11 set 2012

di paura storie ....... LA SCULTURA













LA SCULTURA

Camminavo su per dirupi, dentro boschi, abetaie, castagni, pinete.
Correvo sui nevai, dentro i canaloni, saltavo di sasso in sasso e
poi mi lanciavo in una corsa sfrenata verso il fondo valle.
Questo mio modo di concepire le camminate in montagna era considerato da folle dai più, ma con ciò io proseguivo nella mia ricerca di emozioni forti tra rocce, dentro crepacci, al bordo di precipizi.
Poi conobbi degli alpinisti che mi fecero entrare nel loro gruppo
e fui presto un ottimo arrampicatore.
Sarei potuto diventare una guida, ma rinunciai: non era un lavoro per me.
I cittadini, per di più ricchi, erano tutti presuntuosi, arroganti, o peggio paternalisti.
Non amavo farmi chiamare buon uomo, né ricevere pacche sulle
spalle come un animale da soma.
Ero libero e non sapevo cosa fosse la paura: la natura selvaggia
era affine alla mia anima scontrosa, solitaria.
Odiavo tutto ciò che fosse rumore, schiamazzo, detestavo le risate degli avvinazzati nelle baite, nelle osterie.
Campavo con quello che i forestieri mi davano per le mie sculture in legno.
Nel villaggio in fondo alla valle non ero ben visto: mi consideravano un negromante.
Ero figlio naturale di uno dei più noti erboristi, ma anche, si diceva, stregoni.
Alla sua morte, io avrei dovuto subentrare nella sua bottega, ma
lasciai andare tutto alla malora: non avevo la testa di uno scialbo e untuoso bottegaio.
Vendetti quel poco che avevo ereditato e mi comprai una casupola, dove mi rifugiavo in inverno, come una bestia nella sua tana.
Fu proprio lì che quasi per noia appresi l'arte di intagliare il morbido legno della foresta, ancora verde e resinoso.
Avevo un'abilità insolita, un'agilità e una velocità nelle mani che sorprendeva tutti.
Sostenevano in molti che quella fosse una dote donatami dal Diavolo, l'ultima eredità di una stirpe di stregoni.
Proprio esseri mostruosi, diabolici, infernali, erano i soggetti da me preferiti e quelle macabre sembianze, orripilanti, talvolta ripugnanti erano le più apprezzate dai forestieri, le meglio pagate.
Con la mia arte sarei potuto diventare ricco, ma invece il denaro guadagnato lo lascivo in una scatola colorata nella baita, senza preoccuparmi di eventuali furti.
Benché avessi rapporti sporadici con la gente, solo quelli necessari per sopravvivere, non facessi del male, anzi fossi diventato generoso anche con il parroco e i poveri, la mia cattiva fama era accresciuta.
Si iniziava a bisbigliare che fossi un ladro, un degenerato, un maniaco.
L'invidia nei miei confronti aumentava con l'espandersi della fama delle mie opere: le voci maligne non smettevano mai di ciarlare.
Persino i furti e i più gravi atti vili erano attribuiti a me.
A quel punto apparvero i testimoni, persona sospette, gran bevitori, mitomani, bugiardi riconosciuti, che divennero credibili quando raccontavano di avermi visto nei pressi di questo o quel misfatto.
I gendarmi iniziarono a interessarsi a me, pur non credendo a quelle fandonie: mi cercarono più volte per interrogarmi.
Io non avevo testimoni o alibi per scagionarmi da tutte quelle assurdità: fui arrestato e gettato in carcere dove avrei dovuto scontare molti anni.
Non ero adatto a sopravvivere in un ambiente chiuso, umido e sporco, maltrattato dai compagni di pena, dai secondini.
La nostalgia delle mie montagne mi fu fatale: non mangiavo, ero
in un angolo in silenzio.
Pure i più stupidi tra i miei vicini di cella si stancarono di stuzzicarmi.
La mia abbronzatura mutò in un colorito giallognolo, sempre più
chiaro.
La morte mi sorprese ormai privo di sensi: ero diventato una larva, un cadavere con un soffio di vita.
Ero completamente innocente, ma questo non importava alle guardie, ai giudici, ai miei compaesani ipocriti.
Ci fu chi provò rimorsi, chi invece si sentì soddisfatto, mentendo pure a se stesso.
Qualcuno cercò una timida riabilitazione della mia memoria.
Le mie opere erano sempre più valorizzate: ora costatavo parecchio.
Ci fu chi guadagnò vendendo ciò che aveva ottenuto con qualche centesimo o una scodella di minestra.
La mia memoria, per interesse, era rivalutata poco alla volta.
Pure il processo penale stava per essere riesaminato e le numerose assurdità, che mi avevano condotto alla rovina, erano
stigmatizzate dalla stampa della città.
Tutto procedeva come capita nel mondo, con la giustizia che arrivava tardi.
Nella mia nuova dimensione stavo stretto: non avevo la pace, ma il rancore, la rabbia.
Odiavo con tutto il mio vuoto spirito chi mi aveva ingiustamente
condotto precocemente tra le ombre perpetue.
Entrai nei loro sogni, spalancai le loro menti con la mia immagine.
Mi videro, mi immaginarono nel buio, ero dentro le loro coscienze.
Ero l'immagine della morte, della dannazione, del terrore che gela le mani, i visi, i cuori.
Volevo essere odiato e non compatito, volevo essere udito nelle
notti di tempesta sul monte, tra le rocce dure e aride, nelle vallate boscose, tra i pini aggrappati ai dirupi.
Di me si parla ancora e le mie sculture sono nelle chiese, esposte nei musei, ma tutti mi chiamano lo scultore delle agonie, l'artista delle forme cadaveriche, del lutto.

racconto di Arduino Rossi