12 set 2012

leggende di fantasmi .... LA LEGGENDA DEL LAGO MORO











LA LEGGENDA DEL LAGO MORO

Chi transita nei pressi del Lago Moro ne può apprezzare la bellezza, ma se è attento ne percepisce pure la tristezza languida, che il sole dei giorni più caldi riesce appena a mitigare.
Quello che oggi è una scura massa d'acqua, un tempo fu un verde
prato piano, attraversato da pigri ruscelli e colorato dai fiori dei limpidi stagni di montagna.
Ai bordi di quel piccolo pianoro, esistevano due case: nella prima abitava una vedeva ricca con un bambino grassoccio di pochi anni e nella seconda, al lato apposto, un'altra vedova campava poveramente con suo neonato.
La vita era stata crudele per le due donne: sembrava, per la miseria e per le ingiustizie sofferte, che il Cielo si fosse accanito contro di loro.
Però la ricca Gilda non aveva disdegnato l'uso dell'intrigo per ottenere i suoi scopi, al contrario la più povera, Elena, era rimasta sempre onesta e spesso pregava fiduciosa il Signore: -Mio Dio! L'esistenza qui sulla Terra è dura! Non lasciarci senza pane, mio figlio e io viviamo di quel poco che la tua provvidenza ci concede! Egli è innocente ed è troppo piccolo per soffrire!-
Elena filava la lana per un mercante della città, era pagata con quel tanto che bastava per sostenersi ed ella si accontentava.
Ammorbidiva i suoi giorni con tutte le piccole gioie che la sua fantasia le suggeriva: raccoglieva i delicati fiori che crescevano attorno alla sua baita, ornava la culla del suo piccolo e serena cantava le filastrocche imparate da bambina.
Quando il figlio si addormentava la madre lo guardava silenziosa e sognava per lui un futuro meno stentato del suo.
In mezzo a quei monti non aveva nessuno che l'aiutasse e non osava avvicinarsi all'altra casa, perché la ricca sua vicina un giorno le aveva istigato contro i cani.
Eppure Gilda aveva cuore e amava il proprio figlio, lo allevava con cura e gli parlava teneramente: -Dormi! Sogna sereno figlio mio bello! La tua mamma veglia su di te, nessuno ti farà del male! Cresci forte e sicuro, avrai tutto quello che vorrai e non saprai cosa significhi la miseria, come la conoscerà il meschino figlio di quella poveraccia!-
Il vento dell'inverno ghermiva gelido le due case, entrava nelle fessure delle pareti della baita di Elena e spegneva il piccolo fuoco; ella si affannava a ravvivarlo, poi prendeva dolcemente il bambino tra le braccia per scaldarlo.
Con il primo sole se ne andò il gelo e l'acqua ristagnava su tutto il pianoro, tra le ultime chiazze di neve e tra l'erba nuova i bucaneve spuntavano fitti.
Il freddo sparì e venne la breve estate montana: tutto si coprì di tenui colori armoniosi.
Il vento soffiava tranquillo e scivolava sui prati, agitando le corolle lanose dei "capelli delle streghe": l'unico fiore che attecchiva attorno alla casa di Gilda.
Ella era ogni giorno indaffarata nel valutare i suoi interessi: spettinata, perché non aveva tempo di badare a sé, sbrigava attiva le pratiche per incrementare il suo patrimonio.
Le rughe le avevano segnato il magro volto, rancore si era sommato a rancore negli anni difficili ed ella sfogava la sua bile sui più deboli.
I mendicanti non salivano dalle due donne, non valeva la fatica: una era troppo povera e l'altra troppo avara.
L'uomo, che si diresse alla baita di Elena, era uno strano accattone: il suo passo era lento, i suoi movimenti circospetti, quasi gentili.
Le vesti e l'aspetto erano di chi dormiva solitamente all'aperto e mangiava quello che il prossimo gli concedeva, ma i suoi occhi limpidi tradivano un dolore intimo, contenuto con dignità.
La pelle era troppo chiara per essere quella di un montanaro e il profilo fino del volto non era stato ancora guastato dagli stenti.
Egli bussò alla bicocca di Elena e la salutò con un sorriso: -E' da molto che non mangio! Se hai un po' di pane e di vino per me, Dio ti benedirà!-
-Buon uomo! Io ho appena il necessario per me e mio figlio!-
Elena rimase un istante pensierosa, poi rientrò, gli donò un pane e una ciotola di latte.
-E' tutto quello che ti posso dare! Dell'altro lo ruberei alla mia creatura!-
Il mendicante spezzò il pane e ne offrì alla donna: -Tieni! Il Signore di premierà per la tua generosità!-
La benedisse, ma non era il solito gesto frettoloso degli affamati: tranquillo egli infondeva serenità; bevve il latte come compisse un rito e si allontanò, lasciando Elena affascinata.
Attraversò il pianoro e davanti alla lussuosa casa di Gilda si arrestò ad ammirare i solidi muri e le merci abbondanti, ammucchiate fuori dal magazzino, che non le conteneva tutte.
Gilda lo vide e chiamò i cani: -Cosa vuoi, pezzente?-
-Dammi un po' di pane e di vino, Dio ti sarà riconoscente!-
Gilda rise sguaiata: -Il tuo Dio mi premierà? Mi sto ricompensando generosamente da sola! Quando gli chiesi aiuto non fece nulla per me e tu vuoi farmi credere che si ricorderà di me dopo la morte?-
Ella ordinò ai suoi cani di scacciare quel molesto forestiero, notandone lo sguardo inquietante.
I cani non abbaiarono come al solito, ma si avvicinarono latrando e si accucciarono miti ai piedi dello sconosciuto.
Ella li rimproverò aspramente e li avrebbe bastonati se non avesse temuto la reazione dello strano mendicante.
-Donna! Dammi del pane! Io ho fame di pane come la tua anima del perdono del Signore!-
-Vattene, o chiamerò i miei uomini, che ti daranno una lezione per la tua impertinenza!-
Scuotendo piano il capo, il forestiero si allontanò avvilito e pulì i suoi sandali dalla polvere: nulla di quella casa voleva portare con sé.
Fece solo pochi passi e scomparve in una luce abbagliante, ma Gilda era tropo cieca per accorgersene: rientrò, alzò le spalle, dimenticandosi dell'episodio.
Nessuna delle due donne aveva riconosciuto Gesù.
Alcuni giorni dopo il sole si oscurò improvvisamente, la terra vibrò mentre il vento tormentava il prato e minacciava anche le fondamenta della casa di Gilda.
Elena portò fuori il suo bambino, timoroso di un crollo improvviso della insicura baita.
Faticava a tenersi in piedi, i suoi capelli e gli abiti erano sbattuti dalla bufera, rami e sterpi la investivano.
Una voce possente come un tuono dall'alto la ammonì: -Vattene! Fuggi da questo luogo maledetto! Salva te e tuo figlio!-
Confusa ella non si decideva ad obbedire e stringeva disperata al petto il suo unico bene, intanto la vecchia baita rovinò al suolo in un solo lungo frastuono; Elena si fece forza sulle gambe tremanti, non sapendo dove si dirigeva.
Quel rumore spaventò i lavoratori di Gilda, che abbandonarono il magazzino, con l'istinto dei topi prima di un naufragio.
Gilda non udì nulla, quando rialzò lo sguardo non vide più nessuno e corse all'aperto.
Era troppo tardi e la terra cedeva sotto i suoi piedi, i muri si spaccarono e il tetto si squarciò; si aprirono larghe voragini nel terreno, il buio calò su di lei.
Il bambino piangeva e la madre si avvicinò alla culla, non ebbe il tempo di lanciare un urlo, l'acqua invase il pianoro: l'intera casa si inabissò tra i flutti nerastri.
I presenti terrorizzati udirono il lamento del bambino svanire lontano, come il fischio del vento che si smorza tra le rocce.
Il sole tornò al suo posto e la bufera si placò, l'acqua del nuovo lago si chiuse definitivamente, così agitato e tetro da non vederne le profondità.
Per molto tempo restò mosso, con i continui spruzzi che sterilivano le rive.
Gli anni lo calmarono, fiori e arbusti crebbero a filo d'acqua.
Il suo colore si schiarì, ma nelle giornate nebbiose, o quando la tempesta gli si accanisce contro, un lamento leggero, quasi impercettibile e una voce femminile si odono ancora: sono il pianto di un bambino e la voce di una donna che gli canta una nenia.
Può capitare che un raggio di sole penetri le nubi e si apra un varco fra le correnti, rendendole trasparenti: allora si vedrà sul fondo una donna triste che culla il suo bambino.
L'immagine durerà qualche istante, poi svanirà e il lago ricoprirà gelosamente il suo segreto.

racconto di Arduino Rossi