LA CAPPELLA DI FAMIGLIA
Sbattei la porta, infuriato: non ero mai stato così umiliato in vita mia.
Andai dal capo ufficio e scrissi lì, sui due piedi, la lettera di dimissioni: non sarei rimasto un’ora in
più in quella ditta.
Fuori faceva freddo e non mi rimase che alzare il bavero della giacca: stava piovigginando.
Una volta fuori dovetti ripensare a quello che avevo fatto: mi ero appena dimesso da un lavoro, che svolgevo da trentanni.
Avevo ingoiato amarezze per tutti quegli anni, ma non dovevo certamente fare la sciocchezza di andarmene senza certezze.
Ero rimasto disoccupato a più di cinquant’anni e non avevo altro sostegno nella vita.
Rientrai a casa, poi incominciai a telefonare ad amici, parenti, conoscenti in cerca di un disperato lavoro.
Nessuno voleva aiutarmi: -Non mi serve nessuno! Mi dispiace, ma siamo al completo! Stiamo rischiando la chiusura e dobbiamo licenziare!-
Alla fine un vicino mi offrì il lavoro ripugnante di scavatore di fosse al cimitero: dovetti accettare per pagare l’affitto di casa.
Il primo giorno di lavoro stava nevicando, le mani e i piedi mi stavano congelando.
Mi dettero il piccone e la pala, m’indicarono dove scavare e rimasi solo.
Spalai terra fino alla bara, poi feci spazio attorno: avevo terminato il mio dovere.
Accesi la sigaretta, avevo ripreso a fumare e mi sedetti su una lapide.
Quello doveva essere un lavoretto per pochi giorni, invece divenne il mio posto fisso.
Ero ormai avvezzo a quel luogo triste: al dolere dei parenti, al divenire di vite di ricchi e di poveri.
C’era al centro del camposanto una cappella abbandonata, appartenente ad una famiglia patrizia, estintasi settantanni prima.
Quando pioveva mi rifugiavo lì, conoscevo tutti i nomi dei cari estinti collocati: c’era Geltrude, Arturo, Gabriele, Alessandra.
Le fotografie mostravano volti alteri di gente che era abituata a comandare, a pretendere.
Spesso restavo anche oltre le mie ore di lavoro lì, da solo a pensare, a rimuginare tutto il mio vissuto.
Avevo iniziato a bere e alzavo il gomito sempre più.
Quella giornata mi ubriacai e mi addormentai: un brivido di freddo alla schiena mi svegliò.
Era notte e certamente il cimitero era chiuso.
Mi alzai, cercando tastoni l’uscita, quando la mia mano toccò qualcosa che mi parve ripugnante: era un volto rinsecchito e umido che ansimava come una belva affamata.
Indietreggiai e impugnai il mio badile istintivamente per difendermi.
La fisionomia dell’essere s’intravedeva appena: era alta e sottile.
Camminava barcollando verso un loculo spalancato.
Con mio grande orrore lo vidi adagiarsi nella bara e richiudere la lapide.
Mancava poco all’alba e per mia fortuna il sole penetrò in quel luogo terrificante.
Andai a lavorare come nulla fosse, ma volli saperne di più: cercai in biblioteca notizie sulla nobile famiglia Arturi.
Erano stati ricchi, potenti, ma anche noti per le credenze esotiche, magiche, sataniche.
La loro estinzione avvenne in modo inspiegabile: morirono tutti d’anemia nell’arco di sei mesi.
I vecchi, i giovani e i bambini caddero ammalati: passarono a miglior vita senza lasciare eredi.
Tutte le loro ricchezze rimasero celate per sempre, in qualche luogo ormai sconosciuto.
Io cercai altre informazioni, poi dedussi che nella cappella degli Arturi ci fosse sepolto un non morto.
Quella notte mi ero salvato per qualche caso fortuito, forse perché i non morti spesso non vedono bene nel nostro mondo, ma seguono una guida vivente.
Volli saperne di più: scoprii che accanto al cimitero viveva un barbone dentro una baracca di stracci e cartone.
Andai da Lui, ero certo che sapesse qualcosa: l’avevo visto aggirarsi nel camposanto dopo il tramonto.
Rimasi nell’attesa e così potei costatare che a tarda sera scavalcava il muro di cinta ed entrava dagli Arturi.
Bussò alla lapide del vecchio Arturi, soprannominato in vita: il diavolo.
Il non vivente uscì e vagabondò come fosse un cieco: sicuramente cercava delle vittime, il sangue di qualche passante isolato.
Io rimasi nascosto e quando il mostro tornò lo colpii in pieno sulla testa con il badile: quello mi si rivoltò contro con furia pazza, come una belva feroce.
Lo colpii più volte, ma non cadeva: dovetti indietreggiare e inciampai.
L’essere spalancò la bocca con soddisfazione famelica.
Stavo per soccombere, quando riuscii ad infilzargli la pala in pieno petto: gli squartai il cuore.
Il vampiro cadde al suolo, sparse il suo sangue tutt’attorno e rantolò.
I suoi resti svanirono in una fiammata luminosa come i fuochi fatui.
Avevo vinto e la guida sarebbe tornata ad essere un semplice idiota.
Sapevo che questi non morti erano avidi: infatti, trovai nella bara il tesoro degli Arturi.
Avevo con me oro e gioielli sufficienti per il resto dei miei giorni: chiusi con le sepolture e anche con il vino, per sempre.
Arduino Rossi