LA CAPPELLA
SCONSACRATA
La cappella
abbandonata era da sempre chiusa: il vecchio parroco teneva la chiave
in un luogo nascosto.
Non ero mai penetrato
in quel luogo e non mi importava sapere cosa ci fosse.
Il giovane curato,
curioso, saputello, mi comandava con arroganza, superiorità.
Ero il vecchio
sagrestano: ero così vecchio da avere visto morire ben cinque
monsignori.
Avevo superato i
novant'anni, ma non rinunciavo al mio lavoro: era tutta la mia vita.
Ero uno scapolo che si
era appassionato al lavoro umile di guardiano della chiesa madre, una
vasta e antica basilica, decorata con ridondanti stucchi barocchi,
con tele gigantesche, sanguigne, possenti.
Tanto sforzo che si
era sommato alla cupa atmosfera romanica, alle colonne tardo romane.
La chiesa si ergeva
sopra un'altra chiesa vetusta, ora mutata in cripta, su catacombe
precristiane, sui resti di templi e i cimiteri di diverse epoche.
Della cappella, si
diceva, si poteva entrare nei sotterranei.
Io sapevo che l'ultimo
parroco defunto non permetteva di avventurarsi nelle segrete.
Si giustificava con i
pericoli reali: c'erano pozzi senza protezione, scale pericolanti.
C'era il rischio di
smarrirsi, ma la vera paura stava in quella vecchia faccenda del
negromante.
Io non lo avevo visto,
ma mio padre sosteneva che fosse terribile.
Credevo in mio padre e
non avevo mai aperto quella porta.
Si dice che ci fu una
solenne cerimonia con preghiere, giaculatorie e benedizioni da parte
di quattro preti, con tanto di paramenti viola.
Il curato era un tipo
moderno e rideva di queste leggende: pretendeva da me l'apertura di
quella porta.
Io non cedetti: sapevo
dove fosse nascosta la chiave, nella canonica, ma non gli dissi dove
fosse.
Quel fesso cercò,
rovistò, tagliò materassi, coperte: mise a soqquadro la chiesa,
sino a quando non rinvenne l'arrugginita chiave.
Era soddisfatto e con
l'aiuto di una buona dose di olio per serrature spalancò quella
massiccia porta di noce.
Il puzzo di muffa, di
polvere lo investì, ma non si fermò: la cappella era stata
spogliata da ogni suppellettile o quadro.
C'erano solo gli
stucchi gli angioletti di gesso dorato e tanti topi, che si dettero
alla fuga.
Era un postaccio, ma
il Curato era testardo: mi ordinò di far disinfestare il locale, al
più presto.
Io borbottai qualcosa
e finì lì la questione.
Il mese dopo mi chiamò
in canonica e mi avvisò: dovevo starmene a casa, non avevo più
l'età per lavorare.
Mi dette il ben
servito con una liquidazione misera per i miei ottant'anni di
impegno, giorno e notte, per la parrocchia.
Non potevo stare
lontano dalla chiesa parrocchiale: non potevo restare in sagrestia,
ma rimanevo negli ultimi banchi.
Pregavo, borbottavo le
mie orazioni, sistemavo ancora le candele votive, se capitava
consigliavo il nuovo sagrestano: un poveretto come me, molto giovane.
Poi avvenne ciò che
non sarebbe dovuto capitare: un'intrusione sacrilega ogni notte si
udiva.
Canti blasfemi, urla
atroci erano uditi, quando più nessuno era in chiesa.
Alla mattina le ostie
consacrate erano disperse sul pavimento, i crocefissi erano stati
gettati a terra.
I banchi erano stati
spostati, il caos era completo, con fanghiglia e luridume ovunque.
Dopo alcuni tentativi
per sapere chi fosse stato, il Curato rivolse si rivolse a me.
Volle sentire la mia
spiegazione degli avvenimenti: -Il negromante era un personaggio
realmente esistito: uno di quegli individui sempre a rischio di
scomunica, ma salvatosi dalla Santa Inquisizione grazie alla sua
furbizia. Si fece seppellire nella cripta, corrompendo un Priore
vizioso, interessato all'oro. Per anni la cappella rimase il luogo
dei ritrovi satanici, di streghe, di santoni, di gentaglia.-
Il Curato non mi
credette e volle restare nella chiesa di notte: riuscii a convincerlo
di accettarmi come guida.
Conoscevo
perfettamente ogni angolo, compreso le segrete, pur non essendo mai
sceso nei sotterranei: avevo studiato a memoria un'antica mappa.
Tutto andò bene, il
silenzio regnò sino a quando un gran frastuono si udì provenire
dalla cappella.
Ci affrettammo e lo
vedemmo: era gigantesco, con le mani lunghe, grandi come pale.
Gli occhi erano
bianchi, la bocca era semi aperta ed emanava rantoli.
Era cieco: non poteva
vedere in questo mondo.
Ci aveva notato,
percepiva la nostra presenza e si agitava come un cane da caccia:
sembrava che annusasse l'aria.
Eravamo le sue prede.
Riuscii ad allontanare
il Curato: era pericolosissimo rimanere lì, ci avrebbe fatto a
pezzi.
Sarebbe stato saggio
svignarcela, uscire dalla chiesa, ma quell'imbecille di prete ritenne
doveroso non fuggire davanti al maligno.
Riuscii a farlo
entrare in un confessionale: lo scongiurai di tacere, di non
strillare.
Io mi posi nell'altare
della Croce Benedetta e attesi: dietro al negromante c'erano diversi
esseri infernali, cadaverici che lo seguivano.
Si muovevano come
ubriachi, quasi ballando.
Lanciavano strilli di
dolore e versi da ebeti.
Trascinavano gli arti
rigidi, scuotevano i corpi come presi da qualche strano morbo.
Erano i morti
maledetti, senza pace.
Quello spettacolo
orrendo di cadaveri presi dal terrore del sacro
lo conoscevo per
sentito dire, ma non lo avevo mai visto.
Mi mantenni calmo, ma
non così il Curato: piangeva come un marmocchio.
Gli spettri erano
ciechi come lombrichi: si trascinavano verso il confessionale e
allungavano le braccia nere da cadaveri verso la loro vittima.
Lo catturarono e lo
trascinarono per i capelli, lo gettarono sull'altare e lo colpirono
come forsennati.
Alla fine il poveretto
non aveva più fiato per piangere.
Io impugnai una croce
e a fatica per l'età, mi rivolsi a loro: -Andate via! Demòni!-
Quelli ringhiarono,
sbuffarono, sputarono le loro schifezze nere,
mi maledissero, ma
indietreggiarono.
Ora il Curato è sano
e salvo: ha fatto serrare la cappella sconsacrata e mi ha chiesto di
far fondere la chiave.
So bene che prima o
poi qualche imbecille vorrà curiosare nelle segrete, attraversando
la cappella.
Lo farà con ogni
mezzo e io sono già pronto a intervenire: terrò la chiave per ogni
evenienza, per soccorrere o per richiudere la porta della cappella.
racconto di Arduino Rossi
racconto di Arduino Rossi