LA CAMERA
L'oscurità che
avvolgeva ogni angolo della mia stanza mi copriva di un malessere
quasi fisico, pesante come una cappa di nebbia.
Il mio dolore derivava
dalla paura dell'orrore che tutte le notti mi prendeva, quando
tornava lui. Sì! Lui, il mio nemico, il mio ospite. Spesso avevo
desiderato la morte, ma non era giunto a progettarla. Quella mia
cameretta da scapolo con un bagno scomodo, stretto, era tutto ciò
che avevo. Non c'era la cucina, perché pranzavo alla trattoria della
via accanto, mentre la cena e la colazione erano sempre frugali, con
un po' di pane e formaggio. Sì! Ero proprio uno scapolo che si
accontentava di poco: riuscivo a risparmiare sul mio stipendio da
impiegatino, a dire il vero un po' magro.
Avevo pure una casetta
in campagna, ereditata dai miei genitori,
morti da alcuni anni.
Ero solo. L'unico fratello se ne era andato lontano, in un' altra
città e non sapevo più nulla di lui da anni: forse era morto di
stenti, o in carcere.
Era stato la pecora
nera della famiglia. Io invece ero stato l'esempio, l'orgoglio di
casa, ma non avevo avuto fortuna: quel posto, per me provvisorio, si
era trasformato nella mia prigione per vent'anni. Non ne potevo più
di quell'esistenza abitudinaria, di quel capo ufficio sempre
accigliato, pronto a umiliarmi con cinismo, colmo d'ira.
I miei colleghi mi
avevano tutti superato in carriera e io ero rimasto lì, al palo. Per
anni mi ero detto che quello non era un lavoro per me, invece tutti i
miei progetti erano finiti in nulla. Non ero stato capace di
tramutare i miei sogni in realtà: non ero diventato un imprenditore.
Non era il capitale
che mi mancava: avevo un po' di soldi, non molti, ma sufficienti per
aprire un piccolo stabilimento. Non erano le idee che mi mancavano,
ne avevo anche troppe.
Era la capacità
pratica e il coraggio d'azione, di cui ero completamente senza.
Aspettavo il momento
per intraprendere quello che ritenevo il mio futuro radioso, ma il
tempo si era ingoiato la mia giovinezza, gli anni più belli, le mie
speranze, i miei amori, a cui non ebbi mai il coraggio di
dichiararmi. Mi mancavano ancora anni prima della vecchiaia, ma non
avevo più la voglia di gettarmi in avventure: preferivo la
tranquillità di una squallida professione da piccolo contabile,
addetto alla meticolosa scrittura di bolle, indirizzi, registrazioni
di spedizioni.
Mi guadagnavo il pane
che mangiavo: mi pagavano poco per le ore di lavoro, sino a tarda
sera, e per il mio impegno da precisino. Non cercai mai un nuovo
impiego, pur sapendo che facilmente avrei trovato di meglio: non
sapevo ambire a qualcosa di più di ciò che avevo. Brontolavo, mi
lamentavo, non sapevo cosa fare per cambiare. Non avevo amici, non ne
avevo più: se ne erano andati come i miei progetti, persi senza un
motivo, lungo la strada della maturità. Dentro me qualcosa non
funzionava perché Quello lo avevo visto bene: era un'entità
malvagia, che mi tormentava di notte.
All'inizio ero
convinto che fosse una mia allucinazione, un brutto sogno fatto a
occhi aperti. Invece, dico purtroppo, le cose non stavano andando per
il verso giusto. Le cure, i calmanti non mi toglievano dagli occhi
quella forma vaga, brutta, ghignante: lo sentivo alitare su di me il
suo fiato lieve, da cadavere.
Perché mi
perseguitava? Lo sa solo Dio! Forse, sentiva la mia presenza
ingombrante: un'invasione del suo spazio, di quella che fu la sua
camera. Cercai informazioni e ottenni solo mezze risposte: lì era
vissuto e si era tolto la vita un povero pazzo, uno scapolo come me.
Mi dissero che gli assomigliavo pure nella parlata, nel modo di fare,
di agire: era stato un impiegato perfetto, puntuale, ordinato.
Impazzì e non si sa perché, forse per la solitudine.
Dopo alcuni atti
sconsiderati e violenti, ferì alcuni suoi colleghi con una pistola:
si uccise proprio dove dormivo io, nella camera.
Era quasi il mio
sosia, c'era un ripetersi di situazioni che mi sconcertavano: la mia
stanchezza sul posto di lavoro, la mia indifferenza, o presunta tale,
nei confronti delle donne, l'odio verso il capo ufficio.
Solo la mia volontà
era diversa, non volevo ripetere gli atti di quel poveretto. Invece
Lui mi suggeriva, mi consigliava di far male ai colleghi, di
combattere con la violenza, le astuzie, le cattiverie. Fu così che
cedetti alle sue tentazioni.
-Il Signor Di Canto si
è suicidato nella sua casa, in via... dopo aver sparato ad alcuni
impiegati. Il dramma della follia da tempo si stava preannunciando,
ma è sfociato in tragedia solo ora, per cause imperscrutabili. Di
Canto era considerato dai vicini e dai colleghi persona
irreprensibile, lavoratore ligio. Forse la solitudine e vecchi
rancori hanno fatto sfociare turbe mentali antiche. C'è solo un
fatto misterioso: il poveretto, morì con le braccia bloccate dal
pesante armadio di noce, spostato da una forza notevole. La polizia
ha indagato, senza esito: la porta della casa era perfettamente
chiusa da un catenaccio interno, pure le finestre erano serrate. Non
si è trovata una soluzione plausibile e si è archiviato il caso
senza altre indagini, benché l'ipotesi dell'omicidio non è svanita
totalmente. Di nessun fondamento è la voce popolare che fa risalire
la morte al cosiddetto fantasma del suicida: sono solo sciocchezze
del popolino.-
Racconto di Arduino Rossi