3 apr 2010

02/4 IL PRECISINO (Arduino Rossi)

IL PRECISINO

Sono considerato da tutti un uomo fortunato, eppure la gente non
sa quanto sia triste oggi la mia vita.
Lavorai per venticinque anni nell'Istituto Nazionale per la
Prevenzione della Malaria, in una sede del Nord del Paese e i
miei compiti furono gli stessi, dal primo all'ultimo giorno.
Io non mi consideravo un frustrato dalla monotonia della mia
occupazione: non fui assente un solo giorno, ero orgoglioso della
mia puntualità e della fedeltà all'ufficio
Mi avevano soprannominato il "precisino", dimenticando il mio
nome "Paolo".

Ero deriso per la mia diligenza, che i miei colleghi
consideravano eccessiva, ma io rispondevo loro: -Se voi foste
ordinati, quanto lo sono io, questo ufficio sarebbe il più
efficiente d'Italia!-
Essi ridevano, ma io non mi crucciavo.
Forse il mio senso del dovere era un po' ossessivo: non perdevo
il mio tempo in chiacchiere e non scendevo al bar per il caffè.
Durante le ore d'ufficio ero sempre impegnato nel riordinare, nel
pulire e nello spostare incartamenti: non un solo granello di
polvere c'era sulla mia scrivania e nei miei scaffali.
Avevo quaranta matite colorate, di marche e di tinte differenti,
le avevo disposte in un portamatite, con le punte all'insù,
rispettando la scala dell'arcobaleno, dal rosso più intenso al
violetto.
Esse avevano una funzione solamente estetica e nessuno doveva
toccarle.
Talvolta un mio collega, per scherzo o sbadataggine, spezzava
qualche punta: era uno sgarbo che mi mandava su tutte le furie.
Solitamente ero una persona ragionevole e un mio caro amico mi
diceva molte volte: -Sei piccolo, grassoccio e calvo.
Sei il tipico impiegato statale: sei meridionale e affronti tutto con
troppa calma!-
Ovviamente, oltre a riordinare la scrivania, avevo pure la mia
mansione, che mi impegnava per il resto del tempo: revisionavo i
verbali di controllo sulla presenza della malaria nel territorio.
Da anni non c'era un solo malato, o un sospetto affetto da febbre
malarica, ma l'Istituto proseguiva la sua attività, seguendo
tutte le normative del Ministero.
Io ero un convinto assertore dell'importanza dell'Istituto,
contro i colleghi "disfattisti.".
Affermai un giorno: -Lo so bene che la malaria è stata debellata,
ma noi dobbiamo tenere sotto controllo la situazione!-
Un giovane collega ribatté: -Non hanno senso questi accertamenti:
la malaria non ricomparirà più!-
Un nuovo assunto mi impedì di replicare, intromettendosi: -Le
pratiche dell'Istituto sono parecchie e complesse.
Verifichiamo ogni attività tre o quattro volte, dobbiamo rendere
conto di tutto a molti enti e a tre ministeri! E' un grande movimento
di documenti, con firme e con timbri inutili!-
Avevo sacrificato i migliori anni della mia vita per l'Istituto
e non potevo permettere agli ultimi arrivati di denigrarlo: -Voi
fate presto a deridere ciò che non capite! Non vi immaginate
neppure quanto sia stata tremenda la miseria nelle zone infestate
dalla Malaria, che è stata debellata grazia a Istituti come il
nostro! Oggi vigiliamo sulle zone paludose, prevedendo nuovi
contagi!-
Nonostante queste discussioni la mia vita scorreva tranquilla.
Non ero Felice, ma non mi lamentavo: avevo una famiglia con due
figli studiosi, senza grilli per la testa e un buono stipendio.
Un bel giorno, trasgredendo alle mie ferree regole, stavo
sfogliando svogliatamente il giornale, nell'orario di lavoro:
stavo confrontando i numeri del mio biglietto della lotteria di
Merano per vedere se fosse vincente.
Mi sfrega gli occhi per essere sicuro che non fosse un abbaglio:
era vero, avevo vinto ed ero diventato molto ricco.

Uscii correndo dall'ufficio, senza giustificare l'assenza.
I colleghi credettero che mi fosse capitato qualcosa, o che fossi
impazzito e ipotizzarono spiegazioni tra le più fantastiche.
Entrai come un forsennato nella mia casa, gridando: -Ho vinto! Ho
vinto!-
Mia moglie mi fece sedere e senza ascoltarmi fece per telefonare
al nostro medico.
Placai la mia frenesia e le mostrai il biglietto vincente, ella
non credeva ai suoi occhi, poi svenne: -Mi sento male!
...dell'acqua, un liquore....-
La deposi sul divano buono: ero confuso e non mi decidevo a
chiamare il medico, poi le detti un calmante.
Ella si addormentò profondamente: aveva le palpebre cerchiate e
il colorito giallognolo.
Mi accorsi per la prima volta dell'invecchiamento precoce di
Elena, notando i suoi capelli bianchi: i rimpianti le avevano
scavato l'anima.
Elena non aveva mai chiesto nulla più di quello che potevo
offrirle nella vita di ogni giorno: le ero vissuto accanto senza
accorgermi di soffocarla.
Quando rinvenne per la gioia: -Che cosa faremo con tutti questi
soldi? Sono troppi; non ho mai desiderato una ricchezza così
grande!-
La nostra convivenza era sempre stata quieta e senza liti: la
nostra vita era stata come tante altre, con piccoli problemi e
con semplici gioie.
Avevamo due figli, un maschio di diciotto anni e una femmina di
venti: non c'era da scialacquare col mio stipendio, ma con un po'
di straordinari ero riuscito a mantenerli agli studi superiori.
Gigliola, la maggiore, all'università frequentava Economia e
Commercio, mentre Giovanni si stava diplomando in ragioneria.
Li avevo indirizzati verso studi pratici, che assicurassero loro
un futuro.
Quando essi mi trovarono a casa in orario insolito e videro la
loro madre piangente, si preoccuparono: -Cos'è successo?-
Li abbracciai con impeto: -Abbiamo vinto il primo premio alla
lotteria di Merano!-
Essi spalancarono gli occhi, stupiti, increduli mostrai loro il
biglietto del miracolo.
Saltarono, urlarono, presi da un entusiasmo incontrollato.

Gigliola trovò per prima la calma: -Papà! Come vuoi investire
questi capitali? Non sarà in appartamenti o in titoli statali,
spero?-
-Penseremo poi a questo, ora facciamo festa!-
Ella insistette: -No! Bisogna preoccuparsi subito, per non farsi
mandare in malora dalle tasse! Esistono azioni sicure, oppure
delle attività commerciali molto redditizie, c'è solo l'imbarazzo
della scelta!-
Le risposi affettuosamente: -Figliola! Ci penseremo....-
Ella alzò la voce: -Non sei mai stato capace di concludere un
affare! E' meglio che li gestisca io questi soldi, pure della
riscossione mi preoccuperò io!-
Giovanni approvò l'opinione della sorella.
Mi sentii avvilito: i miei figli si ribellano, dopo tutto quello che
avevano ricevuto da me.
Il campanello di casa squillò ripetutamente, aprii.

Una piccola folla di amici, colleghi e parenti entrarono con
irruenza, per congratularsi della vincita: euforico, avevo dato
la notizia al portinaio del palazzo, senza preoccuparmi delle
conseguenze.
Fui costretto a dare fondo alle bottiglie di liquore, conservato
con tanta parsimonia da mia moglie per gli ospiti importanti.
Ci fu chi, superstizioso, mi toccò la pelata e la gobba, che non
avevo.
Furono peggiori di una nube di cavallette: fecero danni,
sporcarono, rubarono qualche oggetto.
-Tanto è così ricco che non se ne accorgerà neppure!-
Parenti, amici e imbroglioni di professione mi proposero molti
progetti: tanti consigli strambi, tutti assieme, non li avevo mai
ricevuti.
Il vicino disoccupato si impose, senza il mio benestare, come mio
segretario e per tutta la sera mi stordì col suo "affare del
secolo", ovvero un enorme allevamento di lumache.
Un parente alla lontana, che non incontravo da anni, pretendeva
che gettassi l'intera somma per finanziare una sua invenzione, a
sentir lui geniale: una macchina che funzionava con energia
scoperta e imbrigliata da lui.
Insomma, una masnada di esaltati e di furbi mi costrinsero a
sopportare le loro stranezze sino a tarda notte.
Poi, finiti i liquori, delusi dalle mie opposizioni, se ne
andarono.
Era quasi l'alba e non avevo ancora sonno: uscii per respirare
un po' di aria pura e per meditare in solitudine.
Camminai alcune ore senza meta nella città, che si risvegliava.
Finalmente, stanco, mi sedetti su una panchina.
Avevo l'aspetto di uno che aveva passato una notte in bagordi:
una gentile signora anziana mi si accostò per informarsi se mi
sentivo male.
Capita improvvisamente di trovare semplici soluzioni a problemi,
che ci avevano assillato sino alla disperazione.
Come per incanto le mie idee si schiarirono: il denaro era mio e
lo avrei gestito nel modo che ritenevo migliore.
Avrei acquistato, al mio paese in Basilicata, la vecchia tenuta
in rovina dei Franciosio e l'avrei riattivata.
Ero partito per il Nord venticinque anni prima, con solo una
valigia di logori effetti personali, mentre ora ritornavo come il
nuovo Signore del paese.
Mi avrebbero chiamato Don Paolo e si sarebbero tolti tutti il
cappello, salutandomi amici e nemici.
Stavo fantasticando sul mio futuro di proprietario terriero,
quando mi venne la nostalgia del mio vecchio ufficio: non ero
distante e volli vederlo per l'ultima volta.
Bussai alla finestra dell'anziano guardiano, che appena mi scorse
si congratulò sinceramente con me.
Non si meravigliò della mia richiesta, continuò a complimentarsi
e rifiutò la mancia che gli offrii.
La mia scrivania era nel solito ordine. Un assurdo rimpianto mi
prese e nessun pensiero di futura felicità riuscì a scacciarlo:
gli anni più sereni della mia vita li avevo trascorsi in quel
luogo e forse erano stati i più belli.
Se fossi stato solo avrei pianto.
Un dubbio atroce mi assalì: -Sarò così felice in futuro, o con il
denaro la tranquillità sarà fuggita per sempre?-



RACCONTO TRATTO DAL LIBRO "Gli statali. Gioie e dolori per il posto fisso”

Scritto da Arduino Rossi

- Morpheo editore – Narrativa

http://www.morpheoedizioni.it/Gli_Statali.htm