10 set 2012

storia breve ...LA CAMERA











LA CAMERA

L'oscurità che avvolgeva ogni angolo della mia stanza mi copriva di un malessere quasi fisico, pesante come una cappa di nebbia.
Il mio dolore derivava dalla paura dell'orrore che tutte le notti mi prendeva, quando tornava lui. Sì! Lui, il mio nemico, il mio ospite. Spesso avevo desiderato la morte, ma non era giunto a progettarla. Quella mia cameretta da scapolo con un bagno scomodo, stretto, era tutto ciò che avevo. Non c'era la cucina, perché pranzavo alla trattoria della via accanto, mentre la cena e la colazione erano sempre frugali, con un po' di pane e formaggio. Sì! Ero proprio uno scapolo che si accontentava di poco: riuscivo a risparmiare sul mio stipendio da impiegatino, a dire il vero un po' magro.
Avevo pure una casetta in campagna, ereditata dai miei genitori,
morti da alcuni anni. Ero solo. L'unico fratello se ne era andato lontano, in un' altra città e non sapevo più nulla di lui da anni: forse era morto di stenti, o in carcere.
Era stato la pecora nera della famiglia. Io invece ero stato l'esempio, l'orgoglio di casa, ma non avevo avuto fortuna: quel posto, per me provvisorio, si era trasformato nella mia prigione per vent'anni. Non ne potevo più di quell'esistenza abitudinaria, di quel capo ufficio sempre accigliato, pronto a umiliarmi con cinismo, colmo d'ira.
I miei colleghi mi avevano tutti superato in carriera e io ero rimasto lì, al palo. Per anni mi ero detto che quello non era un lavoro per me, invece tutti i miei progetti erano finiti in nulla. Non ero stato capace di tramutare i miei sogni in realtà: non ero diventato un imprenditore.
Non era il capitale che mi mancava: avevo un po' di soldi, non molti, ma sufficienti per aprire un piccolo stabilimento. Non erano le idee che mi mancavano, ne avevo anche troppe.
Era la capacità pratica e il coraggio d'azione, di cui ero completamente senza.
Aspettavo il momento per intraprendere quello che ritenevo il mio futuro radioso, ma il tempo si era ingoiato la mia giovinezza, gli anni più belli, le mie speranze, i miei amori, a cui non ebbi mai il coraggio di dichiararmi. Mi mancavano ancora anni prima della vecchiaia, ma non avevo più la voglia di gettarmi in avventure: preferivo la tranquillità di una squallida professione da piccolo contabile, addetto alla meticolosa scrittura di bolle, indirizzi, registrazioni di spedizioni.
Mi guadagnavo il pane che mangiavo: mi pagavano poco per le ore di lavoro, sino a tarda sera, e per il mio impegno da precisino. Non cercai mai un nuovo impiego, pur sapendo che facilmente avrei trovato di meglio: non sapevo ambire a qualcosa di più di ciò che avevo. Brontolavo, mi lamentavo, non sapevo cosa fare per cambiare. Non avevo amici, non ne avevo più: se ne erano andati come i miei progetti, persi senza un motivo, lungo la strada della maturità. Dentro me qualcosa non funzionava perché Quello lo avevo visto bene: era un'entità malvagia, che mi tormentava di notte.
All'inizio ero convinto che fosse una mia allucinazione, un brutto sogno fatto a occhi aperti. Invece, dico purtroppo, le cose non stavano andando per il verso giusto. Le cure, i calmanti non mi toglievano dagli occhi quella forma vaga, brutta, ghignante: lo sentivo alitare su di me il suo fiato lieve, da cadavere.
Perché mi perseguitava? Lo sa solo Dio! Forse, sentiva la mia presenza ingombrante: un'invasione del suo spazio, di quella che fu la sua camera. Cercai informazioni e ottenni solo mezze risposte: lì era vissuto e si era tolto la vita un povero pazzo, uno scapolo come me. Mi dissero che gli assomigliavo pure nella parlata, nel modo di fare, di agire: era stato un impiegato perfetto, puntuale, ordinato. Impazzì e non si sa perché, forse per la solitudine.
Dopo alcuni atti sconsiderati e violenti, ferì alcuni suoi colleghi con una pistola: si uccise proprio dove dormivo io, nella camera.
Era quasi il mio sosia, c'era un ripetersi di situazioni che mi sconcertavano: la mia stanchezza sul posto di lavoro, la mia indifferenza, o presunta tale, nei confronti delle donne, l'odio verso il capo ufficio.
Solo la mia volontà era diversa, non volevo ripetere gli atti di quel poveretto. Invece Lui mi suggeriva, mi consigliava di far male ai colleghi, di combattere con la violenza, le astuzie, le cattiverie. Fu così che cedetti alle sue tentazioni.

-Il Signor Di Canto si è suicidato nella sua casa, in via... dopo aver sparato ad alcuni impiegati. Il dramma della follia da tempo si stava preannunciando, ma è sfociato in tragedia solo ora, per cause imperscrutabili. Di Canto era considerato dai vicini e dai colleghi persona irreprensibile, lavoratore ligio. Forse la solitudine e vecchi rancori hanno fatto sfociare turbe mentali antiche. C'è solo un fatto misterioso: il poveretto, morì con le braccia bloccate dal pesante armadio di noce, spostato da una forza notevole. La polizia ha indagato, senza esito: la porta della casa era perfettamente chiusa da un catenaccio interno, pure le finestre erano serrate. Non si è trovata una soluzione plausibile e si è archiviato il caso senza altre indagini, benché l'ipotesi dell'omicidio non è svanita totalmente. Di nessun fondamento è la voce popolare che fa risalire la morte al cosiddetto fantasma del suicida: sono solo sciocchezze del popolino.-


Racconto di Arduino Rossi