IL GUERRIERO
Ci trovavamo
all'aperto, per dialogare tra amici: nella piazza, accanto al
cimitero, lontano dal borgo, nei prati.
Ogni luogo era valido
e restavamo delle ore a chiacchierare, a scherzare, a borbottare.
Le ragazze erano
l'argomento principale, poi c'era il lavoro: i campi da coltivare, le
attività artigianali.
Invidia, stima,
rancori e amicizia si confondevano, ma su tutto regnava le fedeltà
al borgo di appartenenza e il cameratismo della giovinezza.
I raccolti erano buoni
e nessuno soffriva la fame.
La serenità era
diffusa e non c'erano timori, né pericoli: gli usci di casa erano
socchiusi, i furti erano sconosciuti, le liti, le risse erano rare.
Si viveva in pace, ma
un grande pericolo saliva dalla valle: un esercito invasore, di
barbari feroci attaccava i villaggi.
Li saccheggiava,
rapiva donne e ragazzi per farne dei servi.
Non osavo assediare i
castelli, le rocche, o scontrarsi con le truppe ben armate, ma solo
le milizie contadine, le fattorie isolate erano le loro prede.
Erano cavalieri abili,
furbi, coraggiosi, decisi: arrivavano e compivano i loro crimini in
pochissimo tempo, svanivano nei campi, nella boscaglia, quando
giungevano i rinforzi degli altri villaggi.
Noi eravamo in alto e
li avremmo visti salire, se avessero osato avanzare lungo la valle.
Invece si
arrampicarono in piccoli gruppi dai monti, poi scesero tutti assieme,
incendiando i casolari isolati, le baite sino alla prima abitazioni
del villaggio.
Mi svegliarono le urla
disperate della gente che fuggiva, delle donne seminude, inseguite da
questi bruti, piccoli, scuri, dall'odore fetido.
Erano veri diavoli:
agili e feroci, abili con le spade, precisi con le frecce.
Chi si opponeva non
aveva scampo.
Il borgo bruciava, chi
poteva si rifugiava nei boschi, io decisi di vendere cara la pelle.
Avevo una vecchia
spada, forse appartenuta a mio nonno, mercenario, frecce per la
caccia e una lancia.
Scoccai con precisione
i primi dardi: caddero almeno sei assalitori, morti o moribondi.
Quelli non scherzavano
e mi circondarono: volevano vendicarsi per le inaspettate perdite, mi
ferirono per avermi in pugno ancora vivo.
Ero stato colpito agli
arti dalle loro frecce, così non avrei potuto reagire, mi
trascinarono sulla piazza legata e lì mi colpirono con le loro
lance, le loro spade con cattiveria, ma mai nei punti vitali: dovevo
vivere il più possibile.
Seppi ancora nuocere e
ne lasciai a terra diversi, con le gole tagliate.
Il loro sadismo non
servì: il sangue perso mi aveva reso fiacco,
spirai quasi subito.
Sul mio borgo crebbero
gli sterpi, tutto fu coperto dalla vegetazione e pure le pietre
scomparvero sotto le ortiche.
Non c'erano tracce del
nostro passato, del mio eroismo vano.
Allora decisi di
restare a vegliare, a difendere, sino alla fine dei tempi, la mia
casa, le ossa dei miei cari, celate nella fossa comune, scavata da
gente pietosa.
Tutte le notti soffia
un vento freddo nel bosco del "Guerriero":
così fu chiamata
quella selva tutta buche, crepacci, rocce, ruderi.
Io sono lì, con la
mia spada, il mio arco e le frecce.
In molti mi hanno
scorto, tanti sono fuggiti, altri hanno cercato di capire, sapere,
ponendomi domande a cui non risposi.
La luce dell'alba mi
scioglie e così posso tornare a riposare.
Io sono il guerriero
triste, colui che vigila sui ricordi dei defunti: guai a coloro che
cercano di commettere atti sacrileghi con i nostri resti mortali,
vittime della brutalità di un tempo passato.
racconto di Arduino Rossi
racconto di Arduino Rossi