La mia ditta tessile va a meraviglia: non riusciamo a soddisfare tutte le ordinazioni.
Il mio matrimonio non ha contrasti: mia moglie è stupenda in tutti i sensi.
Forse la nostra convivenza è accompagnata da un po' di noia, dovuta all'abitudinario ripetersi di situazioni sempre uguali.
La colpa è mia: sono placido di carattere e amo la quiete.
Il mio più grande "ideale" sarebbe stato ed è quello di dormire tutto il giorno su una spiaggia assolata, circondato da belle ragazze, ma avevo raggiunto l'età matura e non avevo una rendita, che ci avrebbe permesso di realizzare i miei sogni: cercai un impiego statale come ripiego e minor male.
Dopo alcuni concorsi con esito negativo vinsi un posto nell'Associazione Fiscale sui Prodotti Finiti: un istituto di controllo sulla produzione di tessuti, di porcellane e di prodotti agricoli.
I settori interessati erano molto ampi e non si poteva seguire l'intera produzione: noi facevamo delle verifiche a scandaglio e riducevano il lavoro a poco.
Ero stato assunto al limite dell'età consentita, trentacinque anni, perché sino ad allora avevo studiato.
Avevo frequentato diversi corsi di laurea: lettere, storia, filosofia, sociologia e psicologia.
Mi ero interessato a numerosi altri argomenti e sapevo di tutto un po'; in ufficio mi chiamavano "l'intellettuale".
Terminate le poche pratiche giornaliere, le lunghe monotone ore rimanenti erano ravvivate da pettegolezzi, da discussioni che mi offrivano l'occasione di mostrare la mia cultura "universale".
Non avevo titoli universitari e i miei colleghi mi consideravano un fallito: -Silvio non sarà mai qualcuno!-
-Solo lo Stato lo poteva assumere!-
-Per me ha delle doti che non sa sfruttare, per la sua indolenza!-
Opportunità ne avevo avute: sarei potuto diventare un giornalista pubblicista, ma non avevo voluto allontanarmi dalla mia città, abbandonando amici e "amiche".
Dopo una giovinezza trascorsa sui libri, tra festicciole e bagordi sino a notte, avevo dovuto mettere la testa a posto e cercarmi un impiego stabile.
Gli interessi culturali non li avevo traditi mai, ma preferii poi concentrare i miei sforzi, nel tentativo di arricchirmi: mi unii con dei giovani decisi a farsi una fortuna giocando in Borsa.
Raggruppammo un piccolo capitale, valutammo statisticamente tutte le possibilità e scegliemmo i titoli più promettenti.
La società era nata sulla parola di alcuni amici e si era allargata, diventando in pochi anni una piccola finanziaria.
Le somme necessarie alle speculazioni, di settimana in settimana, erano sempre maggiori: si doveva aumentare la posta del gioco per seguire gli sviluppi più fruttuosi.
Mi indebitai, ma fiducioso del prossimo grande momento: infatti tutti i nostri titoli crebbero improvvisamente a livello vertiginosi.
Avevamo decuplicato il capitale investito e ciascuno ne aveva una parte consistente: non eravamo "ricchissimi, ma con un buon gruzzolo da spendere e da rinvestire.
Io scelsi di cedere la mia parte delle azioni: temevo un ribasso improvviso, che avrebbe annullato tre anni di accorte speculazioni.
I miei soci mi derisero: -Sei uno sciocco! Non è ancora il momento di realizzare!-
Risposi: -Dopo un grande rialzo c'è un altrettanto grande ribasso!-
Erano bravi ragazzi, ma i facili guadagni li avevano esaltati: mi disprezzavano per la mia scelta e mi trattavano come un disertore.
In ufficio i colleghi si complimentavano cordialmente: -Silvio! Ora ti puoi licenziare e crearti una tua attività!-
-Sei stato bravo! Sei un abile uomo d'affari!-
Il mio amico Dario sardonico mi disse, battendomi una mano sulla spalla: -Ne hai avuta di fortuna!-
Eravamo in buoni rapporti: egli mi confidava i suoi progetti e io mi fidavo di lui.
Dario si lamentava della sua "povertà": era convinto di essere ingiustamente privo di mezzi per farsi valere nella vita.
Io lo stimavo; gli spiegai i segreti del gioco finanziario, ma egli era troppo orgoglioso per accettare i consigli degli altri: -Lascia perdere, Silvio! Conosco meglio di te il metodo per far soldi. E' solo questione di tempo e la tua vincita sembrerà una cosa da ragazzini, in confronto alla mia!-
Lo sconsigliai di arrischiare denaro in quel periodo, perché era prossimo il crollo del mercato dei titoli borsistici.
Il testardo non mi ascoltò e si rovinò: la borsa subì un tracollo simile a quello del 1929.
I furbi si erano salvati, mentre i fessi si videro azzerare il valore delle loro azioni.
I miei cocciuti ex soci non avevano più nulla: la società era fallita e si incolpavano a vicenda, per la stoltezza di rischiare ogni giorno di più per avere sempre più denaro.
Le disavventure degli amici non mi riguardavano e quello fu per me un periodo favorevole: una bella ragazza, alla quale facevo la corte da anni, divenne la mia fidanzata.
Ero al culmine della felicità e non mi accorsi che l'invidia mi bruciava il terreno attorno.
Volevo intravvedere un'attività industriale e Dario mi consigliò di acquistare una fabbrica tessile: -Ha solo quaranta operai, ma ha un grosso fatturato!-
Dissi: -Costerà troppo! Mi basta un'officina con qualche dipendente!-
-Questo è un affare! I proprietari sono in crisi per cattiva gestione, però la ditta è sana: rilevala e vedrai quanti soldi farai!-
Elena, la mia ragazza, era entusiasta: -Accetta! Un'occasione così non ti capiterà più!-
Desiderava diventare la Signora padrona, stimata, riverita e invidiata.
Dario si incontrava segretamente con lei; voleva la mia fidanzata per capriccio: in realtà preferiva le ragazze decise ed emancipate, mentre Elena era la figlia giudiziosa di una buona famiglia di ceto medio.
Non era ricca, non aveva un padre vicino ai centri di potere; era timida, avveduta, sempre in ordine, garbata: non poteva interessare all'arrivista Dario.
Discussi con lui sino a bisticciare: -Elena non la tocchi!
Cercati qualche "signorina" adatta a uno come te!-
Ero deluso e sconcertato dalla cattiveria del prossimo: la mia fortuna mi aveva reso nemiche molte persone, che sino ad allora erano inoffensive.
La trattativa per l'acquisto dell'azienda tessile proseguiva con difficoltà: i titolari pretendevano troppi soldi.
-Signor Silvio Cordon! Vuole che le regaliamo questa ditta?
Nostro padre la creò per i suoi figli e noi abbiamo consumato la giovinezza e la salute per farla crescere!-
Risposi: -Le condizioni attuali della fabbrica sono pessime: esistono due ipoteche e i macchinari sono da rinnovare!-
Essi erano abili a contrattare.
A fatica ottenni un prezzo che reputai onesto.
Fui un ingenuo: non controllai l'ammontare dei debiti dell'industria, non feci valutare le condizioni degli impianti tecnici e dei capannoni.
Firmai il contratto davanti al notaio e pagai sino all'ultima lira, chiedendo un prestito alla banca.
Appena subentrai nella direzione ebbi la brutta sorpresa di scoprire le reali condizioni dell'azienda: erano più numerosi i debiti del valore effettivo della società "Le Tessiture Monticelli".
I titolari erano due imbroglioni, che agivano ai limiti della legalità: acquistavano ditte sull'orlo del fallimento e cercarono i "polli" per venderle, con un largo margine di guadagno.
Ero disperato: avrei dovuto liquidare la ditta e accollarmi il debito per tutta la vita.
Telefonai a Dario, ma non si fece trovare in casa.
Cercai Elena, ma era partita per l'Inghilterra per un corso di Lingua.
Nell'ufficio della ditta trascorsi una settimana a interpretare la contabilità: cercavo una via d'uscita, ma solo nuovi debiti rinvenivano nei registri.
Era sabato sera, gli impiegati se ne erano andati da ore: io non desistevo e speravo in un miracolo.
La società era stata fondata nel 1892 e trovai i documenti più antichi.
Ebbi tra le mani una vecchia mappa catastale sbiadita e la guardai senza alcuna attenzione: avevo gli occhi appannati, stanchi della vista di migliaia di scartoffie, di ogni forma e contenuto.
Fu il mio istinto a stimolare improvvisamente la mia curiosità su quel documento, apparentemente utile solo a qualche storico: erano indicate le proprietà della società.
Una nota in bella calligrafia del ragioniere contabile dell'epoca diceva: -Terreni di nessun valore, perché agricoli e paludosi!-
In cento anni la città si era espansa e quei terreni erano ora in una zona industriale.
Pensai: -Se la proprietà è rimasta alla ditta questo è un grosso colpo di fortuna!-
Al catasto risultò tutto regolare: ero io titolare della "Tessitura Monticelli", il legittimo proprietario di quell'area edificabile.
I due truffatori furono costretti a pagare una grossa ammenda per non aver denunciato il possesso di queste aree al fisco, di cui non sapevano nulla: quasi l'intero profitto del loro raggiro venne assorbito dallo Stato.
Dario era stato il loro complice e si era licenziato dall'ufficio per investire la sua parte di guadagno, avuta a mie spese.
Incappò in un disonesto come lui, ma più furbo di lui, che lo derubò di tutti i suoi soldi.
Elena ritornò dall'Inghilterra e acconsentì a sposarmi.
Io stesso, quando ripenso a questi fatti, li riterrei inverosimili se non li avessi vissuti.
RACCONTO TRATTO DAL LIBRO "Gli statali. Gioie e dolori per il posto fisso”
Scritto da Arduino Rossi
Morpheo editore – Narrativa
presente in IBS e altre librerie online
http://www.morpheoedizioni.it/Gli_Statali.htm