LA
LEGGENDA DEL LAGO MORO
Chi
transita nei pressi del Lago Moro ne può apprezzare la bellezza, ma
se è attento ne percepisce pure la tristezza languida, che il sole
dei giorni più caldi riesce appena a mitigare.
Quello
che oggi è una scura massa d'acqua, un tempo fu un verde
prato
piano, attraversato da pigri ruscelli e colorato dai fiori dei
limpidi stagni di montagna.
Ai
bordi di quel piccolo pianoro, esistevano due case: nella prima
abitava una vedeva ricca con un bambino grassoccio di pochi anni e
nella seconda, al lato apposto, un'altra vedova campava poveramente
con suo neonato.
La
vita era stata crudele per le due donne: sembrava, per la miseria e
per le ingiustizie sofferte, che il Cielo si fosse accanito contro di
loro.
Però
la ricca Gilda non aveva disdegnato l'uso dell'intrigo per ottenere i
suoi scopi, al contrario la più povera, Elena, era rimasta sempre
onesta e spesso pregava fiduciosa il Signore: -Mio Dio! L'esistenza
qui sulla Terra è dura! Non lasciarci senza pane, mio figlio e io
viviamo di quel poco che la tua provvidenza ci concede! Egli è
innocente ed è troppo piccolo per soffrire!-
Elena
filava la lana per un mercante della città, era pagata con quel
tanto che bastava per sostenersi ed ella si accontentava.
Ammorbidiva
i suoi giorni con tutte le piccole gioie che la sua fantasia le
suggeriva: raccoglieva i delicati fiori che crescevano attorno alla
sua baita, ornava la culla del suo piccolo e serena cantava le
filastrocche imparate da bambina.
Quando
il figlio si addormentava la madre lo guardava silenziosa e sognava
per lui un futuro meno stentato del suo.
In
mezzo a quei monti non aveva nessuno che l'aiutasse e non osava
avvicinarsi all'altra casa, perché la ricca sua vicina un giorno le
aveva istigato contro i cani.
Eppure
Gilda aveva cuore e amava il proprio figlio, lo allevava con cura e
gli parlava teneramente: -Dormi! Sogna sereno figlio mio bello! La
tua mamma veglia su di te, nessuno ti farà del male! Cresci forte e
sicuro, avrai tutto quello che vorrai e non saprai cosa significhi la
miseria, come la conoscerà il meschino figlio di quella poveraccia!-
Il
vento dell'inverno ghermiva gelido le due case, entrava nelle fessure
delle pareti della baita di Elena e spegneva il piccolo fuoco; ella
si affannava a ravvivarlo, poi prendeva dolcemente il bambino tra le
braccia per scaldarlo.
Con
il primo sole se ne andò il gelo e l'acqua ristagnava su tutto il
pianoro, tra le ultime chiazze di neve e tra l'erba nuova i bucaneve
spuntavano fitti.
Il
freddo sparì e venne la breve estate montana: tutto si coprì di
tenui colori armoniosi.
Il
vento soffiava tranquillo e scivolava sui prati, agitando le corolle
lanose dei "capelli delle streghe": l'unico fiore che
attecchiva attorno alla casa di Gilda.
Ella
era ogni giorno indaffarata nel valutare i suoi interessi:
spettinata, perché non aveva tempo di badare a sé, sbrigava attiva
le pratiche per incrementare il suo patrimonio.
Le
rughe le avevano segnato il magro volto, rancore si era sommato a
rancore negli anni difficili ed ella sfogava la sua bile sui più
deboli.
I
mendicanti non salivano dalle due donne, non valeva la fatica: una
era troppo povera e l'altra troppo avara.
L'uomo,
che si diresse alla baita di Elena, era uno strano accattone: il suo
passo era lento, i suoi movimenti circospetti, quasi gentili.
Le
vesti e l'aspetto erano di chi dormiva solitamente all'aperto e
mangiava quello che il prossimo gli concedeva, ma i suoi occhi
limpidi tradivano un dolore intimo, contenuto con dignità.
La
pelle era troppo chiara per essere quella di un montanaro e il
profilo fino del volto non era stato ancora guastato dagli stenti.
Egli
bussò alla bicocca di Elena e la salutò con un sorriso: -E' da
molto che non mangio! Se hai un po' di pane e di vino per me, Dio ti
benedirà!-
-Buon
uomo! Io ho appena il necessario per me e mio figlio!-
Elena
rimase un istante pensierosa, poi rientrò, gli donò un pane e una
ciotola di latte.
-E'
tutto quello che ti posso dare! Dell'altro lo ruberei alla mia
creatura!-
Il
mendicante spezzò il pane e ne offrì alla donna: -Tieni! Il Signore
di premierà per la tua generosità!-
La
benedisse, ma non era il solito gesto frettoloso degli affamati:
tranquillo egli infondeva serenità; bevve il latte come compisse un
rito e si allontanò, lasciando Elena affascinata.
Attraversò
il pianoro e davanti alla lussuosa casa di Gilda si arrestò ad
ammirare i solidi muri e le merci abbondanti, ammucchiate fuori dal
magazzino, che non le conteneva tutte.
Gilda
lo vide e chiamò i cani: -Cosa vuoi, pezzente?-
-Dammi
un po' di pane e di vino, Dio ti sarà riconoscente!-
Gilda
rise sguaiata: -Il tuo Dio mi premierà? Mi sto ricompensando
generosamente da sola! Quando gli chiesi aiuto non fece nulla per me
e tu vuoi farmi credere che si ricorderà di me dopo la morte?-
Ella
ordinò ai suoi cani di scacciare quel molesto forestiero, notandone
lo sguardo inquietante.
I
cani non abbaiarono come al solito, ma si avvicinarono latrando e si
accucciarono miti ai piedi dello sconosciuto.
Ella
li rimproverò aspramente e li avrebbe bastonati se non avesse temuto
la reazione dello strano mendicante.
-Donna!
Dammi del pane! Io ho fame di pane come la tua anima del perdono del
Signore!-
-Vattene,
o chiamerò i miei uomini, che ti daranno una lezione per la tua
impertinenza!-
Scuotendo
piano il capo, il forestiero si allontanò avvilito e pulì i suoi
sandali dalla polvere: nulla di quella casa voleva portare con sé.
Fece
solo pochi passi e scomparve in una luce abbagliante, ma Gilda era
tropo cieca per accorgersene: rientrò, alzò le spalle,
dimenticandosi dell'episodio.
Nessuna
delle due donne aveva riconosciuto Gesù.
Alcuni
giorni dopo il sole si oscurò improvvisamente, la terra vibrò
mentre il vento tormentava il prato e minacciava anche le fondamenta
della casa di Gilda.
Elena
portò fuori il suo bambino, timoroso di un crollo improvviso della
insicura baita.
Faticava
a tenersi in piedi, i suoi capelli e gli abiti erano sbattuti dalla
bufera, rami e sterpi la investivano.
Una
voce possente come un tuono dall'alto la ammonì: -Vattene! Fuggi da
questo luogo maledetto! Salva te e tuo figlio!-
Confusa
ella non si decideva ad obbedire e stringeva disperata al petto il
suo unico bene, intanto la vecchia baita rovinò al suolo in un solo
lungo frastuono; Elena si fece forza sulle gambe tremanti, non
sapendo dove si dirigeva.
Quel
rumore spaventò i lavoratori di Gilda, che abbandonarono il
magazzino, con l'istinto dei topi prima di un naufragio.
Gilda
non udì nulla, quando rialzò lo sguardo non vide più nessuno e
corse all'aperto.
Era
troppo tardi e la terra cedeva sotto i suoi piedi, i muri si
spaccarono e il tetto si squarciò; si aprirono larghe voragini nel
terreno, il buio calò su di lei.
Il
bambino piangeva e la madre si avvicinò alla culla, non ebbe il
tempo di lanciare un urlo, l'acqua invase il pianoro: l'intera casa
si inabissò tra i flutti nerastri.
I
presenti terrorizzati udirono il lamento del bambino svanire lontano,
come il fischio del vento che si smorza tra le rocce.
Il
sole tornò al suo posto e la bufera si placò, l'acqua del nuovo
lago si chiuse definitivamente, così agitato e tetro da non vederne
le profondità.
Per
molto tempo restò mosso, con i continui spruzzi che sterilivano le
rive.
Gli
anni lo calmarono, fiori e arbusti crebbero a filo d'acqua.
Il
suo colore si schiarì, ma nelle giornate nebbiose, o quando la
tempesta gli si accanisce contro, un lamento leggero, quasi
impercettibile e una voce femminile si odono ancora: sono il pianto
di un bambino e la voce di una donna che gli canta una nenia.
Può
capitare che un raggio di sole penetri le nubi e si apra un varco fra
le correnti, rendendole trasparenti: allora si vedrà sul fondo una
donna triste che culla il suo bambino.
L'immagine
durerà qualche istante, poi svanirà e il lago ricoprirà
gelosamente il suo segreto.
racconto di Arduino Rossi
racconto di Arduino Rossi