11 set 2012

racconto .....LA CAPPELLA SCONSACRATA












LA CAPPELLA SCONSACRATA

La cappella abbandonata era da sempre chiusa: il vecchio parroco teneva la chiave in un luogo nascosto.
Non ero mai penetrato in quel luogo e non mi importava sapere cosa ci fosse.
Il giovane curato, curioso, saputello, mi comandava con arroganza, superiorità.
Ero il vecchio sagrestano: ero così vecchio da avere visto morire ben cinque monsignori.
Avevo superato i novant'anni, ma non rinunciavo al mio lavoro: era tutta la mia vita.
Ero uno scapolo che si era appassionato al lavoro umile di guardiano della chiesa madre, una vasta e antica basilica, decorata con ridondanti stucchi barocchi, con tele gigantesche, sanguigne, possenti.
Tanto sforzo che si era sommato alla cupa atmosfera romanica, alle colonne tardo romane.
La chiesa si ergeva sopra un'altra chiesa vetusta, ora mutata in cripta, su catacombe precristiane, sui resti di templi e i cimiteri di diverse epoche.
Della cappella, si diceva, si poteva entrare nei sotterranei.
Io sapevo che l'ultimo parroco defunto non permetteva di avventurarsi nelle segrete.
Si giustificava con i pericoli reali: c'erano pozzi senza protezione, scale pericolanti.
C'era il rischio di smarrirsi, ma la vera paura stava in quella vecchia faccenda del negromante.
Io non lo avevo visto, ma mio padre sosteneva che fosse terribile.
Credevo in mio padre e non avevo mai aperto quella porta.
Si dice che ci fu una solenne cerimonia con preghiere, giaculatorie e benedizioni da parte di quattro preti, con tanto di paramenti viola.
Il curato era un tipo moderno e rideva di queste leggende: pretendeva da me l'apertura di quella porta.
Io non cedetti: sapevo dove fosse nascosta la chiave, nella canonica, ma non gli dissi dove fosse.
Quel fesso cercò, rovistò, tagliò materassi, coperte: mise a soqquadro la chiesa, sino a quando non rinvenne l'arrugginita chiave.
Era soddisfatto e con l'aiuto di una buona dose di olio per serrature spalancò quella massiccia porta di noce.
Il puzzo di muffa, di polvere lo investì, ma non si fermò: la cappella era stata spogliata da ogni suppellettile o quadro.
C'erano solo gli stucchi gli angioletti di gesso dorato e tanti topi, che si dettero alla fuga.
Era un postaccio, ma il Curato era testardo: mi ordinò di far disinfestare il locale, al più presto.
Io borbottai qualcosa e finì lì la questione.
Il mese dopo mi chiamò in canonica e mi avvisò: dovevo starmene a casa, non avevo più l'età per lavorare.
Mi dette il ben servito con una liquidazione misera per i miei ottant'anni di impegno, giorno e notte, per la parrocchia.
Non potevo stare lontano dalla chiesa parrocchiale: non potevo restare in sagrestia, ma rimanevo negli ultimi banchi.
Pregavo, borbottavo le mie orazioni, sistemavo ancora le candele votive, se capitava consigliavo il nuovo sagrestano: un poveretto come me, molto giovane.
Poi avvenne ciò che non sarebbe dovuto capitare: un'intrusione sacrilega ogni notte si udiva.
Canti blasfemi, urla atroci erano uditi, quando più nessuno era in chiesa.
Alla mattina le ostie consacrate erano disperse sul pavimento, i crocefissi erano stati gettati a terra.
I banchi erano stati spostati, il caos era completo, con fanghiglia e luridume ovunque.
Dopo alcuni tentativi per sapere chi fosse stato, il Curato rivolse si rivolse a me.
Volle sentire la mia spiegazione degli avvenimenti: -Il negromante era un personaggio realmente esistito: uno di quegli individui sempre a rischio di scomunica, ma salvatosi dalla Santa Inquisizione grazie alla sua furbizia. Si fece seppellire nella cripta, corrompendo un Priore vizioso, interessato all'oro. Per anni la cappella rimase il luogo dei ritrovi satanici, di streghe, di santoni, di gentaglia.-
Il Curato non mi credette e volle restare nella chiesa di notte: riuscii a convincerlo di accettarmi come guida.
Conoscevo perfettamente ogni angolo, compreso le segrete, pur non essendo mai sceso nei sotterranei: avevo studiato a memoria un'antica mappa.
Tutto andò bene, il silenzio regnò sino a quando un gran frastuono si udì provenire dalla cappella.
Ci affrettammo e lo vedemmo: era gigantesco, con le mani lunghe, grandi come pale.
Gli occhi erano bianchi, la bocca era semi aperta ed emanava rantoli.
Era cieco: non poteva vedere in questo mondo.
Ci aveva notato, percepiva la nostra presenza e si agitava come un cane da caccia: sembrava che annusasse l'aria.
Eravamo le sue prede.
Riuscii ad allontanare il Curato: era pericolosissimo rimanere lì, ci avrebbe fatto a pezzi.
Sarebbe stato saggio svignarcela, uscire dalla chiesa, ma quell'imbecille di prete ritenne doveroso non fuggire davanti al maligno.
Riuscii a farlo entrare in un confessionale: lo scongiurai di tacere, di non strillare.
Io mi posi nell'altare della Croce Benedetta e attesi: dietro al negromante c'erano diversi esseri infernali, cadaverici che lo seguivano.
Si muovevano come ubriachi, quasi ballando.
Lanciavano strilli di dolore e versi da ebeti.
Trascinavano gli arti rigidi, scuotevano i corpi come presi da qualche strano morbo.
Erano i morti maledetti, senza pace.
Quello spettacolo orrendo di cadaveri presi dal terrore del sacro
lo conoscevo per sentito dire, ma non lo avevo mai visto.
Mi mantenni calmo, ma non così il Curato: piangeva come un marmocchio.
Gli spettri erano ciechi come lombrichi: si trascinavano verso il confessionale e allungavano le braccia nere da cadaveri verso la loro vittima.
Lo catturarono e lo trascinarono per i capelli, lo gettarono sull'altare e lo colpirono come forsennati.
Alla fine il poveretto non aveva più fiato per piangere.
Io impugnai una croce e a fatica per l'età, mi rivolsi a loro: -Andate via! Demòni!-
Quelli ringhiarono, sbuffarono, sputarono le loro schifezze nere,
mi maledissero, ma indietreggiarono.
Ora il Curato è sano e salvo: ha fatto serrare la cappella sconsacrata e mi ha chiesto di far fondere la chiave.
So bene che prima o poi qualche imbecille vorrà curiosare nelle segrete, attraversando la cappella.
Lo farà con ogni mezzo e io sono già pronto a intervenire: terrò la chiave per ogni evenienza, per soccorrere o per richiudere la porta della cappella.

racconto di Arduino Rossi