LA CANZONE
DELL'IMPICCATO
La musica mi è sempre
piaciuta, in particolare il canto popolare dei cantastorie, ma quella
canzone proprio non la sopportavo:
-Pende l'impiccato dal
ramo! Pende e dondola al vento! Non c'è un cane per lui, non c'è
pietà per l'uomo con la corda al collo!-
L'avevo ascoltata in
un'osteria di paese, strillata da un gruppo di avvinazzati.
Vi assicuro che sono
un uomo di fegato: non ho paura neppure del Diavolo, ma quella
cantilena, accompagnata da una rozza gironda, mi fece venire i
brividi.
Il mio lavoro di
mercante mi conduceva spesso a viaggiare sulle strade solitarie,
infestate da briganti, da orsi, da lupi.
Andavo sempre a piedi
perché il commercio di gioielli non deve attirare l'attenzione dei
ladri: vestivo come un pellegrino.
Dormivo nei conventi,
nelle peggiori bettole o stavo all'aperto, se era necessario.
I miei clienti erano
Signori e ricchi borghesi che mi conoscevano da anni: avevo trovato
per loro le gemme più belle.
Le loro figlie, le
loro mogli, le loro amanti erano state ornate dai miei rubini e
zaffiri, dalle mie perle del mare arabo, dai miei smeraldi delle
Americhe.
Avevo i prezzi più
convenienti e possedevo le rarità più splendenti.
Alla mia età mi sarei
potuto ritirare dagli affari, ma la passione al guadagno non mi
permetteva di rinunciare a quei pericolosi viaggi in tutto il Regno.
A casa non c'era più
nessuno che mi attendesse: l'unica figlia se ne era andata con un
farabutto e non era più tornata.
Mia moglie era morta
da anni e io non avevo che quella passione, quel mestiere che mi
faceva sempre più ricco.
Non sapevo cosa farne
del mio denaro: ne avevo tanto da poter soddisfare tutti i miei
capricci, se ne avessi avuti.
Tutte le mie passioni
erano passate: non avevo più desideri e ambizioni, il guadagno era
fine a se stesso per me.
I briganti non mi
conoscevano: li avevo sempre evitati.
Comunque vederli
appesi agli alberi, fuori dalle città, dai villaggi, mi riempiva di
gioia.
C'erano vecchie querce
che erano pieni di cadaveri pendolanti, quando le guardie reali si
decidevano a ripulire interi feudi dai numerosi fuorilegge.
Non erano tutti taglia
gola, c'erano anche semplici ladruncoli, pure bambini che cercavano
nei campi qualcosa per sopravvivere, per smorzare i morsi della fame.
Io non avevo pietà
per nessuno: la legge doveva essere applicata in modo rigoroso, chi
rubava doveva pagare il suo crimine.
I galantuomini
dovevano tranquillamente svolgere i loro mestieri, i loro commerci,
senza bambini che cercavano l'elemosina, tra i piedi.
Io li scacciavo a
sassate quando pretendevano da me qualcosa per campare, rispondevo:
-Tornate a casa vostra e se non avete una famiglia, una ciotola piena
per la sera, andate all'inferno!-
Non li avevo messi io
al mondo e non ero responsabile dei loro destini.
Diamine! Se una
persona onesta come me avesse dovuto commuoversi per ogni pezzente
che incontrava, si sarebbe trovato miserabile pure lui.
Sarei stato giudicato
Santo dai frati, dal popolino, ma mi sarei dovuto accontentare di
patate rancide, di acqua putrida, di stracci come vestiti.
La mia bella casa era
là che mi attendeva, avevo i miei servi e tanto oro da far invidia a
un sovrano.
Ero fornito di tutto:
ero più ricco dei Pari del Regno.
Camminavo placido
verso uno dei miei clienti più facoltosi: un Marchese che si era
venduto terreni e castelli per coprire sua moglie di gemme.
Volevo proporgli una
rarità: un grosso diadema tagliato da un abilissimo ebreo,
incastonato tra pietre di molti colori.
Era qualcosa di
magnifico: un dono da portare a un imperatore.
Ero preoccupato perché
la notte avanzava e non scorgevo ancora il borgo dove speravo di
trovare rifugio per la notte.
Mi sarei dovuto
accontentare anche di un anfratto, di un pagliaio, di qualsiasi
nascondiglio che mi proteggesse dalla pioggia.
Finalmente giunsi in
una radura dove c'erano alcune costruzioni: era un villaggio
abbandonato, c'erano ancora dei tetti e decisi di nascondermi lì.
Era sempre meglio che
finire sotto un temporale estivo, particolarmente violento in quella
stagione.
I lampi e i tuoni si
scatenarono, così non mi rimase che dormire, chiuso nel mio
mantello.
L'inferno pareva si
fosse trasferito in cielo, sembrava una battaglia con bombarde e
archibugi: non riuscii a chiudere occhio.
Mi alzai per curiosare
fuori e nella piazzetta, appesa a un albero di noci lo scorsi: erano
un impiccato che ballava sospinto dalla tempesta.
I lampi lo
illuminavano e ne mostravano i lineamenti fini, le vesti eleganti.
Era un nobile, o un
ricco, un giovane che era stato sicuramente appeso a quel ramo da
briganti o da rivoltosi: in quelle terre si riunivano nei boschi per
assaltare castelli, conventi, chiese.
Erano tempi difficili:
i bifolchi non restavano al loro posto e non riconoscevano più il
prestigio sociale.
Avrei voluto calare
dalla forca quel poveraccio, ma ero solo: decisi di avvisare il
Marchese, che sicuramente avrebbe dato degna sepoltura al giovane
sfortunato.
Stavo pensando a tutto
questo quando l'impiccato spalancò gli occhi e sospirò, poi rise
fragorosamente.
Mi fissava con quel
viso scarno e di marmo: cantò quella terribile canzone che avevo
sentito nella taverna tempo prima.
Si rivolse a me:
-Perché non mi togli da questa mia scomoda posizione?-
Mi avevano raccontato
di fatti simili, ma non avevo mai voluto credere.
Invece i miei occhi
erano ben aperti: quel morto mi parlava e aveva la cattiveria di un
dannato.
Mi rammentai tutti i
miei scongiuri, le preghiere per scacciare i diavoli, gli spettri, ma
fu vano: non servirono
le mie giaculatorie,
quello continuava a sghignazzare e a cantare.
Il mio ardimento era
tanto e allora gli feci qualche domanda: -Chi sei? Cosa vuoi?-
-Non ti ricordi?
Eppure siamo parenti! L'ultima volta che mi vedesti ero un bambino,
quando scacciasti mia madre da casa tua. Lei pretendeva che tu mi
riconoscessi, ma non volevi avere a che fare con un bastardo!-
-Chi ti ha impiccato?-
-Il Marchese! Io ero
il capo dei briganti della regione: mi chiamavano il damerino per il
mio vestito.-
Avevo sentito parlare
di questo capo banda: era il più feroce il più audace tra i ladri
di strada.
Il popolino lo
considerava un eroe, mentre noi Signori eravamo terrorizzati da lui.
-Non eri mio figlio:
potevi essere stato generato da qualsiasi mio servo. Non avresti
fatto ciò che ai combinato: buon sangue non mente.-
-Paparino mio sei
proprio un porco! Menti anche davanti all'inferno! Questo conta poco:
ti sto attendendo! Mi devi fare compagnia.-
Era stato un brutto
sogno, un'allucinazione forse.
Improvvisamente
scomparve lui con la sua forca e rimase la piazzola vuota.
Tornai nel mio angolo
a dormire.
La mattina dopo fui al
palazzo del Marchese che mi accolse con riguardo, come sempre.
Gli mostrai il mio
gioiello, ma questa volta fu sorpreso in modo strano.
Si rattristò e mi
chiese: -Dove lo hai trovato?-
-Da un nobile, che se
ne era liberato per debiti di gioco!-
Il Marchese non era
convinto: -Questo gioiello era di mia moglie: le fu rubato quando i
banditi di Damerino assaltarono la scorta e la rapirono. Io pagai un
riscatto, ma non mi fu più riconsegnata.-
Ero nei guai, dovevo
dimostrare la mia assoluta estraneità: era la prima volta che della
merce di ricettazione finiva nelle mie mani.
-Marchese! Le assicuro
che sono totalmente in buona fede! Ci conosciamo da anni, comunque
non può dubitare di me. Sono invece felice di restituirle il
prezioso, senza nulla in cambio.-
Il Marchese mi
guardava ed era dubbioso: sapevo che mi avrebbe fatto impiccare se
avesse sospettato una mia complicità nei furti del Damerino.
Se avesse saputo che
quello sciagurato era mio figlio naturale sarei finito sicuramente
appeso a un ramo del noce del giardino, dove rimanevano a marcire i
corpi dei delinquenti catturati.
Dopo la morte della
moglie il Marchese era diventato ombroso: decisi di andarmene la
mattina successiva, ma prima volli vedere mio figlio naturale appeso.
Era bello, come lo
avevo visto nella visione.
Mi assomigliava ed era
stata una fortuna che il Nobile burbero non avesse capito il mio
grado di parentela con quello sciagurato.
Da una mano cadde un
anello, che io raccolsi: era il sigillo di famiglia, sottrattomi da
sua madre anni prima.
All'alba me ne stavo
uscendo dal portone principale, quando il Marchese mi chiamò: -Che
fretta hai? Fuggi come un ladro!-
Mi sentii raggelare il
sangue, ma cercai di mantenere la calma.
Quello mi fece
perquisire e fu facile trovare l'anello con lo stemma.
Le mie spiegazioni non
bastarono e alla fine dovetti ammettere di essere il padre di
Damerino: fui innalzato accanto a mio figlio e anch'io canto al vento
la canzone dell'impiccato.
racconto di Arduino Rossi