12 set 2012

leggende di fantasmi .... LA LEGGENDA DEL LAGO MORO











LA LEGGENDA DEL LAGO MORO

Chi transita nei pressi del Lago Moro ne può apprezzare la bellezza, ma se è attento ne percepisce pure la tristezza languida, che il sole dei giorni più caldi riesce appena a mitigare.
Quello che oggi è una scura massa d'acqua, un tempo fu un verde
prato piano, attraversato da pigri ruscelli e colorato dai fiori dei limpidi stagni di montagna.
Ai bordi di quel piccolo pianoro, esistevano due case: nella prima abitava una vedeva ricca con un bambino grassoccio di pochi anni e nella seconda, al lato apposto, un'altra vedova campava poveramente con suo neonato.
La vita era stata crudele per le due donne: sembrava, per la miseria e per le ingiustizie sofferte, che il Cielo si fosse accanito contro di loro.
Però la ricca Gilda non aveva disdegnato l'uso dell'intrigo per ottenere i suoi scopi, al contrario la più povera, Elena, era rimasta sempre onesta e spesso pregava fiduciosa il Signore: -Mio Dio! L'esistenza qui sulla Terra è dura! Non lasciarci senza pane, mio figlio e io viviamo di quel poco che la tua provvidenza ci concede! Egli è innocente ed è troppo piccolo per soffrire!-
Elena filava la lana per un mercante della città, era pagata con quel tanto che bastava per sostenersi ed ella si accontentava.
Ammorbidiva i suoi giorni con tutte le piccole gioie che la sua fantasia le suggeriva: raccoglieva i delicati fiori che crescevano attorno alla sua baita, ornava la culla del suo piccolo e serena cantava le filastrocche imparate da bambina.
Quando il figlio si addormentava la madre lo guardava silenziosa e sognava per lui un futuro meno stentato del suo.
In mezzo a quei monti non aveva nessuno che l'aiutasse e non osava avvicinarsi all'altra casa, perché la ricca sua vicina un giorno le aveva istigato contro i cani.
Eppure Gilda aveva cuore e amava il proprio figlio, lo allevava con cura e gli parlava teneramente: -Dormi! Sogna sereno figlio mio bello! La tua mamma veglia su di te, nessuno ti farà del male! Cresci forte e sicuro, avrai tutto quello che vorrai e non saprai cosa significhi la miseria, come la conoscerà il meschino figlio di quella poveraccia!-
Il vento dell'inverno ghermiva gelido le due case, entrava nelle fessure delle pareti della baita di Elena e spegneva il piccolo fuoco; ella si affannava a ravvivarlo, poi prendeva dolcemente il bambino tra le braccia per scaldarlo.
Con il primo sole se ne andò il gelo e l'acqua ristagnava su tutto il pianoro, tra le ultime chiazze di neve e tra l'erba nuova i bucaneve spuntavano fitti.
Il freddo sparì e venne la breve estate montana: tutto si coprì di tenui colori armoniosi.
Il vento soffiava tranquillo e scivolava sui prati, agitando le corolle lanose dei "capelli delle streghe": l'unico fiore che attecchiva attorno alla casa di Gilda.
Ella era ogni giorno indaffarata nel valutare i suoi interessi: spettinata, perché non aveva tempo di badare a sé, sbrigava attiva le pratiche per incrementare il suo patrimonio.
Le rughe le avevano segnato il magro volto, rancore si era sommato a rancore negli anni difficili ed ella sfogava la sua bile sui più deboli.
I mendicanti non salivano dalle due donne, non valeva la fatica: una era troppo povera e l'altra troppo avara.
L'uomo, che si diresse alla baita di Elena, era uno strano accattone: il suo passo era lento, i suoi movimenti circospetti, quasi gentili.
Le vesti e l'aspetto erano di chi dormiva solitamente all'aperto e mangiava quello che il prossimo gli concedeva, ma i suoi occhi limpidi tradivano un dolore intimo, contenuto con dignità.
La pelle era troppo chiara per essere quella di un montanaro e il profilo fino del volto non era stato ancora guastato dagli stenti.
Egli bussò alla bicocca di Elena e la salutò con un sorriso: -E' da molto che non mangio! Se hai un po' di pane e di vino per me, Dio ti benedirà!-
-Buon uomo! Io ho appena il necessario per me e mio figlio!-
Elena rimase un istante pensierosa, poi rientrò, gli donò un pane e una ciotola di latte.
-E' tutto quello che ti posso dare! Dell'altro lo ruberei alla mia creatura!-
Il mendicante spezzò il pane e ne offrì alla donna: -Tieni! Il Signore di premierà per la tua generosità!-
La benedisse, ma non era il solito gesto frettoloso degli affamati: tranquillo egli infondeva serenità; bevve il latte come compisse un rito e si allontanò, lasciando Elena affascinata.
Attraversò il pianoro e davanti alla lussuosa casa di Gilda si arrestò ad ammirare i solidi muri e le merci abbondanti, ammucchiate fuori dal magazzino, che non le conteneva tutte.
Gilda lo vide e chiamò i cani: -Cosa vuoi, pezzente?-
-Dammi un po' di pane e di vino, Dio ti sarà riconoscente!-
Gilda rise sguaiata: -Il tuo Dio mi premierà? Mi sto ricompensando generosamente da sola! Quando gli chiesi aiuto non fece nulla per me e tu vuoi farmi credere che si ricorderà di me dopo la morte?-
Ella ordinò ai suoi cani di scacciare quel molesto forestiero, notandone lo sguardo inquietante.
I cani non abbaiarono come al solito, ma si avvicinarono latrando e si accucciarono miti ai piedi dello sconosciuto.
Ella li rimproverò aspramente e li avrebbe bastonati se non avesse temuto la reazione dello strano mendicante.
-Donna! Dammi del pane! Io ho fame di pane come la tua anima del perdono del Signore!-
-Vattene, o chiamerò i miei uomini, che ti daranno una lezione per la tua impertinenza!-
Scuotendo piano il capo, il forestiero si allontanò avvilito e pulì i suoi sandali dalla polvere: nulla di quella casa voleva portare con sé.
Fece solo pochi passi e scomparve in una luce abbagliante, ma Gilda era tropo cieca per accorgersene: rientrò, alzò le spalle, dimenticandosi dell'episodio.
Nessuna delle due donne aveva riconosciuto Gesù.
Alcuni giorni dopo il sole si oscurò improvvisamente, la terra vibrò mentre il vento tormentava il prato e minacciava anche le fondamenta della casa di Gilda.
Elena portò fuori il suo bambino, timoroso di un crollo improvviso della insicura baita.
Faticava a tenersi in piedi, i suoi capelli e gli abiti erano sbattuti dalla bufera, rami e sterpi la investivano.
Una voce possente come un tuono dall'alto la ammonì: -Vattene! Fuggi da questo luogo maledetto! Salva te e tuo figlio!-
Confusa ella non si decideva ad obbedire e stringeva disperata al petto il suo unico bene, intanto la vecchia baita rovinò al suolo in un solo lungo frastuono; Elena si fece forza sulle gambe tremanti, non sapendo dove si dirigeva.
Quel rumore spaventò i lavoratori di Gilda, che abbandonarono il magazzino, con l'istinto dei topi prima di un naufragio.
Gilda non udì nulla, quando rialzò lo sguardo non vide più nessuno e corse all'aperto.
Era troppo tardi e la terra cedeva sotto i suoi piedi, i muri si spaccarono e il tetto si squarciò; si aprirono larghe voragini nel terreno, il buio calò su di lei.
Il bambino piangeva e la madre si avvicinò alla culla, non ebbe il tempo di lanciare un urlo, l'acqua invase il pianoro: l'intera casa si inabissò tra i flutti nerastri.
I presenti terrorizzati udirono il lamento del bambino svanire lontano, come il fischio del vento che si smorza tra le rocce.
Il sole tornò al suo posto e la bufera si placò, l'acqua del nuovo lago si chiuse definitivamente, così agitato e tetro da non vederne le profondità.
Per molto tempo restò mosso, con i continui spruzzi che sterilivano le rive.
Gli anni lo calmarono, fiori e arbusti crebbero a filo d'acqua.
Il suo colore si schiarì, ma nelle giornate nebbiose, o quando la tempesta gli si accanisce contro, un lamento leggero, quasi impercettibile e una voce femminile si odono ancora: sono il pianto di un bambino e la voce di una donna che gli canta una nenia.
Può capitare che un raggio di sole penetri le nubi e si apra un varco fra le correnti, rendendole trasparenti: allora si vedrà sul fondo una donna triste che culla il suo bambino.
L'immagine durerà qualche istante, poi svanirà e il lago ricoprirà gelosamente il suo segreto.

racconto di Arduino Rossi

horror ..... MADRE E FIGLIO










MADRE E FIGLIO

Una piccolo uomo con l'abito nero conduceva alcuni conoscenti alla tomba di un loro sfortunato amico.
Rigirava nervosamente il cappello tra le mani e camminava tra la nebbia, che calava densa sulla pianura bergamasca.
L'uomo si arrestò davanti a una sepoltura recente e raccontò la tragica vicenda dell'amico scomparso: -Ad Alberto morì la moglie in gennaio, non si era mai ripresa dal travaglio del parto e dalla sua anemia era subentrata poca voglia di vivere.
In quella casa il parroco non era mai entrato, perché gli abitanti erano poco religiosi, ma dei parenti convinsero la moribonda a ricevere i Sacramenti.
Ella simulò una confessione, ma voi sapete quanto fosse restia a raccontare agli altri le proprie miserie.
Il prete tentò cautamente, ma senza risultato, di aprirle il cuore: ella aveva un fardello pesante sulla coscienza, ma era una donna cocciuta e non temeva l'Inferno, neppure in punto di morte.
Alberto, io lo dico a malincuore, fu preoccupato solamente di evitare pettegolezzi tra la gente durante il funerale.
Si finse disperato, pur pensando già di rifarsi una vita.
L'accompagnò all'ultimo viaggio in una mattina gelida, con il vento che sferzava i rari partecipanti.
Il bambino morì pochi giorni dopo: era gracile dalla nascita e il padre lo aveva accudito con poco amore.
Questa seconda sventura commosse tutti.
I bambini seguirono il feretro con i fiori di carta preparati da loro e al passaggio della piccola bianca bara gli uomini si toglievano il cappello.
Alberto portò il lutto per tutti i giorni comandati dalla tradizione e fu attento a non tradire la sua indifferenza.
Fece preparare la tomba di famiglia, per il figlioletto e per la moglie.
Tutti lo sconsigliarono di deporre la piccola creatura accanto alla madre; anche il parroco lo scongiurò di non rischiare un sacrilegio.
Alberto ben presto riprese la sua esistenza abituale e allegra.
Fu appunto dopo una serata di gozzoviglie che ebbe il primo misterioso avviso: la sua casa era ben chiusa e non c'erano i segni del passaggio di estranei eppure i fiori davanti al ritratto della moglie erano stati strappati e sparsi sul pavimento.
Egli non volle dare importanza al fatto, non volendo capire l'avvertimento.
In seguito continuarono gli scompigli inspiegabili dei fiori e delle immagini della moglie, senza che egli ne potesse scoprire il responsabile.
Una donna, addetta alle pulizie di quella casa, diffuse la voce di quei fatti misteriosi, che furono attribuiti alla defunta.
La curiosità crebbe e la gente evitò di avvicinarsi a quella casa, specialmente alla sera.
Quando poi gli scempi misero sottosopra la tomba, anche i più cauti pensarono che preannunciasse qualcosa di orribile.
Alberto evitava l'argomento e accusava i suoi nemici di desiderare la sua rovina.
Sebbene fosse un uomo coraggioso e incredulo, la notte era terrorizzato da strane voci, fra le quali distingueva quella tremolante della moglie.
Le anime dannate, sepolte accanto agli innocenti, si agitano disperate, perché subiscono maggiori tormenti.
La voce della morta si fece sentire sempre più chiaramente e una notte ella gli comparve: aveva il volto segnato orribilmente dal dolore, i suoi capelli erano irti e arruffati.
Pareva una vecchia strega, ma di lei rimaneva intatto lo sguardo autoritario e il sorriso ironico: -Lo sapevi che ero dannata e hai posto nostro figlio accanto a me per tormentarmi di più! Questo sacrilegio ti costerà l'anima, se non rimedierai al più presto!-
Poi scomparve, augurandogli di raggiungerla al più presto tra i tormenti.
Neppure il parroco comprese la fretta di Alberto di traslare la salma del suo figlioletto.
Alberto era un uomo mutato profondamente: era scontroso e misantropo, consumato dal rimorso, frequentava assiduamente la
chiesa.
Lo incontrai casualmente al cimitero, egli mi confidò la sua maledizione.
Non volli credergli e lo scongiurai di non cedere ai fantasmi della mente, ma egli mi lasciò senza rispondere, camminando a fatica tra la neve che cadeva fitta.
La mattina dopo fu ritrovato morto per il freddo, sulla tomba della moglie.

racconto di Arduino Rossi

maledette storie .. IL PONTE TRA LE SPINE










IL PONTE TRA LE SPINE

La vecchietta si sedette accanto al camino, attizzò il fuoco, si sfregò le mani e finalmente cominciò: -La povera Maria era molto buona e in paese tutti la stimavano! La sua sfortuna fu di non avere la dote, essendo di una famiglia molto povera.
Giovanni fu l'unico a chiederla in sposa e i genitori di lei acconsentirono.
Ella andò ad abitare con il marito nella cascina vicino al ponte, sul sentiero che da Santa Brigida porta a Valtorta, poco distante dalla desolata boscaglia del Sac.
Noi, le sue amiche, salivamo da lei per confortarla e consigliarla:
-Cara Maria, dovresti chiedere aiuto ai tuoi fratelli! Quest'uomo ti picchia senza ragione tutti i giorni e, così giovane, stai già sfiorendo.-
-Io non voglio che i miei parenti sappiano quello che accade a casa mia, poi essi non potrebbero fare nulla per me!-
Il marito si ubriacava tutte le sere; non lavorava e quel po' di beni, che aveva ereditato, li dissipava giorno dopo giorno.
Alla sera rientrando, passava sotto l'orrido del Sac; gli spettri che infestavano quel luogo lo chiamavano: -Vieni, Giovanni, con noi: questa sarà la tua casa!-
Egli bestemmiava e scagliava pietre contro di loro.
Alla cascina pretendeva di essere servito subito e mai una volta che fosse soddisfatto.
-Io ti ho sposata perché mi accontenti in tutto, ma tu non ne fai una giusta!-
La poveretta si scusava e lo scongiurava, ma veniva sempre bastonata crudelmente.
Là, al Sac, gli spiriti osservavano divertiti e lo incitavano a continuare.
Questi sono gli stessi esseri che escono nella notte dalle loro cavità e vanno dai cristiani per istigarli al peccato, o per mutare i loro sogni in incubi.
I sacerdoti più coraggiosi di Santa Brigida avevano tentato inutilmente di scacciarli dai loro anfratti, benedicendo quella selva intricata; quegli spiriti si consideravano a casa loro, tra quelle rocce frastagliate, immerse nelle sterpaglie sterili, dove le cornacchie e le civette fanno il nido.
Giovanni ritornava sempre più tardi alla sera e ormai picchiava selvaggiamente la moglie senza alcun pretesto.
Si era ingobbito e si esprimeva con versi quasi animaleschi.
Non temeva più i diavoli del Sac, anzi solo con loro si sentiva a suo agio e di ritorno dall'osteria sostava sino a notte tarda nella boscaglia, in compagnia delle anime dannate.
Il suo animo diveniva sempre più violento: litigava con tutti e partecipava a tutte le risse.
L'oste fu costretto a negargli il vino e la gente del paese, stanca delle sue angherie, lo scacciò.
Giovanni in astinenza fu più brutale di quando era ubriaco: salì alla cascina e si infuriò contro Maria.
La colpì con tutta la cattiveria di cui era capace, ma ella per la prima volta si ribellò: -Tu non sei un uomo, sei un diavolo: Torna dai tuoi amici dannati e lasciami in pace!-
Si difese scagliandogli contro tutto quello che riuscì a impugnare: lottò con disperazione e il marito la sopraffece a fatica. La martoriò con calci e con pugni, sino a farle perdere i sensi.
Smise solo quando fu sfinito, ma era intenzionato a farla a pezzi, se un'idea peggiore non gli fosse balenata nella mente allucinata: ansante per la sua follia di vendetta, egli la legò molto stretta con una corda nodosa e attese che rinvenisse.
Poi la trascinò sino al ponte, per dare a tutti prova della sua orrenda ferocia.
In quel momento una folata gelida uscì dalle cavità del Sac e gli tolse anche gli ultimi barlumi di ragione: egli appiccò il fuoco a un fascio di sterpaglie e le gettò sulla moglie.
Ella gridò, si divincolò tra atroci dolori; Giovanni la coprì di fogliame e di arbusti secchi per rinvigorire le fiamme.
Le urla della disgraziata si affievolirono tra lo scoppiettare delle cortecce umide.
Ella ormai non provava più alcun dolore e la sua immagine, finalmente serena, si consumava lentamente.
Per pochi minuti Giovanni ebbe coscienza del suo crimine: urlò il nome della moglie, quasi non credesse all'orrore compiuto.
Poi sfogò la sua rabbia angosciata in un turpiloquio sconnesso.
Frantumò, spezzò tutto ciò che trovò nella cascina; si ferì, ma non provò dolore.
Ormai era divenuto un povero demente e fuggì nei boschi, per non tornare più tra gli uomini.
Fu scorto vicino alle baite dei pastori e cercava tra l'immondizia qualcosa da mangiare, con gli abiti a brandelli e il viso coperto di cicatrici.
Da quel giorno, dopo i rintocchi dell'Angelus, su quel ponte fu visto il fantasma della donna aggirarsi, supplicando i viandanti ritardatari di aver pietà di lei.
La sventurata si mostrava piangente, con lo sguardo smarrito e il pallore lunare sul volto.
La sua voce era così leggera da confondersi con i fruscii della notte e un ricordo sfuocato rimaneva di lei.
I rovi crebbero attorno al ponte e si infittirono sempre più.
Fu inutile tagliarli o sradicarli, perché infoltivano maggiormente e avvolsero tutto il ponte, che fu denominato maledetto e più nessuno costruì la sua casa nelle vicinanze.-

La vecchietta concluse così e mi sorrise: aveva intuito che il cittadino incredulo era persuaso della verità del suo racconto.

Racconto di Arduino

zombie .... ESILIATO DAL CIMITERO













ESILIATO DAL CIMITERO

La signora Severina aveva sofferto molto durante la vita, ma si era conservata gioiosa come una ragazza: scherzava con me e il suo grosso corpo sussultava per le sue risate squillanti.
Però un giorno richiesi di raccontarmi una leggenda del paese, beffando l'ingenuità dei montanari; ella si offese e mi disse:
-I nostri vecchi vedevano veramente gli spiriti e non bisogna deridere la loro buona fede!-
La donnona si accomodò sullo sgabello e mi scrutò, poi mi narrò questa storia con espressione assorta: -Quando mio padre era giovane in paese, a Santa Brigida, c'era Michele, un eretico: non andava mai alla Santa Messa e alla dottrina; sparlava dei preti e dei Santi, si vantava delle sue bravate.
Insomma disprezzava la religione e i suoi santi simboli: bestemmiava furente tutte le volte che incontrava quel buonuomo
del parroco, che scuoteva il capo sconfortato e allungava il passo, fingendo di non udirlo.
Dal pulpito avvisava i fedeli del pericolo di aver in paese un miscredente di quella razza e invitava a pregare il Signore con più devozione.
Le punizioni del Cielo non si fecero attendere e colpirono l'intero paese: i raccolti vennero danneggiati, il bestiame si ammalò e la fame entrò in molte case.
Michele non si preoccupava della carestia, perché racimolava sempre qualcosa per vivere: era un esperto erborista e praticava la negromanzia a pagamento.
In alcune situazioni i montanari avevano bisogno della sua esperienza per gli ammalati, perché le prestazioni del farmacista erano troppo costose e poco efficaci.
La maggioranza della gente si accontentava di qualche intruglio contro il malocchio e le malattie, ma qualcuno perfido gli chiedeva anche fatture maligne.
In quegli anni in paese ci furono alcune morti misteriose: giovani nel pieno delle forze e bambini vivaci morirono improvvisamente.
L'eretico era un gran bevitore e trascorreva quasi tutta la giornata all'osteria.
Era circuita da una masnada di perditempo e li divertiva coi suoi sarcastici racconti: insinuava le più ingiuste calunnie nei confronti dei benefattori del paese e la sua volgarità non risparmiava le virtù delle donne per bene.
Durante una sbornia cadde agonizzante.
Il parroco fu avvisato prontamente e sperò di far ravvedere quell'anima nera: gli parlò con dolcezza e gli preannunciò la dannazione sicura se non si fosse pentito.
Michele in coma non rispose: fissava l'ostensorio quasi incantato.
Già la gente stava gridando al miracolo e si stava inginocchiando commossa, quando quel diavolo di eretico volle essere coerente sino alla fine alla sua personalità perversa: riprese colore e l'astio gli ridette la forza da spaventare il timido prete, che fuggì con gli oggetti sacri stretti fra le braccia.
Il moribondo maledisse l'intero paese e la sua onestà: stremato da quell'ultima sfuriata si spense con ghigno diabolico, rantolando e irrigidendosi nello sforzo dell'ultimo respiro.
Nonostante tutto, il parroco gli concesse un funerale cristiano e nella sua omelia parlò del perdono e disse: -Non giudicate!-
Il morto fu deposto nella terra consacrata.
Tutti protestarono per quel sacrilegio: un negromante non poteva essere sepolto accanto alle persone timorate di Dio.
Nella notte il suo cadavere fu visto camminare tra le tombe.
Pareva un misero demente: sbandava tra le lapidi, cercando un varco nel muro di cinta, o disperato allungava le braccia fuori dal cancello, invocando aiuto.
I primi testimoni non furono creduti, perché erano due ubriaconi, in seguito altre credibili persone videro l'eretico tentare di scavalcare il cancello; con una smorfia di dolore, egli lanciava angosciati lamenti.
Perché - spiegò Severina - i dannati sepolti in terra consacrata subiscono all'Inferno doppi tormenti e cercano di far traslare le loro salme fuori dal recinto sacro.
Il parroco benedì invano il cadavere, ma continuarono le fughe notturne del negromante.
Contro quel genere di peccatore un povero prete di montagna, nonostante le sue preghiere esorcistiche, era impotente.
Allora si chiuse a riflettere in canonica, camminando avanti e indietro, come un orso in gabbia, sfiduciato perché non sapeva riportare la tranquillità in paese.
Finalmente un vescovo esperto di esorcismi, abituato a tutti quegli orrori, giunse dalla città.
Affrontò risoluto il morto e gli si avvicinò a pochi metri: gli ordinò di rientrare nella fossa e di non disturbare i buoni cristiani.
Grazie a Dio, l'eretico si sottomise a quell'uomo della chiesa e da allora non si fece più sentire.
Il mattino dopo suonarono le campane a festa e tutti i compaesani
si riunirono alla Messa prima per ascoltare la predica di quel vescovo così severo e solenne.-
Quando ella ebbe terminato io fui rapito dalla sua ferma convinzione e rabbrividii: la mia incredulità era stata sconfitta.

racconto di Arduino Rossi

storie di fantasmi ... IL POZZO DI SAN PATRIZIO













IL POZZO DI SAN PATRIZIO

I pagani avevano mantenuto per molti anni, dopo il trionfo del cristianesimo, un cimitero, dove conservavano, in modo celato, i loro riti da idolatri.
Quando anche l'ultimo seguace delle divinità degli inferi si convertì alla giusta fede, quel luogo rimase abbandonato nella selva: solo gli animali rapaci si nascondevano tra le rovine delle tombe, tra le lapidi spezzate.
Fu presa la decisione di raggruppare tutti quei sarcofagi e gettarli in una cavità profondissima, in modo da non permettere agli adoratori di Satana di cantare qualche messa nera.
Di quella cavità, posta sopra una collinetta, nessuno vi fece caso sino a quando, da quella vasta voragine, non uscirono gli spettri in cerca di vendetta e con tanto rancore contro i cristiani.
Era sempre di notte: apparivano sulle ali di luce opaca, volavano fuori dalla cavità come zanzare dal nido e salivano, spalancando le loro fauci tremende, assetati di sangue e vita umana.
Erano esseri tenebrosi che bussavano alle porte delle case, cercando di insinuarsi nelle abitazioni delle persone per bene,portando odio, rancore, terrore, confusione nel cuore.
Fu presa la giusta decisione di coprire quell'apertura con un enorme macigno, trascinato da tutto il paese con corde e tronchi.
Con la chiusura della cavità la gente non si sentiva ancora tranquilla: fu costruito un santuario, sopra la collinetta, per mettere a guardia del luogo un Santo.
Fu prescelto San Patrizio, perché sarebbe stato il più adatto a impedire la fuga delle anime in pena: si temeva che dal pozzo, necessario per dare acqua al santuario, uscissero ancora i dannati.
Il luogo fu chiamato: la collina del pozzo di San Patrizio.
Non si ebbero miracoli come quelli che fece il Santo in Irlanda, sconfiggendo le carestie, facendo sgorgare l'abbondanza dal suo pozzo benedetto.
Comunque non ci furono più spettri che infastidirono le anime vive e fu sufficiente ringraziare il Santo con una solenne processione una volta all'anno.
Dal paese salivano i paesani sino alla collinetta, dove si ergeva il bel luogo sacro, con le sue arcate costruite sulla roccia.
Il rustico edificio romanico era stato abbellito da arcate e da una statua del Santo, dominante la vallata.
C'era sempre un'aria macabra alla sera attorno al luogo e la gente la evitava, temendo di incontrare qualche anima morta: il timore dei defunti è duro da sconfiggere tra i valligiani,nonostante l'aiuto del Cielo.
La tradizionale devozione verso il Santo affievolì nei secoli e la gente abbandonò il santuario al suo destino: per anni rimase disabitato e cadde in rovina, poi un vagabondo si rifugiò.
Il tetto era in parte crollato, la canonica accanto non aveva più porte né finestre, ma la chiesa resisteva ancora alle intemperie, al potente vento della valle, ai saccheggiatori occasionali.
L'ospite della chiesa di San Patrizio era un giovane un po' troppo magro per essere un eroe, forse anche un po' pazzo, ma certamente dal carattere audace.
Non erano certamente gli spettri a intimidirlo e, indifferente alle dicerie, andava nella cripta, dove c'era il pozzo, e lì dormiva.
Il brusio che si udiva alla bocca del pozzo lo infastidiva e, curioso, volle calarsi per capire di cosa si trattasse: non trovò nulla, se non una grande cavità che parve così immensa da non poter scovare il fondo.
Eppure il vociare lo aveva sentito chiaramente: forse era provocato da correnti d'aria sotterranea, o il flusso di aria calda che saliva e fredda che scendeva.
Forse era l'acqua che scorreva nel fondo.
Non gli rimase che risalire per quella volta, ma i paesani lo sconsigliarono di proseguire nelle sue ricerche: erano certi che quella grotta fosse l'anticamera dell'inferno.
Il vagabondo non volle ascoltar ragione e si arrischiò ancora, non tornando più.
Nei decenni altri giovani e meno giovani scomparvero dentro il pozzo di San Patrizio: un povero mentecatto, un cercatore di tesori, un archeologo, etc.
Nel paese non si trovò una squadra di volontari che potesse esplorare la cavità: c'erano sempre delle scusanti per non scendere in quella "bocca dell'inferno", come era stata ribattezzata.
Era inutile calarsi perché troppo stretto, perché pieno d'acqua.
In realtà non c'era motivo se non nel timore superstizioso: la gente credeva alle leggende dei loro padri e sapevano che prima o poi avrebbero visto la morte uscire da quel pozzo.
Un tempo gli anziani raccontavano che le pestilenze, la carestia, gli insetti dannosi alle messi provenivano da quel luogo.
Le sparizioni proseguirono: questa volta fu il turno dei ragazzini in cerca di avventura, di altri vagabondi, di fuggiaschi ricercati dalla giustizia, di innamorati decisi a farla finita.
Un vecchio continuava a ripetere: -Vedrete che torneranno tutti! Torneranno e allora piangeremo!-
Gli anni si sommavano a gli anni e degli scomparsi pure il ricordo svaniva: solo un elenco di nomi rimaneva nell'archivio della chiesa, anche quello sbiadito e ingiallito.
Cosa provocò la fine della protezione del Santo?
Chi tolse il sigillo alla bocca del pozzo?
Non lo si sa!
Si sospetta lo scherzo di cattivo gusto di qualche buontempone, o un collezionista di antichità, che scoprì la dicitura in latino, o semplicemente qualche ragazzotto un po' sciocco quanto incosciente.
Da quella notte a San Patrizio fu impossibile transitare dopo il tramonto senza imbattersi in morti che camminavano, in processioni di cadaveri, in larve dagli occhi di fuoco, assetate di sangue, dalla rabbia secolare compressa nelle membra scheletriche.
Fermare quella folla di dannati fuggiti dall'inferno era ormai impossibile: mancavano gli uomini coraggiosi, la fede era fiacca e la morte avanzava sulla terra, coprendo la vallata con un incubo della peggiore fantasia malata.
La piaga si dilatava come una malattia medioevale risorta ai giorni nostri: non era possibile credere a quei fatti, ogni persona di buon senso rideva delle paure dei montanari.
La valle fu scordata e con essa la bocca dell'inferno, posta nel santuario di San Patrizio, che avrebbe arrestato la morte se gli uomini si fossero ricordati di lui e del suo pozzo.
La luna ora illumina le ombre nella vallata e lo spettacolo delle tenebre si confondono con le anime che si celano nei boschi, con
i loro occhi tristissimi, la solitudine infinita della notte, il gelo del buio perpetuo.
L'immane potenza della natura selvatica e invincibile sovrasta il destino degli uomini senza meta.

racconto di Arduino Rossi

NOTIZIE NEWS ...... LO SCRITTORE




Del mio primo giorno di lavoro all'E.S.B.Z.A., ENTE di SOCCORSO e di BONIFICA delle ZONE ALLUVIONATE, ricordo, come fosse oggi, l'espressione bonaria del Ragioniere Morandi nello spiegarmi l'attività dell'ufficio: -E' stato istituto nel 1883, per effetto del Regio Decreto n.1318, per regolamentare i soccorsi e le sovvenzioni governative!-
La sua pacata formalità nascondeva un certo disappunto e io interpretai il suo pensiero: -E chi me l'ha mandato questo! Non conosce neppure la funzione dell'Ente!-
Imparai presto dal Ragioniere le principali regole del quieto vivere e del buon impiegato: -La prima cosa che esige il Direttore, Dottor Cattaneo, è la puntualità! Poi, un consiglio che ti do in confidenza, non sopporta le chiacchiere, specialmente nei corridoi. Il nostro è un ufficio aperto al pubblico e bisogna mantenere un certo contegno!-
Egli mi allettò subito con previsioni di carriera, convinto che soltanto chi lavora ed è abile può migliorare.
In quello aveva perfettamente ragione, perché solo i non
raccomandati faticavano per la carriera, gli altri iniziavano con già il massimo livello possibile per le loro capacità e per i loro meriti.
Io, Rodari Angelo, di "Santi in Paradiso" non ne avevo ed ero stato assunto per un colpo di fortuna.
Non dovevo favori a nessuno e ne ero orgoglioso, ma tra i colleghi nessuno mi stimava: per loro, una persona più aveva un potente protettore e più era importante.
Del loro vanto per posizioni non meritate non mi curavo e inoltre quel tipo di carriera non mi interessava, forse perché ero troppo presuntuoso e poco pratico.
Non ridevo alle insulse barzellette del Direttore, non lo ossequiavo servizievole: venni addetto all'archivio.
Per i miei colleghi era l'ultimo dei lavori, perché uno si sporcava le mani di polvere.
Io ero in realtà felice di questa incombenza, che impegnava tutta la mia abilità coordinativa e perfezionava il mio scarso senso dell'ordine.
Secondo gli psicologi, quasi tutto ciò che ci capita è voluto inconsciamente da noi: tutti i casi della vita hanno le loro motivazioni.
Io non ho mai creduto a una cattiva coscienza che causi tutti i nostri guai, ma se questo fosse vero un complesso di colpa è sicuramente il responsabile del mio interesse per gli archivi: soffro infatti di una brutta allergia alla polvere.
Possiedo un'anima da topo di biblioteca.
Con le mani irritate dalla polvere, accumulata in anni sugli scaffali, rovistavo in cerca di documenti e di mappe di valore storico.
Sfortunatamente l'Ente pro-alluvionati non ha nulla di interessante: abbiamo parecchio vecchiume, però gli odierni incartamenti sono compilati nel rispetto scrupoloso dello stesso stile fin dalla fondazione e solo le date differenziano l'antico dal moderno.
Silvia, la collega della stanza accanto, mi aveva richiesto
questi vecchi fogli: -Basta cambiare la data e risparmiamo ore di lavoro!-
Io rifiutai seccato e risposi che era vergognoso presentare una pratica ufficiale del 1889 e mutarla in una del 1989, aggiungendo alle cifre qualche zero per l'inflazione.
A sopraintendere il mio lavoro c'era il Geometra De Giovanni, gran chiacchierone e uomo dalla figura mastodontica, una vera rovina per lo sprovveduto che lo invitava al ristorante.
All'inizio lo temevo, mi fermava per i corridoi e mi avvisava preoccupato: -E' arrivato qualcosa che la riguarda! Venga nel mio ufficio che ne parliamo!-
Io andavo spaventato: non si sa mai cosa può capitare in un Ente Pubblico, un errore può finire come nulla in un provvedimento disciplinare.
Nello studio di De Giovanni il caos toccava il culmine: da lui non si ritrovava mai nulla di quanto occorresse.

La scrivania era coperta di pratiche e di riviste, alcune erano di genere pornografico: all'arrivo di qualcuno, egli si affrettava a nasconderle.
Con mio stupore le carte che mi riguardavano le rinveniva quasi subito e con esse ricomparivano parti di importanti procedimenti, accantonati perché incompleti.
-Guarda dove erano finiti! Si cerca, si cerca e li abbiamo sotto il naso! Ora parliamo della sua questione!-
Una qualsiasi sciocchezza era trasformata dal Geometra, Direttore Aggiunto, in un assillante problema: -Capisce! Bisogna rispondere con la massima urgenza a Roma!-
Col tempo imparai a considerare la Direzione Generale di Roma simile ad un drago cinese: insaziabile mostro, divoratore di enormi quantità di verbali, avvisi e solleciti.
Una brutta mattina entrai in ufficio, puntuale come al solito e percepii immediatamente un atteggiamento di ostilità contro di me, da parte dei miei colleghi.
La mia presenza li fece zittire e un'aria da tempesta aleggiò sopra la mia testa.
Qualcuno, al quale ero antipatico, mi salutò per la prima volta con ironia.
Silvia mi chiamò: -Il Dottor Cattaneo ti vuole immediatamente nel suo studio!-
Le mie gambe tremavano, sudavo senza essere accaldato e brividi febbrili mi attraversarono la schiena.
Ella mi pose una mano sulla spalla e mi costrinse a guardarla negli occhi: -Ma Bravo, da te ci si può aspettare di tutto!-
Fu l'ultima botta, ora qualsiasi cattiva notizia non avrebbe  causato un effetto peggiore.
Io amavo Silvia, con quella esasperata passione che allora caratterizzava ogni mio interesse.
Il mio sentimento si infrangeva contro incomprensioni e si disperdeva in goffi tentativi di corteggiamento.
Io ero più morto che vivo e il Direttore mi fece sedere, sospirando alcune volte rammaricato, poi spiegò la questione: -Da Roma è pervenuta una grave nota disciplinare nei suoi confronti!-
In sostanza una ditta aveva ricevuto il 10% in più del dovuto, perché non era stata valutata la sottrazione fiscale dell'ultimo Decreto Legge.
Io ero solo l'esecutore, le precisazioni sul caso le avevo
chieste direttamente al Direttore.
Ora mi consideravano l'unico responsabile, con il sospetto avallato dalla Commissione Disciplinare di "interesse privata in atti d'ufficio".
Il Dottor Cattaneo mi sorrise e mi accompagnò alla porta: -Vedrai che si aggiusterà in bene!-
Invece la vicenda prese subito la piega sbagliata e i miei
colleghi non persero tempo a chiudermi in un cerchio di
disprezzo, senza avere dubbi.
Il loro silenzio mi accusava più di qualsiasi biasimo: parlavo già con poche persone, essendo un po' misantropo e così ne soffrii poco.
Silvia replicò alle mie lamentele: -Ognuno ha quello che si merita! In fondo l'hai voluto tu. Sapevi che qui fanno cadere sugli altri le proprie responsabilità e tu hai lasciato che ti mettessero in trappola!-
Ella era l'unica che riconosceva la mia innocenza e mi
rinfacciava di essere un ingenuo.
Ero esasperato, volevo chiudere con le "cartacce" e con gli apatici miei colleghi.
Non avevo prospettive, ma l'idea di avere un avvenire incerto tanto mi spaventava quanto mi esaltava: l'ufficio era stato la tomba dei miei sogni di viaggi in paesi lontani e affascinanti.
Ora tutto nella mia mente era tornato possibile: avventure e anche disgrazie mi sarebbero capitate nel futuro, ma non un destino da impiegatuccio.
Ero appena rinato e stavo immaginando viaggi in India, percependo già i suoi "profumi", quando ricevetti un telegramma da parte della casa editrice "Alfiere Nero".
Inseguendo i miei sogni di successo, nei quali non credevo molto, le avevo spedito, poi dimenticandolo, un mio racconto ed essa mi invitava a un colloquio nella propria sede.
La fantasia era diventata realtà, un nuovo mondo colorato si spalancava davanti a me.
Con la gioia che mi scoppiava dentro non rimasi in casa, avevo bisogno di uscire e parlare da solo ad alta voce, come un pazzo: -Hai visto Angelo! Sei riuscito nei tuoi intenti! Cinque anni di ufficio sono finalmente conclusi, basta con l'obbedienza e con la paura nei capi!-
La gente mi guardava allibita, ma nella mia esuberanza nulla mi importava.
Telefonai a Silvia: -Ciao! Fra tante brutte notizie finalmente una buona! Vedrai che riuscirò a fare strada!-
Lei smorzò ogni mio entusiasmo, poi non si limitò alle solite parole di disappunto: -Io no ho mai dubitato delle tue capacità: ora rimani calmo e non crederti un genio! Non fantasticare! Se funzionerà sarà meglio per te!-
La sua freddezza mi riportava sempre in un angusto realismo.
Ormai ero già un po' deluso: telefonai ugualmente al capo
redattore di "Alfiere Nero".
-D'accordo! Giovedì alle 16, sarò puntuale!-
Sul treno il mio piccolo sogno si dissolveva, a mano a mano che mi avvicinavo.
Il puzzo della periferia industriale mi preannunciava quel
panorama privo di brio dei grandi edifici di pochi anni e già coperti di fuliggine, delle insegne pubblicitarie, delle lunghe recenti fabbriche e di vecchie fonderie abbandonate.
Nessuno è totalmente padrone dei suoi pensieri e quell'amaro sapore che ha la realtà divenne sostanza nelle mia mente.
Attraversai questa maledetta Milano nel suo caos, che lascia spesso allibito un povero provinciale come me. Scoprii il suo aspetto peggiore, con il suo flusso intenso di vita e negli angoli della metropolitana l'odore, lo sporco, tra giovani arabi e zingari mendicanti.
Quando fui presentato al capo redattore non mi attendevo nulla di straordinario: -Si accomodi! Dunque lei è?.....-
-Rodari, Rodari Angelo, quello del....-
-AH! Certo! No, non tema, non l'avevo scordato! Il suo lavoro è ottimo, con qualche modifica sarà perfetto!-
Egli mi riconsegnò il mio racconto con l'obbligo di un quasi completo rifacimento e forse, più avanti, lo avrebbe preso in considerazione.
Il Dottor Cattaneo, la mattina del giorno successivo, mi chiamò sorridente nel suo ufficio.
-Bene Rodari! Lei può star tranquillo! Finalmente è stata
appurata la sua completa estraneità, d'altra parte qui nessuno ne dubitava!-
Mi accompagnò sino alla porta dell'archivio, battendomi piano la mano sulla spalla: -Hai visto! Chi lavora onestamente alla fine non ha problemi!-
Io tentai di sorridergli, ma feci una triste smorfia.
Lo abbandonai senza dire una parola e ripresi il mio lavoro: lettere da scrivere a macchina, carte da riordinare e verbali da completare.
Io avevo vissuto sino ad allora nella luce della fantasia e
credevo che nessun burosauro mi avrebbe sconfitto.
Quello che era avvenuto in quella settimana era concluso e io riprendevo la mia solita attività, ma dentro di me si era
frantumato qualcosa: non ero più invincibile.
Mi potevo scacciare ingiustamente dal mio lavoro e gettare nella periferia, tra i rottami e nel fumo delle ciminiere.
I miei viaggi, mille volte invano progettati, si erano dissolti nel nulla.
-Ciao Silvia! Hai visto che tutto si è risolto!-
-Sono contenta per te!-
Quella sua indifferenza, che usava solo con me, mi raggelò, la verità dei suoi sentimenti nei miei confronti mi fu chiara: ella non provava nulla per me.
Fughe, amore e velleità letterarie erano apparse davanti ai miei occhi: parevano solide, ma erano svanite al primo impatto.
Abbandonai le mie speranze e vissi alla giornata.
Da allora fui bene accetto ai miei colleghi e i loro interessi furono i miei.
Oggi attendo la domenica per la partita dalla mia squadra, discuto con loro di belle donne, di motori, di gran premi automobilistici e non desidero nient'altro.



RACCONTO TRATTO DAL LIBRO "Gli statali. Gioie e dolori per il posto fisso”

Scritto da Arduino Rossi

Morpheo editore
– Narrativa

http://www.morpheoedizioni.it/Gli_Statali.htm