LA LUPA
Era una creatura dei
boschi, selvaggia e folle o così si narra di lei: era considerata la
belva.
Era nata in una
casupola al confine della foresta: i suoi genitori erano dei
montanari induriti dal clima e dalla solitudine.
Chiacchieravano poco e
badavano a racimolare a fatica quel tanto di polenta, di patate che
bastava alla famiglia.
Erano persone senza
religione né dignità umana: le bestie e le persone erano uguali per
loro.
I figli crescevano
arrangiandosi, senza battesimo, senza sapere che l'acqua serve per
lavarsi.
Si rubavano il cibo
che i genitori gettavano a loro e i più robusti sopravvivevano.
Lei era la più
piccola, la più decisa, ma anche la più rabbiosa: sapeva mordere
con ferocia, graffiava come una gatta selvatica.
Cresceva con quella
salute incredibile che solo chi vive all'aperto ha.
Ben presto si distaccò
dalla famiglia e si diresse sempre più nella boscaglia, a caccia di
lucertole, uova, lepri catturate con le tagliole.
Era bravissima nel
preparare e collocare i lacci, nel colpire gli uccelli in volo con la
fionda.
Era una cacciatrice
temuta, ammirata, ambita.
C'era chi non si
sarebbe fatto scrupolo di prenderla, catturarla, farsene la proprio
preda, ma la lupa sapeva come evitarli, poi non si sarebbe lasciata
abusare.
Eppure c'era uno che
non desisteva, voleva prenderla, farne la sua donna, la sua serva,
addomesticarla, così affermava.
Cercò con tranelli,
lacci, ma la Lupa li evitava sempre: aveva l'istinto delle belve che
percepiscono il pericolo.
Lui tentò addirittura
di inseguirla, ma si beccò una pietra lanciata dalla fionda sulla
spalla: se l'avesse colpito in testa l'avrebbe ucciso.
Il cacciatore era più
che convinto: riprese a mettere trappole e a pedinarla, a seguirla
con i cani.
Di lei sapeva tutto,
dove dormiva, dove beveva e si rinfrescava, dove accumulava scorte
per l'inverno.
Finalmente la
intravvide, prese la mira con l'arco e scoccò la freccia soporifera.
Non mirò per uccidere
ma per ferire: le prese una coscia.
Lupa si tolse il
dardo.
Era distante, ma lui
corse con un forsennato per raggiungerla: lei era confusa, la mente
si offuscava, ma resisteva.
Fuggiva senza sapere
che non aveva scampo.
Il cacciatore la vide
al suolo: era addormentata in quel sonno ansimante degli animaletti
feriti.
Lui la legò e se la
pose sulle spalle: non pesava, per il cacciatore era un piacere.
La portò sino alla
sua baracca e lì la tenne in una gabbia: le gettò dell'acqua per
svegliarla e iniziò il lavoro di addomesticamento.
Incominciò con il
cibo, ma lei lo rifiutò.
La stuzzicò con un
bastone, ma lei strillava, mugugnava, o non reagiva.
A quel punto il
cacciatore doveva prendere una decisione: liberarla per lasciarla
vivere o assistere alla sua agonia.
La bella belva
boccheggiava, aveva tremiti improvvisi.
Il cacciatore era
indeciso, poi spalancò la gabbia: Lupa stava spirando, la decisione
giusta era giunta troppo tardi.
Lui si era accorto che
quella creatura splendida anche in quelle pietose condizioni, non
poteva essere tenuta in cattività.
I sudati capelli neri
si erano incollati al viso candido, gli occhi tristi, scuri si
stavano coprendo di un velo di lacrime.
Lui le accarezzo il
capo come fosse un buon papà.
La seppellì nei
pressi della sua casupola, piangendo per la sua sciocchezza: aveva
preteso di imprigionare il vento, ma questo era morto.
Per anni udì il
fruscio leggero dei passi di Lupa, il suo canto stridulo, il suo
fischio da belva selvaggia.
racconto di Arduino Rossi