11 set 2012

storie di paura storie ...L'AMANTE










L'AMANTE

Mi ero seduto tranquillamente in cima al colle che domina la valle.
Guardavo il panorama: c'erano i prati rigati dalle falci dei contadini, gli scuri boschi assomigliavano alle macchie verdi della tavolozza di un pittore.
Ero solito andare fin lassù per rammentarmi di lei, la mia amica e compagna di vita: avevo trascorso assieme cinquanta lunghissimi anni.
Non avevo avuto figli e fu una fortuna: il nostro non fu una convivenza per amore.
Lei si era unita a me per soldi.
Io invece la volevo perché era la più bella del villaggio: era alta, allora i capelli erano biondo ramati, gli occhi erano verdi.
Questo era ancora nulla: il suo sorriso sapeva estasiare, ammiccare, far bollire il sangue dentro.
Non l'amavo, ma l'avevo desiderata per il suo passo sinuoso, per il suo corpo elastico e provocante, specialmente quando camminava e si sentiva osservata.
Era una sgualdrina: io lo sapevo e non me ne importò quando la
volli con me.
Non mi sposai: avrei dovuto cederle metà del mio patrimonio in caso di separazione, ma rimasi con lei per tutti questi anni, restandole fedele.
Invece Elisa mi odiava, mi voleva solo come suo padrone, un amante con cui scambiare favori con doni.
La viziai facendola vivere nel lusso, nell'abbondanza.
Per me lei era una mia proprietà, un bellissimo oggetto di cui andar fiero.
Fui tradito, ingannato, deriso alle spalle.
Persi la mia reputazione: ero lo zimbello della valle.
A poco alla volta tutte le mie tenute furono vendute per accontentare i capricci di Elisa: io dicevo per vedere la luce
dei suoi occhi belli.
Mi stavo rovinando per una donna che ormai non era più lo splendore di un tempo.
Gli spasimanti e i suoi amori erano svaniti nei decenni: quel nostro legame, privato di tutti i fronzoli e le ipocrisie della giovinezza, divenne un inferno.
Cominciai a picchiarla: lei si ribellava come una cavalla furiosa, mi graffiava le guance.
Ci insultavamo, ci maledivamo, ma non riuscivamo a rimanere distanti: lei aveva bisogno di ciò che rimaneva delle mie ricchezze, io non mi sapevo liberare di quella passione feroce.
Elisa era mia, solo mia: più nessuno me l'avrebbe rubata.
Eravamo vecchi, lei era quasi cieca, io ero zeppo di acciacchi: ci sostenevamo come due superstiti di un mondo perduto.
Gli abiti sfarzosi di Elisa erano pezzi da museo.
Il mio modo di agire, serioso e accigliato da proprietario terriero, da gran Signore, era superato.
I ragazzi ci canzonavano, nelle bettole si rideva di noi: eravamo
vecchi e il nostro posto non era più su questa terra.
Fu Elisa a capirlo per prima.
La vita per lei non aveva più senso e mi confidò: -Ci siamo fatti del male tutta l'esistenza! Ora vorrei morire in pace! Lasciamoci!-
Era determinata ad abbandonarmi: la scongiurai, la pregai in ginocchio.
Lei preparò le valige per fuggire, ma io la fermai e le strinsi il collo sottile, sino a quando cadde al suolo.
Girovagai per il villaggio come un folle, poi mi preoccupai delle conseguenze del mio atto: la chiusi in un baule e la sotterrai in un giardino.
Non avevo molto da campare.
Ero gravemente malato, ma non mi avrebbero rinchiuso in un carcere negli ultimi giorni della mia misera vita.
Ora sono qui, dove la incontrai per la prima volta e non so cosa fare.
A casa non posso tornare: è stata venduta per pagare i debiti.
Non ho più nulla e cercherò un rifugio allo ospizio dei poveri, ma prima voglio dare un'occhiata alla valle, a ciò che un giorno fu mio: quasi tutto sino all'orizzonte.
Non mi importa di ciò che ho perso: vorrei vendere l'anima per poter rivedere Elisa.
-Il Conte Monti è stato rinvenuto deceduto nei pressi di quella che fu la sua villa.
Il guardiano sostiene che il poveretto pretendesse di entrare, ma
davanti al fermo rifiuto si era allontanato.
Poco dopo il Conte ruppe un vetro e penetrò nella villa deserta da una finestra.
Lì si udì litigare con una donna, che rideva istericamente come una forsennata, con malvagità e soddisfazione.
L'intervento del guardiano non risolse il mistero della voce femminile: c'era unicamente Monti nel salone delle feste ed era visibilmente preoccupato.
Aveva le guance sanguinanti per dei graffi profondi.
Fu allontanato e non oppose resistenza.
Fuori confidò al guardiano: -Elisa mi vuole con sé, per l'eternità!-
Appena fuori si accasciò a terra e fu vano ogni soccorso.
Tra le mani aveva una collana di perle, posseduta dalla sua compagna.
Fu forse l'ultimo dono del Conte alla sua amante.
Morì ripetendo con ossessione il nome Elisa.

racconto di Arduino Rossi 



storie di fantasmi vere ...... LA CALMA








LA CALMA

Il vicino era da tempo assente: non si vedeva né si udivano le sue urla bestiali.
La pace nel palazzo era tornata, ma non si spiegava questo mutamento nell'inquilino del terzo piano: uno scapolo, alto, grigio, nervoso.
Aveva il vizio di pretendere il rispetto delle regole condominiali siano all'assurdo: le scale dovevano essere sempre lucide, non una voce si doveva udire nell'atrio comune, il giardinetto doveva essere curato e non un filo d'erba poteva essere colto.
Era un ossessionato dalle regole e dalla precisione.
La gente diceva che fosse pazzo e probabilmente lo era: la sua personalità autoritaria, il carattere deciso i modi bruschi lo rendevano intrattabile.
Contro di lui non c'era nulla da fare: conoscevo il regolarmente condominiale a memoria e tantissime norme del codice civile.
Era proprio impossibile cercare di avere ragione contro lui: minacciava di querelare e spesso lo faceva.
C'erano state decine di cause, tutte vinte dal suo avvocato, un uomo tanto cinico, quanto intelligente.
Contro di lui si erano scagliate le maledizioni, gli insulti alle spalle, ma resisteva anche al malocchio.
Le liti e i "dibattiti" sulle scale, tra voci acute e basse, gesticolare di donne e di vecchi sudati terminavano sempre: -Ci
vedremo in tribunale!-
Ormai più nessuno rischiava una causa contro di lui: si ritiravano in buon ordine e lui otteneva ciò che voleva.
Quella sua assenza rendeva i condomini preoccupati: forse si prospettava una delle sue iniziative legali.
Invece trascorse un mese, si era nel caldo dell'estate: si risolse la questione con la convinzione, suffragato dai soliti testimoni di dubbia affidabilità, che fosse andato a casa sua, al mare, finalmente per prendersi una vacanza.
Poi il fetore si fece sentire e sul pianerottolo era impossibile transitare senza proteggersi la bocca e il naso.
Fu necessario chiamare la polizia, i vigili del fuoco, la croce Rossa.
La porta fu abbattuta.
Carlis fu trovato morto, già in decomposizione: era stato un omicidio, perché furono rinvenuti ferite mortali sul cadavere e ossa frantumate.
Le indagini proseguirono per mesi, ma fu tutto vano: il Signor Carlis era troppo antipatico, troppo odiato.
Tutti i vicini, i colleghi, pure qualche parente avevano motivi per assassinarlo.
Non si parlò altro per mesi e mesi, poi lentamente tutto fu dimenticato: l'oblio stava coprendo tutto e la gente viveva in pace.
L'appartamento andò a un cugino lontano: lo vendette, con i suoi mobili, senza nemmeno vedere dove abitava il suo parente.
La casa fu di nuovo abitata, ancora da un impiegato e ancora scapolo: era un ometto riservato, cortese, simpatico.
Se ne andò senza motivo dopo pochi giorni, così ben presto altri giunsero e se ne andarono senza spiegare cosa li facesse fuggire.
Alla fine l'appartamento rimase vuoto e le prime voci seguirono i sospetti dei più fantasiosi.
Gli ultimi inquilini l'avevano ammesso: era impossibile dormire in quella casa.
Si disse che rumori e voci la rendevano tetra, qualcuno insinuò che il fantasma di Carlis vi si aggirava.
I benpensanti risero di tali discorsi, ma alla sera più nessuno osava stanziare davanti alla porta dell'appartamento maledetto.
La paura era molta e qualcuno, a bassa voce, disse di averlo rivisto davanti all'uscio di casa sua.
Questa apparizione fu notata da molti e fu data veritiera.
Qualcuno si decise e interrogò lo spettro: -Che vuoi ancora?-
-Sto cercando il mio assassino, deve raggiungermi, dove sono ora!-
Infatti da tempo il geometra Cavalli non usciva più alla sera: un tempo era un nottambulo incallito, con una vita privata disordinata.
Era stato un nemico di Carlis per futili questioni condominiali, ma anche per rivalità in campo sentimentale.
Questi erano moventi che altri avevano, ma Cavalli era un uomo
focoso e vendicativo.
Il tempo passava e pure del fantasma non si parlò più, era diventato un abitante ovvio del condominio: ormai le sue apparizioni erano alterne e più nessuno interrogava questa presenza.
Un giorno di disperazione per i debiti di gioco, le malattie veneree che lo divoravano per le donne, che lo avevano lasciato, Cavalli si tolse la vita: lo trovarono accanto al suo letto,
appeso al lampadario di cristallo.
Sotto di lui c'erano tutte le fotografie bruciate, delle sue amanti.
Ci fu un'inchiesta rapida, condotta senza impegno da un ispettore novello.
Il caso fu chiuso, anche se nelle tasche di Cavalli fu trovata una strana fotografia ingiallita dal tempo: c'era già il cadavere del suicida con accanto una figura luminosa, ghignante e indifferente alla tragedia, rassomigliante a Carlis, secondo qualche testimone.
Quella raffigurazione fu giudicata un fotomontaggio, usata apposta per far saltare i nervi a Cavalli da qualche suo nemico.
La ricerca del responsabile dell'istigazione al suicidio non fu rintracciato.
Gli inquilini non resistettero nella casa dell'impiccato e presto rimase sfitta: i sussurri notturni e le veloci visioni nella notte proseguirono.

racconto di Arduino Rossi

storie di paura ....LA LUPA









LA LUPA

Era una creatura dei boschi, selvaggia e folle o così si narra di lei: era considerata la belva.
Era nata in una casupola al confine della foresta: i suoi genitori erano dei montanari induriti dal clima e dalla solitudine.
Chiacchieravano poco e badavano a racimolare a fatica quel tanto di polenta, di patate che bastava alla famiglia.
Erano persone senza religione né dignità umana: le bestie e le persone erano uguali per loro.
I figli crescevano arrangiandosi, senza battesimo, senza sapere che l'acqua serve per lavarsi.
Si rubavano il cibo che i genitori gettavano a loro e i più robusti sopravvivevano.
Lei era la più piccola, la più decisa, ma anche la più rabbiosa: sapeva mordere con ferocia, graffiava come una gatta selvatica.
Cresceva con quella salute incredibile che solo chi vive all'aperto ha.
Ben presto si distaccò dalla famiglia e si diresse sempre più nella boscaglia, a caccia di lucertole, uova, lepri catturate con le tagliole.
Era bravissima nel preparare e collocare i lacci, nel colpire gli uccelli in volo con la fionda.
Era una cacciatrice temuta, ammirata, ambita.
C'era chi non si sarebbe fatto scrupolo di prenderla, catturarla, farsene la proprio preda, ma la lupa sapeva come evitarli, poi non si sarebbe lasciata abusare.
Eppure c'era uno che non desisteva, voleva prenderla, farne la sua donna, la sua serva, addomesticarla, così affermava.
Cercò con tranelli, lacci, ma la Lupa li evitava sempre: aveva l'istinto delle belve che percepiscono il pericolo.
Lui tentò addirittura di inseguirla, ma si beccò una pietra lanciata dalla fionda sulla spalla: se l'avesse colpito in testa l'avrebbe ucciso.
Il cacciatore era più che convinto: riprese a mettere trappole e a pedinarla, a seguirla con i cani.
Di lei sapeva tutto, dove dormiva, dove beveva e si rinfrescava, dove accumulava scorte per l'inverno.
Finalmente la intravvide, prese la mira con l'arco e scoccò la freccia soporifera.
Non mirò per uccidere ma per ferire: le prese una coscia.
Lupa si tolse il dardo.
Era distante, ma lui corse con un forsennato per raggiungerla: lei era confusa, la mente si offuscava, ma resisteva.
Fuggiva senza sapere che non aveva scampo.
Il cacciatore la vide al suolo: era addormentata in quel sonno ansimante degli animaletti feriti.
Lui la legò e se la pose sulle spalle: non pesava, per il cacciatore era un piacere.
La portò sino alla sua baracca e lì la tenne in una gabbia: le gettò dell'acqua per svegliarla e iniziò il lavoro di addomesticamento.
Incominciò con il cibo, ma lei lo rifiutò.
La stuzzicò con un bastone, ma lei strillava, mugugnava, o non reagiva.
A quel punto il cacciatore doveva prendere una decisione: liberarla per lasciarla vivere o assistere alla sua agonia.
La bella belva boccheggiava, aveva tremiti improvvisi.
Il cacciatore era indeciso, poi spalancò la gabbia: Lupa stava spirando, la decisione giusta era giunta troppo tardi.
Lui si era accorto che quella creatura splendida anche in quelle pietose condizioni, non poteva essere tenuta in cattività.
I sudati capelli neri si erano incollati al viso candido, gli occhi tristi, scuri si stavano coprendo di un velo di lacrime.
Lui le accarezzo il capo come fosse un buon papà.
La seppellì nei pressi della sua casupola, piangendo per la sua sciocchezza: aveva preteso di imprigionare il vento, ma questo era morto.
Per anni udì il fruscio leggero dei passi di Lupa, il suo canto stridulo, il suo fischio da belva selvaggia.


racconto di Arduino Rossi

fantastico racconto -.... LA CITTA'










LA CITTA'

Scivolavo sulle strade in cerca di nulla, vagabondavo di città senza nulla chiedere.
Quando non avevo più soldi, guadagnati con lavoretti nei bar, nei campi, andavo alla mensa dei poveri.
Dormivo all'aperto o sotto i portici: era un modo duro di esistere, ma a me piaceva.
Quella città tutta fumosa, rumorosa non più andava: l'avrei evitata se fosse stato per me.
Era una terribile realtà industriale, con i tonfi degli opifici, l'odore di zolfo, l'aria arsa, secca, polverosa.
C'era il vuoto delle strade spopolate, tra le rovine dei grandi edifici, calpestavo le schegge delle gigantesche vetrate in frantumi.
Le gru arrugginite pendevano minacciose, mosse dal vento: erano simili a vecchi operai ubriachi.
Del passato era rimasto la decadenza e le ultime fonderie, che proseguivano imperterrite a produrre travi d'acciaio, tubazioni per improbabili acquirenti.
Mi infilai in quella che pareva la stazione dei treni, ormai resa inutilizzabili dai detriti, dalla sporcizia e dagli arbusti cresciuti tra i binari.
Era un'abitudine di ciascuno di noi vagabondi andare alla stazione per incontrarvi, per non sentirvi stranieri in luoghi sconosciuti.
Mi guardai attorno, era gigantesco il luogo: travi d'acciaio vibravano a mezz'aria.
Tutto pareva pronto a crollarmi sopra, coprendomi con tonnellate di macerie.
Mi nascosi su un vagone abbandonato e mi strinsi attorno gli stracci: cercai di dormire.
Chiusi gli occhi e li spalancai più volte, sentendomi a disagio: c'era qualcosa di vivo, malsano attorno a me.
Sembrava che un immenso animale respirasse, traspirasse: i suoi umori erano diffusi nell'aria, me li sentivo dentro come un alito cattivo, come il fetore di un'enorme porcile.
Non ne potei più: decisi di muoversi e camminare.
Mi trovai nelle strade vuote, tra le ombre delle ciminiere, i gatti in amore, gli uccelli notturni urlanti che volano contro la luna.
Provai dei brividi lungo la schiena: non volevo ammetterlo, ma avevo paura.
Quella città quasi disabitata mi avvinghiava in una morsa letale: mi sentii perso dentro le strade tetre.
Nella fonderia si versava la colata ardente: brillavano di rosso i vetri delle finestre, si udivano le urla di richiamo degli operai.
Quello era il luogo più simile all'inferno che aveva immaginato.
Fui curioso e cercai di sbirciare le fatiche di quei fonditori: erano semi-nudi, con i muscoli a fil di pelle.
Avevano lunghe aste, che usavano come attizza fuoco, avevano
pale per sospingere, indirizzare il flusso del metallo fuso.
Me ne andai: non capivo tutta quella fatica per pochi denari.
Non comprendevo il bisogno di avere una moglie e dei figli.
Io ero senza lacci, né doveri, né regole.
Mi coricai nel prato umido: ero troppo stanco per cercare un luogo riparato.
Mi addormentai e all'alba fui sorpreso dalla pioggia.
Mi asciugai il viso, mi tolsi il fango dagli abiti.
Mi risedetti allibito. non ero più nella città, ma lungo una via trafficata da auto.
Cercai una spiegazione logica, mi ero allontanato senza accorgermi, ero stato trasportato lì nel sonno.
Chiesi a un contadino: -Dove si trova la vecchia zona industriale
di Infern?-
-Di che parli? Non esiste più da cinquantanni! Fu distrutta dai bombardamenti e poi le ruspe ripulirono tutto!-
Ora ho capito! So che luogo fosse quello, so chi fossero quegli operai: lì terminerà il mio migrare.


racconto di Arduino Rossi

storie di fantasmi ..... L'ISOLA TRA I CANNETI








L'ISOLA TRA I CANNETI

I salici piangenti riversavano le loro foglie nell'acqua paludosa. La barca scivolava appena sulla superficie dello scuro lago: il luogo dove i due fiumi terminavano e si perdevano nella pianura, tra serpenti, molli terreni umidi, pantano, arbusti spinosi.
L'unico tratto solido, che si ergeva sopra quel piatto panorama lacustre era l'isola dei canneti: una montagnola coperta da alberi secolari che alzavano le braccia contro un cielo sempre plumbeo. Il pescatore ormai era rassegnato: c'erano costati molti sforzi per convincerlo a traghettarci sino all'isola.
Non era una questione di denaro, non volle neppure il dovuto:
-Non posso essere pagato da chi sta per morire!-
Era un vecchio superstizioso: era certo che quella fosse l'isola dei venti delle tenebre, degli antichi sussurri dal fondo del lago, dove, si dice, un tempo si gettassero i cadaveri dei nemici.
Le leggende raccontavano che talvolta gli spettri uscissero e tagliassero l'aria con sibili acutissimi. Narravano di battaglie feroci tra i montanari e gli abitanti della pianura: i primi scendevano a saccheggiare, i secondi cercavano di difendere i loro villaggi. I morti e i moribondi finivano inghiottiti dalle sabbie mobili, dal fango denso di quella palude, chiamata lago solo per l'orgoglio della gente: vedevano in quella mota ripugnante la propria terra di cui andar fieri.
Sui libri e sui documenti antichi non si riferiva di questi combattimenti feroci e crudeli: di capi tanto sadici da far affogare i vinti nell'acqua putrida, di guerrieri fatti a pezzi e gettati ai porci. Noi invece eravamo certi che qualcosa di vero ci fosse stato: il ritrovamento di qualche vaso di terra cotta, di monete d'oro sconosciute, di iscrizioni sulle rare pietre, ci avevano fatto intestardire.
Le nostre convinzioni si erano radicate benché i grandi esperti di archeologia ci avevano deriso: non poteva esserci stata una battaglia campale in un luogo così lontano dalle principali vie di comunicazioni, tra paludi da sempre poco abitate. Non c'era motivo: gli eserciti più potenti del passato difficilmente si sarebbero confrontati nel lercio di una palude distante dalle grandi città, dai punti strategici.
L'isola tra i canneti doveva contenere qualche grosso segreto: forse la tomba di un capo, o i cumuli dei caduti tra i vincitori. Il pescatore ficcò il lungo remo dentro il fango e legò la barca: ci aiutò a scendere sulla stretta spiaggia.
Ci guardò scuotendo il capo. Si allontanò verso il sole del tramonto, muovendo con sicurezza il lungo remo, andandosene come in un sogno, come un Caronte gigantesco che sfugge tra gli umori bassi dell'orizzonte sfocato.
Eravamo finalmente soli, con le nostre attrezzature, la tenda e i viveri per tre settimane. Volevamo restare lì il più possibile, anche mesi: il pescatore ci avrebbe portato viveri freschi ogni settimana e noi non avremmo sospeso i nostri scavi.
Era una questione di prestigio, d'onore: quella doveva essere la più importante scoperta archeologica dell'anno.
Anna, mia moglie, fece il primo giro di perlustrazione dell'isola, mentre io montai la tenda. Lei tornò entusiasta: -Sono certa! Questa non è un cumulo naturale di sedimenti, ma un ammasso di terriccio, o altro, creato apposta dall'uomo!-
Non volli contraddirla, benché dubitassi che centinaia di servi o di prigionieri di guerra avessero potuto fare un lavoro simile: nella regione non c'erano opere di tale dimensione. Sarebbe stato un'enorme monumento funebre, troppo grande per le popolazioni dell'epoca.
Dormimmo tranquillamente, avevamo tutto contro le zanzare.
Di spettri nemmeno un flebile sussurro: quegli sciocchi degli abitanti della palude erano sicuramente dei visionari, forse per le febbri malariche.
La ricerca partì da una pietra con diverse iscrizioni incomprensibili. Cercammo di interpretare la forma dell'isola e individuare dove fosse stata collocata l'apertura dell'eventuale mausoleo, della cui esistenza Anna era certa: -Non capisci nulla! Non vedi che non ci sono altri depositi di sedimenti nella zona.-
Decidemmo di fare i primi scavi: la terra era molle come il burro e fu facile scendere per alcuni metri nel terreno.
Non trovammo niente e il terzo giorno ero deciso a rinunciare a quel lavoro che si dimostrava totalmente infruttuoso.
Fu la notte successiva invece che la faccenda prese una strana svolta: fui svegliato dal verso di un animale ferito, non compresi di che specie fosse.
Mi rigirai nella mia brandina senza poter riprendere sonno, allora decisi di uscire e respirare un po' di aria fresca: avevo caldo, mi mancava l'aria.
Udii diversi versi nella notte, piccole bestie strisciavano, altre gracidavano: la natura era nel pieno del suo vigore.
C'era un vento tiepido e fetido, c'erano poche stelle in cielo.
Era tutto tranquillo, ma io mi sentivo osservato: ero certo che mille occhi mi fissassero ed erano sguardi cattivi di esseri feroci. Anna dormiva tranquilla e non volli svegliarla, ma non ne potei più: avanzai nella macchia per alcuni metri sino a quando notai una luce, c'era qualcuno.
Dedussi che fossero dei cacciatori rifugiatisi tra i canneti per la notte, in attesa della selvaggina.
Dopo un po' quel bagliore iniziò a diventare più intenso: salii sino alla lapide iscritta, da dove pare avesse origine. Quando arrivai non c'era più nulla, ma mi accorsi per la prima volta, pur essendo buio, che la pietra si poteva muovere facilmente: bastava una spinta decisa.
La spostai e vi trovai una cunicolo scavato dall'uomo, che scendeva con gradini ancora percorribili. Non attesi l'alba e mi avventurai dentro con la mia torcia: quella era sicuramente una tomba e lì avevano deposto un guerriero valoroso o un capo. Infatti scorsi il sarcofago perfettamente sigillato, attrezzi di pietra e i resti di armi di ferro, il cui segno arrugginito era ancora presente sulle pareti.
Avevamo vinto! Io e Anna avevamo finalmente fatto una grande scoperta. Uscii ansimando e corsi alla tenda. Lei dormiva ancora, la svegliai: -Cara! Ho trovato una sepoltura!- -Claudio, sei impazzito? Avrai sognato!-La scossi e la costrinsi a levarsi: le narrai come la fortuna mi avesse aiutato e insieme ci inerpicammo
sino alla vetta del cumulo. Con le nostre torce potemmo notare anche i resti di pitture murali con guerrieri vincitori, prigionieri e fiamme. Anna era confusa, non pareva soddisfatta: -Siamo certi che ci conviene rimanere qua, per di più di notte?-
-Ti lasci influenzare? Stai diventando superstiziosa come questi
rozzi abitanti dei canneti?-
-Ascolta! C'è qualcuno qui vicino. Senti questi fruscii!-
Anna era veramente molto stanca: quelli erano i soliti rumori della notte che la fantasia amplificava.
Io non persi tempo e mi accanii sul sarcofago: avevo uno scalpello e un martello. Non andai tanto per il sottile, cercai di far saltare il coperchio: non era un metodo professionale, ma la fretta di scoprire il segreto di quella magnifica, unica,
scoperta archeologica mi aveva fatto perdere il buon senso. Anna strillò: -Fermati, disgraziato! Ci stanno sentendo, stanno giungendo!-
Qualcosa non andava nella mente di mia moglie: gli anni di studi e di scavi avevano lasciato in lei il segno: forse era uscita di senno e io non me ne ero accorto in tempo.
Comunque avevamo bisogno di riposo tutte e due: eravamo esausti.
Lei mi si strinse alle spalle, era disperata: -Caro! Andiamocene subito! Non dobbiamo svelare questo segreto o sarà peggio per noi!-
-Calmati! Va tutto bene! Hai bisogno di una lunga vacanza e basta.-
A quel punto mi accorsi che attorno a noi c'era qualcosa di cattivo, di feroce: mille occhi brillavano nella caverna e udii il sogghigno di molti esseri. Erano loro! I guerrieri che erano stati posti a difesa della tomba del capo, sacrificati perla gloria del più grande condottiero del loro popolo.
Provai schifo e terrore: erano entità ripugnanti e malsane, assetate di putridume e sangue. Non le vedevo, non le sentivo, ma c'erano ed ero certo che per me e Anna non esisteva più salvezza. Infatti il sarcofago iniziò a scricchiolare. Lui, il magnifico Signore delle genti delle paludi, il perfido torturatore, il maligno, il sanguinario, il vincitore di mille battaglie, morto per un traditore, si stava alzando per darci il suo particolare benvenuto.

-I cadaveri dei due archeologi dilettanti, Claudio e Anna Fillì, sono stati ritrovati da due cacciatori nel pantano della palude del morto, luogo dove altre persone in passato anno perso la vita.
Si è convinti che un maniaco colpisce chi si azzarda a sostare sull'isola del guerriero, approfittandosene dei timori superstiziosi della popolazione locale. La gente del posto è certa che le anime dannate degli antichi guerrieri della palude aggrediscono i forestieri e li gettino nel fango con un sigillo stretto tra le dita: è l'antico simbolo dei guerrieri dei pantani, che un tempo infestavano le rive del lago.-


racconto di Arduino Rossi

racconto .....LA CAPPELLA SCONSACRATA












LA CAPPELLA SCONSACRATA

La cappella abbandonata era da sempre chiusa: il vecchio parroco teneva la chiave in un luogo nascosto.
Non ero mai penetrato in quel luogo e non mi importava sapere cosa ci fosse.
Il giovane curato, curioso, saputello, mi comandava con arroganza, superiorità.
Ero il vecchio sagrestano: ero così vecchio da avere visto morire ben cinque monsignori.
Avevo superato i novant'anni, ma non rinunciavo al mio lavoro: era tutta la mia vita.
Ero uno scapolo che si era appassionato al lavoro umile di guardiano della chiesa madre, una vasta e antica basilica, decorata con ridondanti stucchi barocchi, con tele gigantesche, sanguigne, possenti.
Tanto sforzo che si era sommato alla cupa atmosfera romanica, alle colonne tardo romane.
La chiesa si ergeva sopra un'altra chiesa vetusta, ora mutata in cripta, su catacombe precristiane, sui resti di templi e i cimiteri di diverse epoche.
Della cappella, si diceva, si poteva entrare nei sotterranei.
Io sapevo che l'ultimo parroco defunto non permetteva di avventurarsi nelle segrete.
Si giustificava con i pericoli reali: c'erano pozzi senza protezione, scale pericolanti.
C'era il rischio di smarrirsi, ma la vera paura stava in quella vecchia faccenda del negromante.
Io non lo avevo visto, ma mio padre sosteneva che fosse terribile.
Credevo in mio padre e non avevo mai aperto quella porta.
Si dice che ci fu una solenne cerimonia con preghiere, giaculatorie e benedizioni da parte di quattro preti, con tanto di paramenti viola.
Il curato era un tipo moderno e rideva di queste leggende: pretendeva da me l'apertura di quella porta.
Io non cedetti: sapevo dove fosse nascosta la chiave, nella canonica, ma non gli dissi dove fosse.
Quel fesso cercò, rovistò, tagliò materassi, coperte: mise a soqquadro la chiesa, sino a quando non rinvenne l'arrugginita chiave.
Era soddisfatto e con l'aiuto di una buona dose di olio per serrature spalancò quella massiccia porta di noce.
Il puzzo di muffa, di polvere lo investì, ma non si fermò: la cappella era stata spogliata da ogni suppellettile o quadro.
C'erano solo gli stucchi gli angioletti di gesso dorato e tanti topi, che si dettero alla fuga.
Era un postaccio, ma il Curato era testardo: mi ordinò di far disinfestare il locale, al più presto.
Io borbottai qualcosa e finì lì la questione.
Il mese dopo mi chiamò in canonica e mi avvisò: dovevo starmene a casa, non avevo più l'età per lavorare.
Mi dette il ben servito con una liquidazione misera per i miei ottant'anni di impegno, giorno e notte, per la parrocchia.
Non potevo stare lontano dalla chiesa parrocchiale: non potevo restare in sagrestia, ma rimanevo negli ultimi banchi.
Pregavo, borbottavo le mie orazioni, sistemavo ancora le candele votive, se capitava consigliavo il nuovo sagrestano: un poveretto come me, molto giovane.
Poi avvenne ciò che non sarebbe dovuto capitare: un'intrusione sacrilega ogni notte si udiva.
Canti blasfemi, urla atroci erano uditi, quando più nessuno era in chiesa.
Alla mattina le ostie consacrate erano disperse sul pavimento, i crocefissi erano stati gettati a terra.
I banchi erano stati spostati, il caos era completo, con fanghiglia e luridume ovunque.
Dopo alcuni tentativi per sapere chi fosse stato, il Curato rivolse si rivolse a me.
Volle sentire la mia spiegazione degli avvenimenti: -Il negromante era un personaggio realmente esistito: uno di quegli individui sempre a rischio di scomunica, ma salvatosi dalla Santa Inquisizione grazie alla sua furbizia. Si fece seppellire nella cripta, corrompendo un Priore vizioso, interessato all'oro. Per anni la cappella rimase il luogo dei ritrovi satanici, di streghe, di santoni, di gentaglia.-
Il Curato non mi credette e volle restare nella chiesa di notte: riuscii a convincerlo di accettarmi come guida.
Conoscevo perfettamente ogni angolo, compreso le segrete, pur non essendo mai sceso nei sotterranei: avevo studiato a memoria un'antica mappa.
Tutto andò bene, il silenzio regnò sino a quando un gran frastuono si udì provenire dalla cappella.
Ci affrettammo e lo vedemmo: era gigantesco, con le mani lunghe, grandi come pale.
Gli occhi erano bianchi, la bocca era semi aperta ed emanava rantoli.
Era cieco: non poteva vedere in questo mondo.
Ci aveva notato, percepiva la nostra presenza e si agitava come un cane da caccia: sembrava che annusasse l'aria.
Eravamo le sue prede.
Riuscii ad allontanare il Curato: era pericolosissimo rimanere lì, ci avrebbe fatto a pezzi.
Sarebbe stato saggio svignarcela, uscire dalla chiesa, ma quell'imbecille di prete ritenne doveroso non fuggire davanti al maligno.
Riuscii a farlo entrare in un confessionale: lo scongiurai di tacere, di non strillare.
Io mi posi nell'altare della Croce Benedetta e attesi: dietro al negromante c'erano diversi esseri infernali, cadaverici che lo seguivano.
Si muovevano come ubriachi, quasi ballando.
Lanciavano strilli di dolore e versi da ebeti.
Trascinavano gli arti rigidi, scuotevano i corpi come presi da qualche strano morbo.
Erano i morti maledetti, senza pace.
Quello spettacolo orrendo di cadaveri presi dal terrore del sacro
lo conoscevo per sentito dire, ma non lo avevo mai visto.
Mi mantenni calmo, ma non così il Curato: piangeva come un marmocchio.
Gli spettri erano ciechi come lombrichi: si trascinavano verso il confessionale e allungavano le braccia nere da cadaveri verso la loro vittima.
Lo catturarono e lo trascinarono per i capelli, lo gettarono sull'altare e lo colpirono come forsennati.
Alla fine il poveretto non aveva più fiato per piangere.
Io impugnai una croce e a fatica per l'età, mi rivolsi a loro: -Andate via! Demòni!-
Quelli ringhiarono, sbuffarono, sputarono le loro schifezze nere,
mi maledissero, ma indietreggiarono.
Ora il Curato è sano e salvo: ha fatto serrare la cappella sconsacrata e mi ha chiesto di far fondere la chiave.
So bene che prima o poi qualche imbecille vorrà curiosare nelle segrete, attraversando la cappella.
Lo farà con ogni mezzo e io sono già pronto a intervenire: terrò la chiave per ogni evenienza, per soccorrere o per richiudere la porta della cappella.

racconto di Arduino Rossi

10 set 2012

veri fantasmi . .. IL VOLO










IL VOLO

Cercavo da sempre di librarmi sopra i miei pensieri tetri: immaginavo la fortuna degli esseri alati, visibili e non visibili, che possono veleggiare tra nubi e sogni, tra cieli azzurri e silenzi impenetrabili.
La mia testa invece era sempre colma di paure, di angosce per il futuro, per le persone care,
per le mie cose, i miei oggetti, i miei animali.
Ero schiavo di questa esistenza materiale, mortale, volubile, passeggera: soffrivo per la morte di un mio cane, per lo smarrimento di un oggetto, per l'allontanarsi da me delle persone care o appena conosciute.
Chiunque entrava sotto la mia osservazione era importante per me, anche se costui non mi conosceva neppure: mi piaceva interessarmi delle faccende private altrui, dei loro fatti, soffrivo per i loro guai, i loro lutti.
Speravo con loro e piangevo con loro, senza che nessuno si accorgesse del matto della casa vecchia: così ero chiamato in paese perché non mi allontanavo mai dalla mia casupola, dai mie orti, dalle mie quattro capre e dieci galline.
Ero un ottimo osservatore: riuscivo a capire eventi, prevedere guai o buone novità dai loro atteggiamenti.
Ero sensibilissimo ai patimenti altrui e così scordavo la mia condizione da solitario, quasi da uomo selvatico.
Gli anni passavano e con essi anche le stagioni della vita, con i funerali e le nascite, con gli sposalizi e le fughe d'amore.
Le generazioni si susseguivano e io restavo lì, vecchissimo, ma anche sempre pronto a desiderare il bene di tutti. Volare, ecco il mio sogno! Come sarebbe stato Bello alzarsi nell'aria e sovrastare le loro meschinità, certo che tutto sarebbe andato per il verso giusto, come solo gli angeli sanno, Lui non era un essere celestiale, ma neppure infernale: era una di quelle entità che stanno sulla terra anche quando il loro tempo è scaduto. Non vogliono abbandonare il mondo degli umani, pur dovendo andarsene: riescono a mantenersi in una condizione di non morte e di non vita, per secoli.
Lui era stato come me, un povero folle in vita e come me, aveva desiderato volare sopra tutto e sopra tutti.
Era come gli angeli della chiesa, ma il volto era scuro, con due grandi rughe che gli tagliavano il sorriso, rendendolo di perenne
espressione triste. Mi disse: -Vuoi volare? Allora vieni con me!-
Mi condusse sopra il mio villaggio in quella notte di gennaio: tutto era calmo e la gente dormiva. Forse stavo sognando, ma quel sogno si prolungò sino all'alba e dopo giunse ancora il tramonto. Ero in alto, sopra le nuvole: potevo vedere il mondo in
basso. Non provavo più dolori, né ansie: non ero felice, ma neppure infelice.
Alla fine l'essere alato mi lasciò le mani e precipitai: il risveglio fu immediato, ma quello non era stato il solito risveglio. Nella mia casa c'erano altre persone. Mi rivolsi a loro, ma fu inutile, non mi vedevano e non mi ascoltavano: urlai la mia rabbia contro gli invasori.
Tentai di scacciarli con la forza, ma loro percepirono solo un soffio d'aria fredda. L'essere alato rise alle mie spalle: -Non hai compreso ancora? Ora sei come me e puoi sovrastare i mortali nei secoli: conoscerai le generazioni che svaniscono e si rigenerano, vedrai le gioie e dolori, assisterai al passaggio dalla vita alla morte.
Solo tu, come me, non potrai assaporare l'eterno immobilismo dell'Aldilà, il perpetuo esistere.-Questo mio patire non so dove mi avrebbe condotto, ma certamente ero il testimone silenzioso e muto di epoche. Sapevo e non potevo intervenire, come in vita, quando avrei dovuto essere di aiuto ai miei simili e non lo fui. Continuo ad elevarmi sino alle nubi più alte e precipitare verso la terra, dove posso navigare nel sonno dei mortali, raccontando del passato e del futuro, prevenendo i mali.

racconto di Arduino Rossi