LA CITTA'
Scivolavo sulle strade
in cerca di nulla, vagabondavo di città senza nulla chiedere.
Quando non avevo più
soldi, guadagnati con lavoretti nei bar, nei campi, andavo alla mensa
dei poveri.
Dormivo all'aperto o
sotto i portici: era un modo duro di esistere, ma a me piaceva.
Quella città tutta
fumosa, rumorosa non più andava: l'avrei evitata se fosse stato per
me.
Era una terribile
realtà industriale, con i tonfi degli opifici, l'odore di zolfo,
l'aria arsa, secca, polverosa.
C'era il vuoto delle
strade spopolate, tra le rovine dei grandi edifici, calpestavo le
schegge delle gigantesche vetrate in frantumi.
Le gru arrugginite
pendevano minacciose, mosse dal vento: erano simili a vecchi operai
ubriachi.
Del passato era
rimasto la decadenza e le ultime fonderie, che proseguivano
imperterrite a produrre travi d'acciaio, tubazioni per improbabili
acquirenti.
Mi infilai in quella
che pareva la stazione dei treni, ormai resa inutilizzabili dai
detriti, dalla sporcizia e dagli arbusti cresciuti tra i binari.
Era un'abitudine di
ciascuno di noi vagabondi andare alla stazione per incontrarvi, per
non sentirvi stranieri in luoghi sconosciuti.
Mi guardai attorno,
era gigantesco il luogo: travi d'acciaio vibravano a mezz'aria.
Tutto pareva pronto a
crollarmi sopra, coprendomi con tonnellate di macerie.
Mi nascosi su un
vagone abbandonato e mi strinsi attorno gli stracci: cercai di
dormire.
Chiusi gli occhi e li
spalancai più volte, sentendomi a disagio: c'era qualcosa di vivo,
malsano attorno a me.
Sembrava che un
immenso animale respirasse, traspirasse: i suoi umori erano diffusi
nell'aria, me li sentivo dentro come un alito cattivo, come il fetore
di un'enorme porcile.
Non ne potei più:
decisi di muoversi e camminare.
Mi trovai nelle strade
vuote, tra le ombre delle ciminiere, i gatti in amore, gli uccelli
notturni urlanti che volano contro la luna.
Provai dei brividi
lungo la schiena: non volevo ammetterlo, ma avevo paura.
Quella città quasi
disabitata mi avvinghiava in una morsa letale: mi sentii perso dentro
le strade tetre.
Nella fonderia si
versava la colata ardente: brillavano di rosso i vetri delle
finestre, si udivano le urla di richiamo degli operai.
Quello era il luogo
più simile all'inferno che aveva immaginato.
Fui curioso e cercai
di sbirciare le fatiche di quei fonditori: erano semi-nudi, con i
muscoli a fil di pelle.
Avevano lunghe aste,
che usavano come attizza fuoco, avevano
pale per sospingere,
indirizzare il flusso del metallo fuso.
Me ne andai: non
capivo tutta quella fatica per pochi denari.
Non comprendevo il
bisogno di avere una moglie e dei figli.
Io ero senza lacci, né
doveri, né regole.
Mi coricai nel prato
umido: ero troppo stanco per cercare un luogo riparato.
Mi addormentai e
all'alba fui sorpreso dalla pioggia.
Mi asciugai il viso,
mi tolsi il fango dagli abiti.
Mi risedetti allibito.
non ero più nella città, ma lungo una via trafficata da auto.
Cercai una spiegazione
logica, mi ero allontanato senza accorgermi, ero stato trasportato lì
nel sonno.
Chiesi a un contadino:
-Dove si trova la vecchia zona industriale
di Infern?-
-Di che parli? Non
esiste più da cinquantanni! Fu distrutta dai bombardamenti e poi le
ruspe ripulirono tutto!-
Ora ho capito! So che
luogo fosse quello, so chi fossero quegli operai: lì terminerà il
mio migrare.
racconto di Arduino Rossi