perché la notte avanzava e non scorgevo ancora il borgo dove speravo di trovare rifugio per la notte.
Mi sarei dovuto accontentare anche di un anfratto, di un pagliaio, di qualsiasi nascondiglio che mi proteggesse dalla pioggia.
Finalmente giunsi in una radura dove c'erano alcune costruzioni: era un villaggio abbandonato, c'erano ancora dei tetti e decisi di nascondermi lì.
Era sempre meglio che finire sotto un temporale estivo, particolarmente violento in quella stagione.
I lampi e i tuoni si scatenarono, così non mi rimase che dormire, chiuso nel mio mantello.
L'inferno pareva si fosse trasferito in cielo, sembrava una battaglia con bombarde e archibugi: non riuscii a chiudere occhio.
Mi alzai per curiosare fuori e nella piazzetta, appesa a un albero di noci lo scorsi: erano un impiccato che ballava sospinto dalla tempesta.
I lampi lo illuminavano e ne mostravano i lineamenti fini, le vesti eleganti.
Era un nobile, o un ricco, un giovane che era stato sicuramente appeso a quel ramo da briganti o da rivoltosi: in quelle terre si riunivano nei boschi per assaltare castelli, conventi, chiese.
Erano tempi difficili: i bifolchi non restavano al loro posto e non riconoscevano più il prestigio sociale.
Avrei voluto calare dalla forca quel poveraccio, ma ero solo: decisi di avvisare il Marchese, che sicuramente avrebbe dato degna sepoltura al giovane sfortunato.
Stavo pensando a tutto questo quando l'impiccato spalancò gli occhi e sospirò, poi rise fragorosamente.
Mi fissava con quel viso scarno e di marmo: cantò quella terribile canzone che avevo sentito nella taverna tempo prima.
Si rivolse a me: -Perché non mi togli da questa mia scomoda posizione?-
Mi avevano raccontato di fatti simili, ma non avevo mai voluto credere.
Invece i miei occhi erano ben aperti: quel morto mi parlava e aveva la cattiveria di un dannato.
Mi rammentai tutti i miei scongiuri, le preghiere per scacciare i diavoli, gli spettri, ma fu vano: non servirono
le mie giaculatorie, quello continuava a sghignazzare e a cantare.
Il mio ardimento era tanto e allora gli feci qualche domanda: -Chi sei? Cosa vuoi?-
-Non ti ricordi? Eppure siamo parenti! L'ultima volta che mi vedesti ero un bambino, quando scacciasti mia madre da casa tua. Lei pretendeva che tu mi riconoscessi, ma non volevi avere a che fare con un bastardo!-
-Chi ti ha impiccato?-
-Il Marchese! Io ero il capo dei briganti della regione: mi chiamavano il damerino per il mio vestito.-
Avevo sentito parlare di questo capo banda: era il più feroce il più audace tra i ladri di strada.
Il popolino lo considerava un eroe, mentre noi Signori eravamo terrorizzati da lui.
-Non eri mio figlio: potevi essere stato generato da qualsiasi mio servo. Non avresti fatto ciò che ai combinato: buon sangue non mente.-
-Paparino mio sei proprio un porco! Menti anche davanti all'inferno! Questo conta poco: ti sto attendendo! Mi devi fare compagnia.-
Era stato un brutto sogno, un'allucinazione forse.
Improvvisamente scomparve lui con la sua forca e rimase la piazzola vuota.
Tornai nel mio angolo a dormire.
La mattina dopo fui al palazzo del Marchese che mi accolse con riguardo, come sempre.
Gli mostrai il mio gioiello, ma questa volta fu sorpreso in modo strano.
Si rattristò e mi chiese: -Dove lo hai trovato?-
-Da un nobile, che se ne era liberato per debiti di gioco!-
Il Marchese non era convinto: -Questo gioiello era di mia moglie: le fu rubato quando i banditi di Damerino assaltarono la scorta e la rapirono. Io pagai un riscatto, ma non mi fu più riconsegnata.-
Ero nei guai, dovevo dimostrare la mia assoluta estraneità: era la prima volta che della merce di ricettazione finiva nelle mie mani.
-Marchese! Le assicuro che sono totalmente in buona fede! Ci conosciamo da anni, comunque non può dubitare di me. Sono invece felice di restituirle il prezioso, senza nulla in cambio.-
Il Marchese mi guardava ed era dubbioso: sapevo che mi avrebbe fatto impiccare se avesse sospettato una mia complicità nei furti del Damerino.
Se avesse saputo che quello sciagurato era mio figlio naturale sarei finito sicuramente appeso a un ramo del noce del giardino, dove rimanevano a marcire i corpi dei delinquenti catturati.
Dopo la morte della moglie il Marchese era diventato ombroso: decisi di andarmene la mattina successiva, ma prima volli vedere mio figlio naturale appeso.
Era bello, come lo avevo visto nella visione.
Mi assomigliava ed era stata una fortuna che il Nobile burbero non avesse capito il mio grado di parentela con quello sciagurato.
Da una mano cadde un anello, che io raccolsi: era il sigillo di famiglia, sottrattomi da sua madre anni prima.
All'alba me ne stavo uscendo dal portone principale, quando il Marchese mi chiamò: -Che fretta hai? Fuggi come un ladro!-
Mi sentii raggelare il sangue, ma cercai di mantenere la calma.
Quello mi fece perquisire e fu facile trovare l'anello con lo stemma.
Le mie spiegazioni non bastarono e alla fine dovetti ammettere di essere il padre di Damerino: fui innalzato accanto a mio figlio e anch'io canto al vento la canzone dell'impiccato.


racconto di Arduino Rossi