15 set 2010

Documento elaborato da Ciani Vittorio x l’Ufficio Documentazione Diocesi Piacenza-Bobbio. Per gentile concessione del Relatore. Lettura biblico-teologica del tema di cui al titolo del documento

Diocesi Piacenza-Bobbio
Ufficio Documentazione
Salone degli Arazzi – Collegio Alberoni

Convegno Pastorale Diocesano
Coraggio, sono io, non abbiate paura!

10-11 Settembre 2010

Verso il secondo anno della Missione Popolare Diocesana

Ore 14,30   11 Settembre 2010

Documento elaborato da Ciani Vittorio x l'Ufficio Documentazione Diocesi Piacenza-Bobbio.
Per gentile concessione del Relatore. Lettura biblico-teologica del tema di cui al titolo del documento

Don Antonio Torresin,
teologo

Le esperienze umane fondamentali tra paura e fiducia

Si impara a credere attraversando i tornanti della vita, non protetti e immersi in ambienti preservati dagli imprevisti, artificiali; piuttosto si impara a credere gettati nell'esistenza, "senza rete", senza sapere prima l'esito della prova. Una fede che fosse l'esito di un processo d'indottrinamento rimane debole; le credenze imparate in un ambiente troppo protetto e che simulano la vita in modo artificiale, devono poi passare dal fuoco della prova della vita per scoprire la loro verità. È nel dramma della storia che s'impara a credere. Per questo il tema scelto mi pare affascinante per rileggere oggi il dramma della nostra fede.


Vorrei svolgerlo molto semplicemente in tre momenti. Dapprima proviamo a chiederci quali siano le "esperienze umane fondamentali", quelle che fondano la vita che gli danno una forma plasmando l'identità di un uomo, di una donna e di una comunità. Poi attraverseremo la regione della paura, come un sentimento che non è per nulla estraneo alla fede. Solo dopo cercheremo di chiederci quali passi possono aiutare a credere.

Le esperienze umane fondamentali:
dove la vita si sporge sul mistero che la abita.

Premesse

La drammatica della vita e della fede

Quali sono le esperienze che possiamo dire "fondative"? Sono quelle che formano l'identità, dove la persona riceve la vita e la decide. Esse hanno insieme una forma passiva e attiva. Prima, infatti, la vita la riceviamo in dono e insieme la subiamo come qualcosa che non possiamo scegliere; non scegliamo di nascere, il nostro nome, il momento e il luogo nel quale vivere; questa esperienza passiva apre alla possibilità e al compito di decidere, di scegliere, di fare diventare la vita il luogo della nostra libertà. Ciò che "accade", imprevedibile e indeducibile, descrive la scena nella quale si svolge il dramma della libertà: nel senso di una storia il cui copione non è scritto prima, non è anticipabile, ma lo si impara vivendo. Anche Il Figlio, ci dice la lettera agli Ebrei (cf Eb 5,8), dovendo assumere la forma umana in tutta la sua pienezza "ha imparato" la sua identità, il suo essere Figlio, dalle cose che ha "patito". Così credere, riconoscere nella relazione con il Padre la forma buona della vita, non avviene se non dentro una storia, nelle cose che "accadono": in esse il credente impara a vivere in obbedienza al Padre, riconoscendo in questa relazione la sua speranza, la pienezza della vita che quindi è degna di essere voluta e scelta.


Questa tensione tra il patire la vita e il decidere, la possiamo dire anche nella dialettica di grazia e libertà: la grazia – il dono della vita che si manifesta in Gesù (perché per noi la grazia ha il nome del Figlio) – è un evento che precede la nostra adesione e la rende possibile. Credere è riconoscere di essere stati amati gratuitamente – mentre eravamo ancora peccatori, direbbe Paolo, ovvero amati non perché amabili ma perché eletti, fatti oggetto di un amore gratuito – e insieme riconoscere che questo amore chiede una corrispondenza, una risposta. La fede cristiana chiama tutto questo "vocazione", e la prima chiamata è proprio alla vita, all'esistere come uomini e donne, come comunità di credenti, come popolo amato e scelto da Dio.

Drammatica della vita e storia con i suoi "passaggi" (Giacobbe)

Ma "come", in che modo, con che tempi tutto questo prende forma? Avviene dentro una storia di libertà. Proverei a descrivere questa storia di libertà in due percorsi, che potremo descrivere solo allusivamente. Il primo è più attento alla dimensione della identità del soggetto, più legato alla storia personale. Il secondo più attento alla forma sociale, alla dimensione comune. Perché noi siamo insieme unici e legati gli uni agli altri. Non a caso anche nelle declinazioni che avete scelto di approfondire lungo l'anno (gli affetti, la fragilità e la cittadinanza) troverete queste due piste che ovviamente sono profondamente intrecciate.


Un'ulteriore precisazione: la storia ha dei suoi tornanti, dei passaggi che sono come delle emergenze dove quanto prima era implicito viene alla superficie: sono momenti rivelativi, e sono anche momenti critici. Le esperienze fondamentali sono spesso dei passaggi: come le età della vita. Momenti segnati da una crisi: qualcosa finisce, a volte si rompe, ci fa vivere momenti di separazione e distacco; e qualcosa d'inedito si affaccia e comincia. Proprio in questi frangenti la vita sembra sporgere sul mistero che la abita.


Tra le tante storie bibliche ne scelgo una straordinaria, quella di Giacobbe, perché è insieme la storia di un credente, ma anche storia di un popolo: egli diventa quell'Israele da cui nasceranno i dodici figli capostipiti delle dodici tribù. Ora tutta la vicenda di Giacobbe è una storia che potremmo dire molto profana, poco religiosa, del tutto secolarizzata. Egli non parla con Dio, non ha rivelazioni che puntellano il suo cammino come Abramo. Di per sé è una storia ben poco edificante: Giacobbe è un mascalzone, che ruba la primogenitura, che imbroglia il padre ed è imbrogliato da Labano. Non ci deve stupire che le storie sacre siano anche storie di peccatori! Ma in questa storia profana ci sono due episodi che la circoscrivono, due passaggi. In essi Giacobbe fa i conti con Dio. Nel primo (Gen 28,10-22) Dio gli appare mentre è un uomo in fuga, a rischio della vita, mentre si avvia per una terra straniera. Dio gli appare in sogno, il cielo si apre e la promessa gli viene nuovamente consegnata come speranza nel momento in cui tutto sembra perduto. Nel secondo episodio (Gen 32,24-32) Dio lo affronta come un angelo che gli sbarra la strada, contro cui deve lottare. Egli che ormai è ricco, che ha imparato molto dalla vita, che fa ritorno e deve affrontare di nuovo Esaù, il suo passato che ritorna!; e proprio in quel momento Dio gli sbarra la strada, e anche con lui sembra dover fare i conti; Giacobbe combatte con Dio e Dio non lo vince, lo ferisce e gli cambia il nome, identità, da Giacobbe in Israele. In questi passaggi la vita molto poco religiosa di Giacobbe, si affaccia sul mistero. È un mistero che sorprende e a volte spaventa: ci accorgiamo che la vita è più grande, è anche un abisso nel quale possiamo perderci. Proprio di fronte a questi attimi, dove sporgiamo sul mistero come sul ciglio di un abisso, prende forma il senso più radicale della fede, ma che è immediatamente connesso con la paura. "Dio abita in questa terra e io non lo sapevo". "La vita è più grande di me, e insieme è proprio a me che si rivolge questo mistero, mi si para davanti come un nemico e insieme come colui che porta un nuovo senso, che mi cambia il nome, che fa di me un uomo nuovo", che fa di un gruppo di sbandati un popolo.

1.2. Le età della vita

Proviamo ora a riprendere il filo delle "esperienze fondamentali" a partire dalla parabola della esistenza di ogni uomo e di ogni donna. Il riferimento ovvio ma ancora – credo – insuperato è all'opera di Romano Guardini. Egli ha descritto le stagioni della vita come passaggi, come il prender forma di un'umanità nei tornanti dell'esistenza. Alla sua riflessione – con intenti fortemente pedagogici – soggiace l'idea che ogni fase della vita sia legata intimamente alle altre e insieme abbia dei tratti specifici e unici. Questo permette di pensare l'identità: qualcosa perdura, rimane, "dice chi sono" nei diversi momenti della vita: "sono proprio io, sono sempre io". Per un certo verso rimane sempre in noi ciò che è stato: resta in noi il bambino, l'adolescente, il giovane, l'adulto … Anche se non in modo fisso: il rischio è infatti che uno resti sempre e solo bambino, giovane ecc. Dall'altra parte assieme alla continuità occorre pensare la libertà, l'imprevedibilità: ci sono aspetti della vita che non posso sapere prima, non posso anticipare; e anche se qualcosa è accaduto il futuro non è la conseguenza deterministica del passato.


Ora questa "tensione polare" – tipica in Gardini – viene alla luce soprattutto attraverso passaggi che sono vere e proprie crisi: se non accettiamo la fine di una stagione della vita non permettiamo che ne inizi una nuova. Il passaggio è sempre anche un "lasciare", un lutto, e una perdita: proprio per questo però è anche una nascita, un inizio, qualcosa di nuovo accade perché qualcosa di vecchio è lasciato andare.


Sono diversi i modi con i quali possiamo leggere le stagioni della vita. Mi avvalgo della riflessione sintetica di Angelini 1, che ne riconosce "tipologicamente" tre e in ciascuna due al loro interno. Non potremo svolgerle se non allusivamente e cercando di ascoltare in essa delle armoniche bibliche che ci restituiscano non solo una fenomenologia della vita ma in essa della fede.

La meraviglia: come un bimbo svezzato in braccio a sua madre

La stagione dell'inizio: infanzia e fanciullezza,

ovvero la grazia di esistere e lo stupore della crescita


Di per sé anche questa fase della vita si apre con una crisi, un trauma: quello della nascita. Un distacco e una separazione dal mondo uterino, dove la vita sembra essere protetta e capace di avvolgere e nutrire senza interferenze. Ma questo trauma è come dimenticato, vive inconscio nel bambino, nella misura in cui il suo apparire nel mondo è stato accolto da qualcuno che lo ha preso in braccio, lo ha nutrito e accudito. Certo se questa prima esperienza (nascere ed essere accolto) subisce una ferita, un abbandono, anche questo rimane iscritto nell'inconscio del bambino, che rivivrà sempre la paura di non trovare nessuno, che vivrà ogni distacco come un pericolo. La fiducia prende forma proprio in questa esperienza iniziale: il bambino sa – senza saperlo – che può staccarsi perché qualcuno lo accoglier e lo prende tra le sue braccia. Egli impara che la vita lo nutre, anche se lo separa dal grembo materno. Lo svezzamento è una nuova esperienza della relazione con il mondo: se prima il nutrimento aveva una forma fusionale (come una continuazione del cordone ombelicale), poi il bambino impara nuovi gusti e nuovi sapori, solo se accetta di separarsi dal corpo della madre – e lei dal suo – senza paura di perdere il sapore della vita. Per questo nel salmo (Sal 131) l'esperienza della pace è descritta come un bimbo che riposa, svezzato, in braccio alla madre. Egli è già identificato, altra cosa da lei, ma protetto circondato dalle sue cure. L'identità è insieme separazione e relazione.


Così muoverà i primi passi nel mondo: per camminare egli dovrà staccarsi dalle braccia di chi lo sostiene certo che quelle braccia ci saranno ancora in caso di bisogno; senza paura, spinto dalla meraviglia alla scoperta di un mondo nel quale ogni cosa è buona, perché qualcuno la rende casa, domestica, familiare.


Dentro questa fiducia originaria la molla che spinge è proprio la meraviglia: essa è generata dalla percezione della anticipazione della vita, che suscita appunto la curiosità, la scoperta del mondo. Uno sguardo benevolo fa sorridere, una parola ricevuta insegna a parlare, a dare un nome alle cose. È dunque possibile questa esperienza fondamentale della meraviglia solo e qualcuno si fa carico di testimoniare il carattere benevolo della vita: occorre una madre e un padre che assicurino il bambino; essi sono i primi testimoni della affidabilità della vita: "non temere, tutto andrà bene, tutto è per te, il mondo ti sorride e tu puoi andargli incontro senza paura, perché si sono io".


La vita anticipa e suscita appunto la meraviglia. Questa a sua volta diventa principio di conoscenza: il fanciullo inizia ad esplorare la vita, la casa, a prendere possesso delle cose. Non senza nuovi traumi: non solo perché e cose resistono, perché per camminare si cade mille volte; molto più perché scopriamo che il mondo che abitiamo è già abitato: la scoperta della alterità, della fraternità in particolare, sarà una dura lezione per il bambino, che impara a crescere sapendo che tutto è per lui ma lui non è il solo nel mondo. Ancora una volta sarà necessaria la presenza di qualcuno che "regola" questa scoperta, che offre un principio di giustizia, che permette alla conflittualità di essere sopportata e addirittura di diventare principio buono di crescita. I bambini giocano e lottano come Isacco e Ismaele sotto gli occhi del padre Abramo, come Giacobbe ed Esaù nel ventre della madre. Tutto questo presagisce la lotta della vita, ma ancora in un contesto protetto.


Il gioco sembra la forma prima della scoperta del mondo: un'immersione nel tutto della vita, dove non c'è ancora spazio per la distinzione tra reale e fantasia, ma proprio per questo c'è una immediatezza della relazione con le cose e con il mondo che lo rende capace di un sentimento religioso, quello che Guardini chiama sentimento della "totalità". Tutto quello che conosce nel gioco esiste realmente, e proprio in questo modo il bambino prende contatto con il mistero della vita. Ancora il gioco permette al bambino di vivere insieme il senso della gratuità e della "assenza di scopo" e contemporaneamente il rigore delle regole che rendono possibile il gioco stesso. Così grazia e legge, nel gioco, si sposano senza conflitti. Sono esperienze fondamentali che iniziano alla vita e alla fede. D'altra parte questa fiducia è insieme sempre accompagnata dalla paura: nelle favole che il bambino ascolta egli prova insieme la paura del male e di quanto c'è di mostruoso e la fiducia del lieto fine: un presagio e una profezia che attende di essere vissuta nel mondo, fuori dalla casa protetta dalla presenza di un padre e di una madre.

Senza volgersi indietro: tu seguimi

La stagione della vocazione: l'adolescenza e la giovinezza,

ovvero il coraggio di decidere e l'audacia di partire


L'entrata nella scena del mondo caratterizza la stagione della adolescenza e della giovinezza. Entrare nel mondo è insieme trovare uno scopo e partire di casa.

L'età della adolescenza è caratterizzata dal sentimento della libertà: a volte anche semplicemente come trasgressione, come necessità di mettere alla prova quelle norme che nella casa presiedono alla vita, ma che vengono saggiate, messe alla prova. Provare è tipico dell'adolescente, anche con il rischio di vivere sempre "in prova". In questo caso addirittura la libertà diventa un alibi per non decidersi e non legarsi in alcun modo. Invece "il senso della libertà è la capacità del soggetto di volere davvero quello che fa" (Angelini), di trovare uno scopo che autorizzi una decisione.


Il nesso inscindibile tra libertà e decisione, è certamente un punto critico del nostro tempo – e forse di ogni tempo. Anche in questo caso la dialettica tra passività e attività è messa in gioco. Particolarmente significativo è il mondo degli affetti che non a caso assorbe interamente le energie e le forze di questa fase della vita. L'amore sembra presentarsi come un'attrazione che spontaneamente sequestra il soggetto, che si trova interamente conquistato. Ma lo è davvero? È vero quell'amore? Egli non può saperlo se non perché per esso trova il coraggio di decidersi. Questo significa anche fare una scelta che sembra un azzardo, una scelta che lo proietta fuori dal proprio mondo e verso un futuro che non conosce. In questo senso non c'è decisione senza un taglio, una partenza.


Gesù sembra sapere che questo è il punto critico: a chi si avvicina a lui attratto dalla sua persona, chiede il coraggio di una scelta senza ripensamenti, (cf Lc 9,57-62) "senza volgersi indietro", una scelta che rompe con un passato – con degli affetti, quelli del padre e della madre – che possono tramutarsi in una tana e in una tomba che impediscono il coraggio di decidersi. Questa decisione in realtà oggi sembra sempre più procrastinata, sempre più sotto lo scacco di un'indecisione radicale. Per questo Gesù non lascia spazio a prove, a tentennamenti: lasciare il padre e la madre, gli affetti e la casa, è condizione per accedere ad un futuro nuovo e ad una relazione vera con lui.


"Al vertice dell'adolescenza sta la scelta, che consente di mollare gli ormeggi dalla vita precedente e soprattutto dagli affetti precedenti. Lo stacco dalla banchina e l'avanzamento verso il mare aperto minaccia di generare una sorta di vertigine; la caratteristica del giovane come definito nella sua immagine convenzionale è l'inclinazione decisa della sfida nei confronti di ciò che appare sconosciuto" (Angelini). Così nell'esperienza dell'amore, della vocazione: essa è come lo sporgersi verso un futuro che non possiamo prevedere, che non è nelle nostre mani, ma che è possibile conoscere solo se si ha il coraggio – che sembra sfiorare l'incoscienza – di partire senza volgersi indietro, senza tenere una via di fuga.


Anche in questo caso possiamo percepire come paura e fiducia siano contigue: chi decide di legarsi ad una persona per tutta la vita sente come il senso di una vertigine; è attratto da un amore che lo spinge a decidere, ma insieme sente che sta per sporgersi verso un futuro che non conosce: "cosa accadrà, come la vita ci cambierà?" Proprio per questo il tempo della decisione e la sfida del futuro sono momenti che riaprono il senso religioso della vita. Come se davanti al futuro che si apre, come di fronte a qualcosa di più grande di loro – perché questo è l'amore: qualcosa di eccessivo, troppo bello per essere vero, come si dice – un uomo e una donne sentissero di dover volgersi a qualcuno che autorizzi il coraggio fare un passo che ha la forma della fede.

Un altro ti porterà dove tu non vorrai: la pasqua della vita

La stagione della fedeltà: la maturità e la vecchiaia,

ovvero la forza della vita e la vita quando le forze vengono meno


La vita adulta non sembra la stagione più amata dal nostro tempo, che oscilla tra una enfasi giovanilista e una adolescenza prolungata. Essa si presenta come una nuova prova: potremmo sottolineare soprattutto la prova della complessità e della durata. Da una parte l'idealità giovanile, i desideri e le aspettative che hanno caratterizzato la partenza giovanile, devono misurarsi con un reale che non corrisponde spontaneamente e subito ai desideri, con una reale che "resiste". La vita è più complicata, gli imprevisti sono capaci di ribaltare i progetti. Anche in questo caso troviamo la polarità tra paura e fiducia. Sorgono domande scomode: forse il progetto era sbagliato, la scelta azzardata, il passo più lungo della gamba? Mi sono sbagliato? È tutto qui? La vita, invece, è ancora in grado di sorprendere, nel bene e nel male; ma di nuovo bisogna che la paura sia sostenuta dalla fiducia; le persone cambiano, la vita le cambia, e scopriamo lati di noi stessi e degli altri che non pensavamo; la promessa iscritta nella decisione di partenza deve essere rinnovata, deve tenere di fronte alla prova, alle delusioni e alle sorprese inaspettate. La complessità chiede di trovare una "misura" diversa dalla irruenza della stagione giovanile: non bastano il coraggio e la forza, occorrono anche la resistenza e la pazienza. Nella ripetizione, a volte nella monotonia della continuità sono nascosti beni preziosi, ma per essere colti chiedono una tenacia e uno scavo più profondo, la prova della "durata" nel tempo. Come nel lavoro del contadino occorre sapere riconoscere i tempi diversi del lavoro: quello della semina e quello dell'attesa, e solo poi quello del raccolto (Mc 4). Esiste un fascino nella durata, nel lasciare che il tempo ci metta alla prova, faccia emergere e misuri la verità della nostra umanità, ma sembra un fascino troppo discreto per essere apprezzato oggi rispetto alla folgorazione della spontaneità. Eppure è proprio così: l'uomo adulto sa aspettare e resistere.


Ma soprattutto la prova più delicata è quella del limite. In molti modi si affaccia nella vita: nel corpo, nel lavoro, nei progetti, nelle relazioni. La percezione del limite all'inizio ha la forma di una delusione: gli altri sono meno di quello che ci aspettavamo, forse noi stessi siamo al sotto delle nostre aspettative; in definitiva sembra sia la vita che delude le nostre attese. Ci accorgiamo che alcune cose – di noi e degli altri – siamo riusciti a realizzarle, a cambiarle ma altre, molte forse le più, non siamo in grado di farle aderire alle nostre aspettative. La vita sembra doversi assestare ad un livello inferiore alle nostre speranze: si tratta allora di rassegnarsi? Di accettare? Di ribellarsi, di cambiare? La tentazione è proprio questa: di cambiare radicalmente direzione cercando in una nuova forma di vita quello che sembra non realizzarsi pienamente in questa. Ma a volte questo sembra una fuga, e impietosamente la questione si ripropone: anche le nuove strade si misurano con un limite insuperabile. Guardini la chiama la crisi della maturità, dei quarant'anni: giunto a metà della propria vita ci si accorge che le possibilità non sono infinite che alcune di queste non si ripresenteranno, che inizia una parabola che sembra discendente. O forse impariamo a fare i conti con il limite e la fragilità che in un'altra parte della vita abbiamo come rimosso. Jung rilegge questo passaggio dicendo che ciascuno di noi sviluppa solo una parte, quella "solare", quella più positiva, o semplicemente quella che gli altri e le situazioni ci inducono a coltivare; ma esiste una parte in ombra, "lunare" che resta sconosciuta. Il momento nel quale ciascuno si accorge che la parte "solare" ha raggiunto il suo apice forse si apre lo spazio per una ripresa di una parte di noi che è rimasta nascosta, e il più delle vote ha proprio a che fare con la nostra fragilità e debolezza. Questo non significa affatto rinnegare ciò che ci ha spinto fino ad ora a vivere e a costruire un progetto e una storia; ciò non annulla le promesse di Dio alle quali abbiamo creduto, ma ci apre alla possibilità di una loro realizzazione che avviene altrimenti, e che avviene anche nella incompiutezza di una vita nella quale molto resta sospeso: "Dio non realizza tutti i nostri desideri, ma tutte le sue promesse, così egli rimane il Signore della terra, conserva la sua Chiesa, ci dona sempre nuova fede non ci impone mai pesi maggiori di quanto possiamo sopportare, ci rende lieti con la sua vicinanza e il suo aiuto esaudisce le nostre preghiere e ci conduce a sé attraverso la via migliore e più diritta" 2.


In fondo la vita inizia a prepararci alla stagione finale nella quale ciascuno deve misurarsi con il limite ultimo che è la morte. Ma molto prima si impara a fare i conti con il limite nell'esperienza della "perdita". Vengono meno le forze, si perde il potere, il ruolo, si perdono le persone, e la vita passa attraverso una spoliazione. Tra "resistenza e resa" occorre che la vita impari a fare i conti con la fine senza perdere la speranza. Certo non senza la paura della morte, e la paura di un'esperienza che umanamente sembra consumare: non c'è nulla di romantico nel declino delle forze. Eppure …. C'è una radicalità e una essenzialità della vita e della fede alle quali si accede solo in questa spoliazione. Come dice Gesù a Pietro (cf Gv 21,18-19): quando eri giovane … quando sarai vecchio … Tendere le mani e lasciarsi portare; accettare che la vita ci porti, che gli altri siano padroni della nostra vita: tutto questo diventa il luogo di una sequela radicale, di un sì detto a Dio con tutta la nostra vita. O come dice Paolo (cf 2Cor 4,16): l'uomo interiore cresce nella misura in cui sembra invece consumarsi il suo corpo, l'uomo esteriore. La spoliazione diventa il terreno di una consegna, di un dono della vita fino alla fine.

1.3. La storia fondativa del popolo di Israele

Vediamo ora solo rapidamente il lato sociale di quelle che stiamo cercando di identificare come esperienze fondamentali. Occorrerebbe rileggere l'intera storia di Israele per ritrovarvi i capitoli e i passaggi di una storia dalla quale nasce un popolo e una coscienza collettiva. Anche in questo caso, come nella storia biografica abbiamo stagioni diverse: potremmo addirittura parlare – come la Scrittura stessa fa – di un popolo bambino, di una stagione di giovinezza e di una serie di crisi. Ma qui forse è sufficientemente fare riferimento alla parabola esodica. L'esperienza dell'esodo è stata percepita da sempre come fondativa: qui è nato il popolo dell'Alleanza, in questa storia hanno preso forma le istituzioni fondamentali della fede di Israele (la torah, la profezia, il sacerdozio …). Per questo l'esodo diventa un paradigma della storia; un paradigma con cui poi rileggere e reinterpretare ogni momento della storia stessa di Israele, che attraverserà nuovi esili, nuove partenze, esodi e ritorni nella terra.

La nascita come liberazione

Tutto comincia come un parto. Il popolo non esiste se non come un grido inconsapevole che Dio ascolta. Dio ascolta e si ricorda delle promesse che il popolo aveva dimenticato. Questo ricordo di Dio fa nascere il popolo, fa iniziare una storia, mentre la dimenticanza del popolo lo mantiene in una condizione di prigionia. Se Dio si ricorda allora la storia comincia e nasce un popolo. Dio lo prende come un bimbo e lo porta sulle sue spalle o sulle sue ali (Es 19,4) come un'aquila i suoi piccoli. Il popolo è quindi portato in braccio, sollevato e condotto per mano. Le grandi gesta di Dio, le opere meraviglioso, la forza contro i nemici che opprimono Israele saranno i segni prodigiosi che accompagnano la nascita: come un parto tra le acque il popolo uscirà dalla condizione di schiavitù per diventare un popolo libero, per servire il suo Dio e non essere più servo dell'Egitto. Non ne uscirà con la sue forze, ma per mano di un altro. Nascere è passare in mezzo al mare, è attraversare la grande paura e fidarsi che Dio potrà aprire le acque e sconfiggere nemici che sono assolutamente sproporzionati rispetto alle deboli forze di un popolo infante. La Pasqua è il momento fondante l'identità di Israele, perché qui è nato il popolo, perché ha imparato a credere, a fidarsi della forza di Dio di fronte al mare, di fronte al male e alla morte.

La prova della libertà e il dono della legge

Ma la storia di questo popolo deve poi conoscere la stagione della prova, la dura prova della libertà. È il momento del deserto, la lunga marcia di quarant'anni per arrivare ad una terra promessa che però, nel cammino di ogni giorno, sembra sempre ancora da venire. Per intanto il popolo impara a fidarsi, in una terra ostile e arida, dove manca l'acqua e scarseggia il cibo. La prova della libertà è quella di chi deve fidarsi delle promesse anche di fronte alla loro non immediata realizzazione. Proprio qui il popolo mette alla prova Dio, alle acque di Meriba (cf Es 17), e conosce l'esperienza della ribellione: la nostalgia della terra d'Egitto e la recriminazione di fronte alla durezza del cammino e alla precarietà del cibo. Proprio per non dimenticare l'inizio, la paura e la fede dei primi passi, l'opera della grazia di Dio che salva e la condizione di schiavitù da cui è partito, Dio dona al popolo una legge (Cf Dt 5,1-21; Es 20,1-17. Prima di essere un codice di comportamento etico è un patto che sigilla un'identità nella memoria: ricordati che fosti schiavo in Egitto e che Dio ti ha liberato, ricordati che fosti straniero in terra straniera …

Senza memoria delle opere di Dio la legge perde il suo senso: la promessa di Dio è la premessa dell'Alleanza della legge. È per restare liberi che è data una legge, per non perdere la libertà ricevuta in dono che il popolo sceglie di aderire ai comandamenti. Il rapporto tra comando e storia, tra legge e memoria è fondamentale: un popolo senza memoria perde la propria identità, e non bastano dei codici di comportamento morali. Occorre una storia nella quale ci si riconosce e che diventa fondamento della identità.

L'entrata nella terra tra incompiutezza e nuova nascita

Anche l'ultimo passaggio è suggestivo. Mosè che ha condotto il popolo non entrerà nella terra. La vede dal monte ma non può entrarvi. La sua vita sembra incompiuta: o meglio avviene nella sua fine un passaggio di consegna che sarà un passaggio di fede. Egli non entrerà nella terra ma Israele non entrerà senza di lui, senza che lui passi la consegna a Giosuè. L'entrata nella terra è quindi una morte e una nuova nascita (cf Dt 31,1-8; Gs 1,1-9). Entrare nella terra per Mosè significa accettare di morire, per Giosuè significa cominciare a nascere. E sarà un novo passaggio, un nuovo esodo. Anche perché la terra promessa non sarà immediatamente accessibile, ma dovrà essere conquistata tra paura e coraggio. Il carattere escatologico di questa fine – che è un nuovo inizio – pare evidente: la pienezza e il compimento delle promesse sono davanti al popolo e non mai un possesso da considerare acquisto definitivamente. Appunto perché solo "nella speranza siamo salvati" ed entriamo nella terra promessa.


Anche un popolo ha una storia che deve attraversare paura e fiducia per non perdere la propria identità.

II. L'esperienza della paura

2.1. I volti della paura

Anzitutto dobbiamo dire che l'esperienza dalla paura ha diversi volti. «La paura è fondamentalmente ambivalente: è un'emozione primaria che funziona da strumento di difesa, da elemento di strutturazione della persona finalizzato alla sua sopravvivenza, ma può anche diventare fattore di inibizione e di paralisi che impedisce le reazioni, provoca regressioni e involuzioni della persone che ne ostacolano la crescita e il pieno e libero dilatarsi. La paura, inoltre, non riguarda soltanto gli individui, ma anche la collettività. Le collettività e le civiltà stese sono impegnate in un dialogo permanente con la paura» 3. Ci sono paure che fanno sopravvivere e paure che paralizzano: c'è la paura del pericolo, del fuoco, della guerra, dello sconosciuto; la paura della nascita e della crescita, del nuovo, del futuro, dell'altro, delle relazioni; ci sono paure più intime, di se stessi e di Dio. C'è una paura che appartiene al tempo che viviamo: la paura del futuro, della precarietà, sono di queste. Forse c'è anche un'angoscia profonda, di un senso di vuoto che abita tutte le forme della paura. Sono molti i volti della paura.


Se volessimo andare al cuore di questa esperienza potremmo dire forse che è legata ad una percezione di vuoto, di mancanza e di assenza. La paura che non ci sia nessuno, che diventa angoscia – come già Kerlegaard ha indagato. Ovvero quella paura che non si giustifica per un pericolo preciso, per un oggetto determinato, ma che scava dentro il senso di un vuoto esistenziale che non ha nome, ma è sempre la sensazione di una mancanza, di un precipizio, un abisso e un vuoto appunto. Come mai la paura sembra aver cos' intimamente a che fare con il "senso del vuoto"?


La prima esperienza della paura – e forse quella che ne esprime il senso in modo essenziale – coincide proprio con l'esperienza della nascita. «Il trauma della separazione dal grembo materno al momento della nascita viene colmato dal gesto della puerpera che prende il neonato tra le sue braccia e lo stringe dolcemente al petto. E il neonato, sottratto al forte senso d'impotenza che lo attanaglia in questi primi istanti del suo esistere, si abbandonerà a quell'abbraccio celebrando insieme alla madre l'atto della reciproca appartenenza. Quel gesto iniziale può essere tradotto in una semplice e solenne affermazione: Io sono tua madre e tu sei mio figlio; e nello stesso tempo: Io sono tuo figlio e tu sei mia madre. È un evento fondamentale: nel senso letterale della parola. Esso rappresenta il primo atto mentale mediante il quale il neonato si autodefinisce come appartenenza all'altro e, attraverso l'appartenenza all'altro, come appartenente a se stesso. L'immagine di sé che scaturisce da questo evento è quella di un essere che riesce a sopravvivere in virtù della presenza amorevole e disponibile di una altro essere» 4. La paura è il contrario: la sensazione che non ci sia nessuno che ci accoglie nel momento in cui siamo gettati nel mondo. Ha a che vedere con questa mancanza di appoggio di sostengo (notiamo: la fiducia è proprio il senso di un appoggio affidabile e stabile).

2.2. Paura di fronte all'assenza di Dio

Ma più che approfondire l'aspetto psicologico e antropologico ci interessa qui il profilo teologico. Quale paura segna l'esperienza della fede? L'uomo che alza lo sguardo al cielo – che invoca come atto fondamentale di ogni fede – teme che nessuno presti ascolto alle sue preghiere, ha paura che il cielo sia chiuso, che forse sia addirittura vuoto.


Forse possiamo dire che è l'assenza di Dio, la sua scomparsa dalla scena di questo mondo, che ci porta a dover fare i conti con una paura del tutto particolare. Si tratta anche in questo caso di un vuoto, della sensazione che l'uomo possa sì tendere le mani ma con la paura che nessuno corrisponda alla sua pretensione.

In questo senso possiamo parlare di una paura che si presenta in un modo nuovo nel nostro tempo. Vorrei seguire qui il filo di un ragionamento che ha svolto Maurice Bellet in un suo ultimo libro dal titolo evocativo: Dio? Nessuno l'ha mai visto 5. Egli prima esprime il paradosso del nostro tempo che vive Dio come una questione inevitabile e insieme sospetta. Inevitabile perché è impossibile pensare la storia della nostra cultura senza confrontarsi con i segni del suo passaggio. Eppure sospetta: l'uomo contemporaneo si è fatto sensibile alla possibilità che su Dio si concentrino equivoci, fraintendimenti, e soprattutto proiezioni dell'uomo stesso, dei suoi bisogni, dei suoi sogni e delle sue paure.


Intanto Dio sembra scomparso. «Altre volte accade che la più viva fede in Dio (forse anche proprio per questo) sia profondamente provata dal sentimento della di lui scomparsa» Dio scompare per "semplice cancellazione", scompare nel silenzio di vite umane nelle quali la parola stessa perde significato e viene dimenticata. Non siamo più al tempo dell'ateismo, che è ancora una affermazione forte circa Dio e la sua esistenza o meno. Dio è semplicemente dimenticato: «egli è ben sepolto e la sua tomba dimenticata e perduta. Non vi è traccia del divino». «Può restare, è vero come oggetto culturale». Si parla tanto di lui come si parla di un reperto del passato, come passeggiando in un museo si contemplano ammirati le vestigia di un'epoca passata. «Si può ancora parlare di Dio, se c'è l'occasione. Ma parlare a Dio o ascoltare la sua parola, questo sembra non avere più senso». Resta un senso di vuoto, di assenza che genera la paura di essere stati abbandonati da Dio. Casomai emerge una struggente nostalgia di lui, la ricerca quasi ossessiva di segni del suo passaggio, di tracce inequivocabili del divino spesso ritrovate in eventi miracolosi. Anche il "ritorno del religioso", non sarebbe la smentita della scomparsa di Dio, ma piuttosto il contrario: «Questa religiosità è una conferma dell'ateismo: produce un Dio che è proiezione del desiderio e dell'angoscia». E infatti sfiora il fideismo: o ci credi e neghi la paura, o mantieni uno sguardo critico e allora neghi la fiducia in tutti i segni del divino. La paura è semplicemente la negazione di Dio, la fede è non sentire più alcuna esperienza di vuoto, è vivere in un costante e perdurante senso della immediata sua presenza. Una certa enfasi della presenza lo conferma: chi accede alla fede nella forme attuali del ritorno al sacro, spesso si lamenta di non riuscire a mantenere quel "senso della presenza" che ha sperimentato in quelle esperienze iniziali. Come se non riuscisse a mantenere il livello di intensità che lo ha iniziato alla fede: se si affaccia la paura, la fatica, sembra che tutto possa venir meno. Non si da possibilità: o immediatezza della presenza e quindi fede; oppure scomparsa delle tracce di Dio e quindi paura e non fede.


Esiste un'altra possibilità però. Bellet la introduce facendo parlare l'esperienza. Tre modi di entrare nella paura, tre citazioni che meritano di essere ascoltate:

«(Dio) ha permesso che la mia anima fosse invasa dalle più spesse tenebre e che il pensiero del Cielo, così dolce per me, non fosse altro che soggetto di lotta e di tormento […] L'immagine che ho voluto dare delle tenebre che oscuravano la mia anima è così imperfetta come una brutta copia al modello; tuttavia non voglio scriverne oltre, avrei paura di bestemmiare… Ho già paura di aver detto troppo» (Teresa di Lisieux)

«Mio Dio, io non vi amo, non lo desidero, con voi mi annoio. Forse non credo nemmeno in voi […] Se volete che io creda in voi, datemi la fede. Se volete che vi ami, datemi l'amore. Io non ne ho e non ci posso far nulla» (Maria-Noël)

«Molti pensano che la mia fede, la mia speranza e il mio amore mi colmino profondamente e che l'intimità con Dio e l'unione con la sua volontà impregnino il mio cuore. Se solo potessero sapere … io assaggio la non esistenza di Dio, il fatto che Dio non sia Dio. Questo in me è una terribile prova. Come se in me tutto fosse morto, tutto di ghiaccio» (Madre Teresa di Calcutta)

«Ho conosciuto ore di dubbio, mezze giornate di dubbio. Non c'era più nulla. Non c'era nulla e nulla irradiava, di tutto ciò che avevo creduto e che mi era stato dato. Io continuavo. Mi vedevo avvicinarsi il giorno in cui non avrei più avuto fede» (Card. Congar).


Chi sono? Sono uomini e donne lontane da Dio che non sanno credere? No. Sono la testimonianza di cosa accade nel cuore profondo di un'esperienza credente che attraversa la regione del silenzio di Dio e della sua assenza. Sono Teresa di Lisieux, santa e dottore della chiesa; Maria-Noël, grande poetessa cristiana; Madre Teresa di Calcutta, beatificata; il cardinal Congar, pilastro del Concilio Vaticano II.

2.3. Il compito della fede nel nostro tempo: credere nel tempo in "lui può mancarci"

Aggiungo anch'io una citazione poetica di Carlo Betocchi che apre alla strada al terzo nostro momento:


Lui che mi dette con la vita il corpo,

questo campo robusto che assicura

l'anima, in cui alligna e matura la grazia,

Lui non ha avuto paura che mi guastassi,

che perdessi la fede: ed ha lasciato

che il nemico infierisse. Che cos'è

che voleva, allora, se non che alla fine

mi ricordassi che non si vive di solo

pane, e nemmeno di sola grazia,

ma anche di buio coraggio di quando

Lui può mancarci: e occorre rifarlo in noi,

e riconoscersi vivi nei gemiti

delle montagne squassate dai terremoti,

perché l'evenienze del mondo sono

infinite, le catastrofi miserevoli

e senza alcuna spiegazione plausibile

alla nostra esigenza d'amore. Lèvati

allora, e datti da fare col tuo

coraggio. Dio ti riconoscerà per suo.


Carlo Betocchi


Credo che oggi la fede debba attraversare la stagione della paura non come esperienza estranea alla fede stessa, non come un indice della negazione di Dio, bensì come il coraggio di credere nel tempo del silenzio di Dio, della non immediatezza della sua presenza. Passaggio delicato. Come dice il salmo: Sul mare passava la tua via, i tuoi sentieri sulle grandi acque, ma le tue orme rimasero invisibili.

Se esiste una peculiarità della fede che attraversa l'esperienza della modernità e post-modernità credo sia proprio quella che entra in questa soglia e in questa prova. Credo che si possa leggere in questo passaggio il compito della generazione nostra, delle chiese che vivono nella cultura europea: ricostruire una relazione con Dio dentro il tempo della sua assenza, "rifarlo in noi" dice il poeta, con il coraggio di credere e amare anche nel deserto di un cuore che non ha risposte. "Dio ti riconoscerà per suo", dice il poeta. Perché anche Dio in Cristo ha attraversato questa regione di silenzio e deserto dell'anima.

III Passi verso la fede

Al termine del nostro percorso possiamo semplicemente, come conclusione indicare alcuni percorsi, passi verso la fede. Si tratta di imparare a credere tra paura e fiducia, riattivando una sensibilità che viene messa alla prova e proprio per questo deve re imparare a credere, ad avere fiducia proprio quando si prova la paura di credere. Sono semplici passi, percorsi che non hanno un esito scontato, che sono da intraprendere alla sequela di quel maestro che per primo ha attraversato la prova della vita imparando a credere, a vivere da figlio in questo mondo dove così spesso sembra che Dio sia scomparso.

Ritrovare l'affidabilità del mondo

Dio nelle cose ovvie della vita, imparare di nuovo a guardare

Un primo percorso è quello di vivere nel mondo imparando a guardarlo in modo nuovo. Lo sguardo dell'uomo occidentale sembra malato. Non vede più Dio nel mondo, lo cerca fuori dal mondo, nelle esperienze eccezionali, "sovra mondane", poste ai confini della vita ordinaria. La vita quotidiana, il mondo, è consegnato ad uno sguardo estraneo alla fede, dominato dalla tecnica e dalla economia. Le cose, i panorami, gli eventi della vita, le sue stagioni … sono interrogati alla luce di domande profane: cosa serve e quanto costa?


Ma queste sono domande estranianti che ci allontanano dal mondo. Mi ha colpito il sottotitolo di un convegno svolto dalla Facoltà Teologica di Milano: La fede nell'epoca della "perdita del mondo". Commenta Sequeri: « Il mondo non è più un interlocutore per l'uomo: chi parla più col mondo? Solo qualche stravagante eremita di ritorno: una specie al limite dell'anomalia, di cui si accende fugacemente la notizia. Il mondo è diventato magazzino di materie prime, deposito di risorse energetiche, spazio aperto per qualsiasi cosa riesca ad assumere dignità di merce, laboratorio totale per le più strampalate architetture della vita. Il guadagno di questa trasformazione dello sguardo, che vede ormai soltanto questo, del mondo, incomincia ad apparire anche come una perdita. […] Di nuovo, il presupposto e il contesto di questa apparente insensibilità ha un suo ordine di referenza immediato: la «perdita del mondo», appunto. L'esteriorità del mondo, abbandonata a se stessa, non incrementa affatto una migliore sensibilità per l'interiorità in cui soltanto si vorrebbe trovare Dio. Perché c'è un legame profondo fra Dio e il mondo. E un vincolo indissolubile fra interiorità e l'esteriorità di Dio nell'essere creato. Spiritus creator. Per la fede cristiana non è un ossimoro, perché tutte le cose – quelle visibili e quelle invisibili – sono create nel logos di Dio, quello che "pose la sua tenda fra noi"» 6.


C'è un legame profondo tra la perdita di Dio e la perdita del mondo. Se vogliamo ritrovare Dio dobbiamo ritrovare il mondo, tornarlo a guardare con gli occhi di Gesù.


Come guarda Gesù il mondo? «Agli occhi di Gesù gli elementi del creato, cose ovvie come il sole che splende ogni giorno, rivelano il Padre che illumina tutto. Esattamente come il sole che illumina tutte le cose, il Padre da la grazia al buono ed al cattivo, al giusto e all'ingiusto. È evidente l'attenzione non presuntiva di Gesù a ciò che spesso viviamo come ovvio. Le parabole raccontano soltanto cose ovvie del mondo: una donna che fa le pulizie e che finalmente trova una moneta che aveva perso; un'altra che fa da mangiare, prende un po' di lievito e aspetta che la pasta fermenti. Un padre che ha che fare con due figli scapestrati, uno peggio dell'altro: a uno dice di andare a lavorare nella vigna e quello risponde di sì ma non ci va; l'altro dice di no e poi ci va. Il pastore che va a lavorare, un contadino che semina, un fatto di cronaca ... […]. Gesù valorizza l'ovvio, fa attenzione alla quotidianità. E questa attenzione paga. Perché nel fatto che gli uccellini abbiano da mangiare o che nonostante tutto il padre ricerchi il figlio, Gesù vede il Padre, dappertutto. Egli arriva preparatissimo alla prova della paura della morte, non perché ha fatto degli esercizi eccezionali, ma perché tutti i giorni vedeva questo Padre attento e competente. Se fossimo attenti alle cose ovvie, ci accorgeremmo della compagnia di Dio che sostiene la nostra speranza. Non sempre consolante, magari è una compagnia che sveglia, che batte, ma la sua compagnia c'è sempre» 7.

La cura dei buoni legami e un nuovo senso di appartenenza

Nella linea delle cose ovvie, possiamo cercare Dio se non ci perdiamo di vista. Dio nessuno l'ha mai visto e non possiamo dire di amare Dio che non si vede se non ci prendiamo cura del fratello che vediamo. Non di quello che vorremmo, ma dei legami buoni e reali che la vita ci mette attorno. Vivere questa cura e questa vigilanza, e lasciare che altri si prendano cura di noi: questo è un buon esercizio per credere. E ci vuole una fiducia infinita e occorre non avere paura di quando ci sembra un'opera impossibile.


Qui accadono i miracoli di Dio: come nel primo miracolo di Gesù come lo racconta Giovanni (cf Gv 2). Non compie qualcosa di straordinario, ma ridona vigore e sapore a una gioia umana, al legame tra uomo e donna, alla festa dell'amore. Promette che il vino buono, il senso e la gioia di vivere, non sono quelle della prima ora, dell'amore spontaneo e travolgente dell'inizio, ma il vino migliore è quello dell'ultima ora, quello che ha attraversato la prova e la minaccia della fine. Nel testo di Giovanni c'è anche una icona bellissima dell'opera della chiesa. Come Maria e come i discepoli, non fanno prediche, non rimproverano gli sposi, ma si adoperano: rimandano tutto a Gesù e servono la sua opera perché quell'amore non venga meno.


Questa cura per i legami buoni della vita, per le relazioni tra uomini e donne, tra genitori e figli, proprio questa cura crea un senso nuovo di appartenenza. Troppe volte gli uomini e le donne si sentono soli nel compito immane di tessere relazioni e di coltivare il mondo. Potessero trovare una comunità che guarda con affetto, che "fa il tifo" la loro opera, si sentirebbero a casa, sentirebbero che non sono soli. E questo senso di appartenenza è l'antidoto alla paura, riaccende la fiducia.

Rileggere l'esperienza della paura nella logica pasquale

Da ultimo occorre imparare a rileggere le pagine della storia degli uomini e delle donne e la storia della nostra comunità con la logica pasquale: quella che non teme di morire per dare la vita, quella del seme che cade per portare frutto. Perché proprio nelle cose ovvie della vita, nei legami buoni che fanno la nostra vita, viene il momento nel quale tutto sembra perduto. In quell'ora la paura si fa compagna della nostra fede, ma anche la fede si fa compagna della paura.


Faccio solo un ultimo riferimento: un genitore soffre indicibilmente quando vede i propri figli che sembrano allontanarsi dalla fede, e li vede magari anche affrontare la vita senza protezioni ed essere in balia del male. Soffre, ha paura di aver sbagliato tutto, ha paura che tutto vada perduto. Eppure è proprio qui che impara a credere e non solo per se ma anche per coloro che ama. Credere è non disperare, è consegnare nelle mani del Padre non solo la propria vita ma anche quella di coloro che sono a noi affidati. Un gesto umile e povero come quelli della fede: dove proviamo la vertigine di un abisso, ma solo così possiamo sperare che il Padre ci sostenga e porti a compimento l'opera buona per la quale siamo pronti a dare la vita.


1 Giuseppe Angelini, Età della vita e pienezza del tempo. Per un'antropologia drammatica, in Giuseppe Angelini – Giuseppe Como – Virgilio Melchiorre – Patrizio Rota Scalabrini, Le età della vita: accelerazione del tempo e identità sfuggente, Glossa, Milano 2009, pp 73-131.

2 Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e Resa, Edizioni Paoline, Milano 1988 p 469).

3 Enzo Bianchi, La paura, in Parole Spirito e Vita 33 (1996), EDB, Bologna, p 3.

4 Rosario Merendino, Perché siamo angosciati?, in Parole Spirito e Vita 33 (1996), EDB, Bologna, p 287-288

5 Maurice Bellet, Dio? Nessuno l'ha mai visto, San Paolo, Milano 2010

6 Pierangelo Sequeri, La fede e la «perdita del mondo», Regno-att. n.8, 2010, p.241

7 Giovanni Cesare Pagazzi, Il prete oggi. Traccie di spiritualità, EDB, Bologna 2010, p 76