LA DIMORA
Il fuoco bruciava
lentamente il tronco antico quasi con compiacimento, nel largo
camino.
Il vecchio si scaldava
e fissava le fiamme che lambivano la cappa fumaria, scura come il suo
umore.
La vecchia poltrona
aveva ormai la stoffa logorata dal continuo agitarsi di generazioni
di signori del palazzo.
Il vecchio trascorreva
le notti sempre accanto al fuoco e lasciava che tutto scorresse
attorno a sé: le voci, i sussurri, gli ululati spezzavano il nero
della notte.
Il morire era dolce
per chi aveva conosciuto il dolore dell'esistenza, ma la grande
consolatrice non si degnava di venire da lui, il Signore delle mille
terre, padrone della vallata rossa, dei colli azzurri dell'orizzonte,
delle paludi molli e fangose, delle montagne brune con le rocce nere,
sino alle cime perse tra le nubi.
Tutto ciò che si
vedeva attorno era suo: il castello di granito era alto sopra la
pianura umida, era forte e circondato dagli umori umidi della foresta
che lo cingeva.
Il vecchio era stato
un feroce feudatario: i contadini lo temevano come un diavolo.
Non aveva rispetto né
della religione né dell'Inferno: strappava il cuore ai ribelli e lo
gettava nelle fiamme, bruciava gli occhi a chi non abbassava lo
sguardo in sua presenza.
Il fuoco bruciava nel
petto del Signore: l'odio era da sempre l'unico sentimento.
Era furioso, arcigno:
urlava, bastonava i servi per un nonnulla.
Le sue terre
fruttavano molte ricchezze, l'ordine severissimo regnava: nessuno
osava disobbedire e i contadini portavano al Signore il dovuto,
secondo le leggi non scritte del feudo.
Le forche e le ruote
della tortura erano sempre occupate dai cadaveri dei condannati a
morte.
Di briganti in tutti i
territori del Conte non si trovava neppure il ricordo: l'ultimo fu
impiccato decenni prima e la sua fine fu così terribile da essere di
esempio a molti.
L'ospite entrò nella
sala del grande camino, leggero come un'ombra, scivolò rapido sino
alle spalle del Conte: -Ti attendevo! Ti seguirò dove vuoi tu.-
L'intruso non rispose
e rimase in piedi, avvolto nel mantello,
indifferente al calore
del fuoco.
Il Conte gli porse una
coppa divino, ma quello la rifiutò.
Il Conte sorrise, ma
l'amarezza piegarono le labbra in una smorfia: -Sei venuto a
riscuotere ciò che ti devo? E' la fine per la mia stirpe, sono
l'ultimo. Sei soddisfatto? Sei dispiaciuto?......
Taci sempre!..... Pure
io odio le parole, il chiasso e chi parla troppo.
In questa sala, quando
ero un ragazzo ci furono delle feste: le dame e i cavalieri danzavano
al suono dei pifferi, dei tamburi, delle ghironde. Io ti scorgevo
aggirarti tra i convitati: solo io ti vedevo e sapevo cosa volevi tra
quei festaioli.
Quando ti ponevi
accanto a qualche vittima, come un corvo appollaiato sopra una
carogna, il disgraziato aveva poco tempo da vivere. La sua ombra si
confondeva con te, ombra nera, spettro, belva da sempre affamata.
Ti invitai in camera
mia e assieme facemmo un patto: sarei divenuto l'erede di tutto,
ultimo Conte delle mille terre, tutto sarebbe stato mio, dai monti
innevati alle paludi, sino al bagnasciuga.
Sarei stato l'ultimo
ad andarmene con te oltre le colline delle tenebre, quando il sole
tramonta per non più sorgere.
Sei stato il mio unico
amico fedele, non fui mai ingannato da te.
Per questo ti lascio
erede di tutto il mio patrimonio e così sarà sino alla fine dei
tempi, quando tu morirai.-
Così l'angelo nero,
l'angelo della morte divenne Signore di un possente castello di dura
roccia.
Un luogo sulla terra
per riposare, lasciando per qualche ora ancora le anime morte, prima
di condurle alla loro eterna dimora.
E' un luogo dove i
muri risuonavano di singhiozzi, di rimpianti e
di rimorsi, ormai
tardivi.
racconto di Arduino Rossi