18 apr 2010

17/4 L'ARTISTA (racconto di Arduino Rossi)


Non avrei mai creduto di dover tornare in questo ufficio, con le stesse mansioni di dodici anni fa.
Ero felicissima quando me ne andai per sposare Enrico e iniziare quella che sarebbe stata la rovina della mia vita.
Nella Sezione del Ministero degli Affari Economici, Ufficio Ristrutturazioni, le mie giornate si susseguivano uguali: il mio era un compito ripetitivo, di nessun impegno intellettuale e di scarsa professionalità.
Ero spesso in malattia e prendevo molte ore di permesso per uscire da quell'ambiente deprimente.
I miei interessi erano fuori ufficio: dipingevo, scrivevo poesie e romanzi d'amore, suonavo il pianoforte e cantavo.
Era un continuo susseguirsi di interessi e di divertimenti.
Rimanevo con gli amici sino a notte inoltrata e ogni giorno era differente dal precedente: conoscevo nuove persone e soddisfacevo la mia propensione alla frenesia e all'arte.
Gioia e colori sprizzavano da me e il mondo mi girava attorno.
Ebbi molti ragazzi: nessuno di loro era congeniale alla mia personalità: li giudicavo tutti un po' sciocchi e indecisi, senza il dinamismo di chi si vuol aprire una strada nella vita.
In verità neppure io concludevo molto: facevo tutto bene, ma impegnavo poco tempo per ogni interesse artistico, stancandomi di tutto.
Avevo tanti corteggiatori, forse troppi e spesso i più sfacciati mi infastidivano.
Non tutto era rose e fiori: saltuariamente avevo isteriche crisi d'angoscia.
I miei genitori, con pazienza, mi consigliavano preoccupati: -Elisa! Ti interessi di troppi argomenti! Concentra le tue capacità in un solo settore! Metti un po' di ordine nei tuoi sentimenti e nella tua esistenza!-
Papà e mamma avevano ragione, ma a ventitré anni non si comprende che il tempo ci scivola dalle mani e che è l'epoca propizia per costruire qualcosa di buono.
Ero nata per dipingere: i miei quadri piacevano a quasi tutti per le linee semplici ed eleganti del disegno, i colori vivaci.
Qualche invidioso diceva che i miei dipinti fossero tecnicamente perfetti e insulsi, vuoti come me.
Io deridevo la loro opinioni, sicura di essere una grande artista: nessun critico mi aveva ancora valorizzato, ma ero convinta che presto sarebbe arrivato il mio momento.
Mi annoiavo in ogni situazione: cambiavo spesso amicizia, perché tutti mi infastidivano e nessuno mi era simpatico.
Anche nel dipingere ero incostante: avrei potuto esporre, ma non ebbi mai tante tele sufficienti per una mostra.
La confusione stava travolgendo i miei fragili freni inibitori, quando conobbi Enrico: aveva già trentotto anni, con un passato pieno di esperienze di ogni genere ed era stanco di tutto.
Era l'opposto di me e non so perché mi misi con lui: probabilmente fu per il bisogno di sicurezza e per il pensiero del futuro.
Egli mi dava la stabilità anche con le sue rendite: il padre aveva un'industria, non molto grande, ma solida, con una buona resa economica.
Enrico non si era interessato agli affari sino ad allora: il padre gestiva tutto con grande scrupolo e con professionalità.
Enrico era un bell'uomo: alto e sempre abbronzato.
Aveva l'unico difetto di essere un po' all'antica, come un nobile sfaccendato d'altri tempi.
Aveva molte ragazze che gli ronzavano attorno, ma egli si divertiva con loro, senza pensare al matrimonio.
Per spirito di competizione o per gioco, provai con lui la mia abilità da seduttrice e mi trovai sposata senza veramente desiderarlo.
Abbandonai i miei amici, il lavoro e le festicciole, che terminavano quasi sempre a notte inoltrata ed erano la prima causa della mia vita sbandata.
Enrico era metodico e paziente: mi impose le sue maniere e mi appoggiò nella mia carriera artistica.
Spendetti molti soldi per pubblicizzare le mie esposizioni, con risultati disastrosi.
La critica e il pubblico mi furono avversi, io stessa mi stavo accorgendo che la mia nuova esistenza mi aveva tolto ogni ispirazione: i colori delle mie opere si stavano smorzando e i tratti del disegno perdevano carattere.
Pure io stavo mutando, l'aria tetra della villa di Enrico mi soffocava; la mobilia, i quadri e le spesse tende alle finestre ricordavano generazioni di abili imprenditori, che avevano imposto il loro punto di vista al Mondo e non ammettevano nulla di diverso dal gusto e dal modo di esistere da loro creato.
Mio marito tesseva una ragnatela, giorno dopo giorno, attorno a me: voleva mutarmi in una parte intonata della casa, pronta ai suoi desideri e d'accordo con le sue opinioni.
lo conoscevo sempre meglio: la sua natura, in apparenza tranquilla, era in realtà maligna e di una sottile cattiveria caparbia.
Egli spense ogni mio entusiasmo e io iniziai a odiarlo.
Tutto doveva stare al suo posto: abiti, contegno e abitudini.
Non c'era mai nulla di nuovo, ogni giorno era uguale al precedente.
Era il denaro che mi tratteneva vicino a lui: non sapeva rinunciare al lusso e alle comodità di una vita da Signora.
Furono dodici anni tremendi: il suo silenzio tradiva il suo disprezzo verso me.
Ero ormai un'intrusa in un mondo non mio e pure la servitù mi era ostile.
Il vecchio padre morì improvvisamente ed Enrico lo sostituì nella direzione dell'azienda: fu un incapace e in pochi anni dilapidò il patrimonio accumulato dalle generazioni precedenti.
Divenne intrattabile e fui il suo capro espiatorio: -Sei tu che hai succhiato tutte le mie energie! Ero un uomo di carattere e ora sono un rammollito!-
-No caro! Non mi puoi incolpare dei tuoi fallimenti! Sino a quando c'era tuo padre e avevi le spalle coperte, ti potevi atteggiare a uomo superiore: oggi ti dimostri un individuo insulso e privo di tempra!-
Il rapporto con lui divenne impossibile: egli approfittava di ogni situazione per offendermi, davanti alla servitù e ai parenti.
Non resistetti oltre e lo lasciai, restituendogli tutti i suoi preziosi regali con disprezzo.
L'atto fu eccessivamente precipitoso, mi trovai senza sostentamento e senza casa.
Tornai dai miei genitori, che mi accolsero con muta contrarietà: avevo rotto il sacro vincolo del matrimonio.
Mi feci riassumere nel mio ufficio, ma gli anni avevano cambiato anche i colleghi: furono freddi e scontrosi, isolandomi.
La causa di divorzio fu un disastro: ottenni solo il minimo degli alimenti possibili per legge, una miseria.
Mio marito aveva recuperato parte del patrimonio e per vendetta aveva speso molto in validi avvocati, pur di ottenere la mia completa sconfitta.
Gli amici di allora sono tutti accasati e con professioni decorose: non si ritrovano più per le bizzarre serate di allegria.
Qualcuno dice che sono acida e brusca, sto in ufficio il più possibile per far passare il tempo.
Le sere sono tutte uguali: grigie e solitarie, senza amici.
I miei migliori quadri dei bei giorni sono appesi nella mia camera e quando li guardo mi commuovo: ero un'ottima pittrice e ora non so più disegnare uno schizzo.

RACCONTO TRATTO DAL LIBRO "Gli statali. Gioie e dolori per il posto fisso”
Scritto da Arduino Rossi
Morpheo editore – Narrativa
presente in IBS e altre librerie online
http://www.morpheoedizioni.it/Gli_Statali.htm