LA SCULTURA
Camminavo su per
dirupi, dentro boschi, abetaie, castagni, pinete.
Correvo sui nevai,
dentro i canaloni, saltavo di sasso in sasso e
poi mi lanciavo in una
corsa sfrenata verso il fondo valle.
Questo mio modo di
concepire le camminate in montagna era considerato da folle dai più,
ma con ciò io proseguivo nella mia ricerca di emozioni forti tra
rocce, dentro crepacci, al bordo di precipizi.
Poi conobbi degli
alpinisti che mi fecero entrare nel loro gruppo
e fui presto un ottimo
arrampicatore.
Sarei potuto diventare
una guida, ma rinunciai: non era un lavoro per me.
I cittadini, per di
più ricchi, erano tutti presuntuosi, arroganti, o peggio
paternalisti.
Non amavo farmi
chiamare buon uomo, né ricevere pacche sulle
spalle come un animale
da soma.
Ero libero e non
sapevo cosa fosse la paura: la natura selvaggia
era affine alla mia
anima scontrosa, solitaria.
Odiavo tutto ciò che
fosse rumore, schiamazzo, detestavo le risate degli avvinazzati nelle
baite, nelle osterie.
Campavo con quello che
i forestieri mi davano per le mie sculture in legno.
Nel villaggio in fondo
alla valle non ero ben visto: mi consideravano un negromante.
Ero figlio naturale di
uno dei più noti erboristi, ma anche, si diceva, stregoni.
Alla sua morte, io
avrei dovuto subentrare nella sua bottega, ma
lasciai andare tutto
alla malora: non avevo la testa di uno scialbo e untuoso bottegaio.
Vendetti quel poco che
avevo ereditato e mi comprai una casupola, dove mi rifugiavo in
inverno, come una bestia nella sua tana.
Fu proprio lì che
quasi per noia appresi l'arte di intagliare il morbido legno della
foresta, ancora verde e resinoso.
Avevo un'abilità
insolita, un'agilità e una velocità nelle mani che sorprendeva
tutti.
Sostenevano in molti
che quella fosse una dote donatami dal Diavolo, l'ultima eredità di
una stirpe di stregoni.
Proprio esseri
mostruosi, diabolici, infernali, erano i soggetti da me preferiti e
quelle macabre sembianze, orripilanti, talvolta ripugnanti erano le
più apprezzate dai forestieri, le meglio pagate.
Con la mia arte sarei
potuto diventare ricco, ma invece il denaro guadagnato lo lascivo in
una scatola colorata nella baita, senza preoccuparmi di eventuali
furti.
Benché avessi
rapporti sporadici con la gente, solo quelli necessari per
sopravvivere, non facessi del male, anzi fossi diventato generoso
anche con il parroco e i poveri, la mia cattiva fama era accresciuta.
Si iniziava a
bisbigliare che fossi un ladro, un degenerato, un maniaco.
L'invidia nei miei
confronti aumentava con l'espandersi della fama delle mie opere: le
voci maligne non smettevano mai di ciarlare.
Persino i furti e i
più gravi atti vili erano attribuiti a me.
A quel punto apparvero
i testimoni, persona sospette, gran bevitori, mitomani, bugiardi
riconosciuti, che divennero credibili quando raccontavano di avermi
visto nei pressi di questo o quel misfatto.
I gendarmi iniziarono
a interessarsi a me, pur non credendo a quelle fandonie: mi cercarono
più volte per interrogarmi.
Io non avevo testimoni
o alibi per scagionarmi da tutte quelle assurdità: fui arrestato e
gettato in carcere dove avrei dovuto scontare molti anni.
Non ero adatto a
sopravvivere in un ambiente chiuso, umido e sporco, maltrattato dai
compagni di pena, dai secondini.
La nostalgia delle mie
montagne mi fu fatale: non mangiavo, ero
in un angolo in
silenzio.
Pure i più stupidi
tra i miei vicini di cella si stancarono di stuzzicarmi.
La mia abbronzatura
mutò in un colorito giallognolo, sempre più
chiaro.
La morte mi sorprese
ormai privo di sensi: ero diventato una larva, un cadavere con un
soffio di vita.
Ero completamente
innocente, ma questo non importava alle guardie, ai giudici, ai miei
compaesani ipocriti.
Ci fu chi provò
rimorsi, chi invece si sentì soddisfatto, mentendo pure a se stesso.
Qualcuno cercò una
timida riabilitazione della mia memoria.
Le mie opere erano
sempre più valorizzate: ora costatavo parecchio.
Ci fu chi guadagnò
vendendo ciò che aveva ottenuto con qualche centesimo o una scodella
di minestra.
La mia memoria, per
interesse, era rivalutata poco alla volta.
Pure il processo
penale stava per essere riesaminato e le numerose assurdità, che mi
avevano condotto alla rovina, erano
stigmatizzate dalla
stampa della città.
Tutto procedeva come
capita nel mondo, con la giustizia che arrivava tardi.
Nella mia nuova
dimensione stavo stretto: non avevo la pace, ma il rancore, la
rabbia.
Odiavo con tutto il
mio vuoto spirito chi mi aveva ingiustamente
condotto precocemente
tra le ombre perpetue.
Entrai nei loro sogni,
spalancai le loro menti con la mia immagine.
Mi videro, mi
immaginarono nel buio, ero dentro le loro coscienze.
Ero l'immagine della
morte, della dannazione, del terrore che gela le mani, i visi, i
cuori.
Volevo essere odiato e
non compatito, volevo essere udito nelle
notti di tempesta sul
monte, tra le rocce dure e aride, nelle vallate boscose, tra i pini
aggrappati ai dirupi.
Di me si parla ancora
e le mie sculture sono nelle chiese, esposte nei musei, ma tutti mi
chiamano lo scultore delle agonie, l'artista delle forme cadaveriche,
del lutto.
racconto di Arduino Rossi
racconto di Arduino Rossi